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CAPITOLO SECONDO

2.3. b CONSENSO INFORMATO

L’articolo 32 della Costituzione italiana sancisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".

In linea con art 32 sopra citato, il consenso informato costituisce il presupposto fondamentale di qualsiasi atto sanitario o ricerca scientifica che coinvolga esseri umani, indipendentemente che venga richiesto da un medico, dalla sanità pubblica o da una società privata a scopo di lucro. Il paziente con esso esprime la volontà di eseguire il test solo dopo che è stato adeguatamente informato su procedura e finalità, eventuali rischi e benefici dei risultati (Niemec ,2016).

Nel Protocollo aggiuntivo alla Convenzione di Oviedo del 2008 (Additional Protocol to the Convention on Human Rights and Biomedicine concerning Genetic testing for Health Purposes del Consiglio d’Europa) si afferma che “il test genico può essere effettuato dopo che la persona interessata ha dato consenso libero ed informato”.

Alcuni autori hanno indicato una lista di elementi importanti da affrontare nel consenso informato, e sono: scopo del test, procedura dell’analisi, possibili rischi e benefici risultanti, altri test disponibili, volontarietà e possibilità di rifiuto dei test, uso futuro di dati e campioni, riservatezza dei risultati, consulenza pre-test (Niemec, 2016).

Il consenso informato consta, dunque, di determinate caratteristiche.

Deve essere informato, per fornire una spiegazione chiara e comprensibile al paziente (tenendo conto dell’età, delle capacità mentali e psicologiche del soggetto); consapevole, fornito da una persona capace di intendere e di volere; personale, ognuno ha potere di esprimere il controllo sui propri dati. Nel caso di soggetti minorenni, il consenso è fornito dal rappresentante legale; manifesto, ovvero esplicito, consentendo o meno la somministrazione test; specifico, ovvero è necessario per ogni singola prestazione; revocabile in qualsiasi momento dall’interessato (Bilancetti e Bilancetti, 2001).

L’informazione del soggetto deve avvenire durante la consulenza genetica, da professionisti preparati che fornisco un’informazione corretta ed esauriente che permetta al soggetto di esprimere un eventuale consenso libero da costrizioni (CNB e CNBB).

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Colui che sottoscrive il consenso e si sottopone al test hanno il diritto “di ricevere e scambiare le informazioni “, di accettarne la veridicità e scegliere quali informazioni che lo riguardano siano trasmissibili[..] ad altri nel caso in cui non si sottraggano al test ma si avvalga del diritto a non sapere”, acconsenta perciò all’analisi solo per beneficiare altri (CNB e CNBB).

A sua volta, il soggetto deve sottostare al dovere di riflettere sui motivi che lo portano a sottoporsi al test e sulle eventuali conseguenze che possono produrre(vedi par. 2.2 di questa ricerca) sia su se stesso, ad esempio un’ eventuale depressione nel caso le analisi confermino la suscettibilità ad una malattia o una possibile ansia per il conflitto interiore per il cambio d stile di vita, sia sui familiari biologici che possono esser coinvolti per la peculiarità di ereditabilità di alcuni di questi caratteri multifattoriali complessi.

Le normative nazionali e la legislatura internazionale nell’area dedicata alla genomica umana prevedono come diritto fondamentale, ugualmente al diritto di essere informato, il diritto a non sapere (CNB e CNBB).

Quest’ultimo indica il diritto “di non essere informato dei risultati degli esami genetici riconducibili alla propria persona e delle conseguenze, nonché dei risultati della ricerca medica e scientifica che abbia utilizzato tali dati “, diritto oggi riconosciuto dall’art 10 della Convenzione per la Protezione dei Diritti dell’uomo e della Dignità dell’essere Umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina (D’Andrea, 2011).

Questo diritto è di particolare rilievo soprattutto per quanto riguarda i test di suscettibilità dove la conoscenza della probabilità a sviluppare una malattia non sempre corrisponde ad un adeguato trattamento per scongiurarla. Il soggetto, dunque, corre il rischio di subire un turbamento importante senza ottenere alcun beneficio (D’Andrea, 2011).

Nella pratica clinica, talvolta, a differenza del diritto a conoscere, l’esercizio del diritto a non sapere avviene nel momento intermedio che intercorre tra la somministrazione del test e la consegna dei risultati, soprattutto nel caso di test genetici predittivi (CNB e CNBB).

Alcuni problemi in merito all’uso pratico di questo diritto possono derivare dalla multiproprietà del dato genetico. Quest’ultimo, infatti, non appartiene solo all’interessato che ha fato il test ma anche a tutti gli appartenenti alla sua famiglia biologica, perciò l’inaspettata scoperta di informazioni rilevanti per la salute,

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anche se non cercate (Incidental FindingsI), possono essere utili per la salute di terze persone appartenenti al medesimo gruppo genetico.

Ci si domanda, dunque, se sia lecito comunicare i risultati rilevanti a consanguinei e discendenti in modo da rispettare il diritto alla salute di questi. Dall’altro lato, però, un eventuale obbligo in tal senso rischia di violare doppiamente il diritto alla privacy, non rispettando la scelta di non condivisione dell’informazioni di colui che si è sottoposto al test e non tener in considerazione un eventuale esercizio del diritto a non sapere dei familiari coinvolti (Tonutti, 2016).

Una possibile risoluzione a questo paradosso potrebbe essere la richiesta, al momento di sottoscrivere il consenso informato con il soggetto, di un consenso aggiuntivo sulla sua volontà di coinvolgere o meno i parenti biologici.

In tal merito si è espresso il Consiglio d’Europa (Raccomandazione n.R(92)3 sui “test genetici e sullo screening genetico per scopi di natura sanitaria”, 1992) ed ha stabilito che i risultati inattesi possano essere comunicati alla famiglia solo se di importanza clinica e se il soggetto ne ha dato espresso consenso (Consiglio d’Europa, 1992).

Come accennato in precedenza, la conoscenza del profilo genomico dei soggetti comporta dei rischi. Nei Paesi caratterizzati da un’economia liberale (vedi ad esempio gli Stati Uniti) la probabilità di subire una discriminazione sociale in base a proprie suscettibilità genetiche, qualora divengano accessibili anche a terzi, è alta.

Casi di esclusione scolastica superiore e lavorativa, “mancata progressione di carriera” sul lavoro, rifiuto di polizze assicurative sulla salute e sulla vita ecc., potrebbero verificarsi a seguito di valutazioni genetiche ottenute tramite test di suscettibilità a malattie (CNB e CNBB, 2010).

Negli USA si sono già verificati alcuni episodi di discriminazione sul posto di lavoro, in cui soggetti con determinate predisposizioni genetiche non sono stati scelti per occupare l’incarico, così come casi di soggetti che si sono visti costretti a pagare polizze assicurative maggiori imputabili alla loro suscettibilità genica. A fronte di questa situazione, si è cercato di tutelare la popolazione con diverse normative federali in vari Stati, ma la svolta si è avuta nel 2008 con la legge GINA (Genetic Information Nondiscrimination Act) firmata dal presidente Bush e volta a regolare il trattamento dei dati genetici in ambito lavorativo e assicurativo (Stefanini, 2008).

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In Europa, tuttavia, questo tipo di stigmatizzazione è meno probabile per il profilo pubblico che ha la sanità negli Stati membri e potrebbe eventualmente manifestarsi in ambito privato riguardo a coperture assicurative addizionali e parallele ai servizi di sanità pubblica (CNB e CNBB, 2010).

Già la Convenzione di Oviedo nel 1997 in Europa (Convenzione europea sui diritti dell’uomo e la biomedicina 4 aprile 1997 e autorizzata alla ratifica in Italia con l. 28 marzo 2001, n.145, ma mai fin oggi ratificata dallo Stato italiano) prevedeva una sezione specifica del genoma umano fornendo indicazioni precise: all’articolo 11 stabilisce che “ogni forma di discriminazione nei confronti di una persona in ragione del suo patrimonio genetico è vietata “.

La condivisione dei dati genetici risulta, dunque, molto complessa e si auspica che il problema della discriminazione che eventualmente può conseguirne venga superata, almeno in parte, con l’aumento dell’alfabetizzazione genetica a seguito della diffusione dell’uso di test genetici predittivi (CNB e CNBB, 2010).

Nel settore dei test genetici predittivi DTC, inoltre, ogni azienda ha i propri termini di contratto e in assenza di una regolamentazione specifica che fornisca una tutela accurata dei dati, il rischio che questi vengano venduti o adoperati per chissà quali fini è alto.

La 23andMe nelle sue clausole, infatti, specifica che queste informazioni verranno usate per “scopi di ricerca e sviluppo”, “potranno essere trasferite a terze parti no profit o commerciali”, è necessario acconsentire affinché i dati siano asset trasferibile (cioè possano essere ceduti a eventuali futuri compratori della compagnia), ed è richiesto un consenso specifico per il loro uso in pubblicazioni scientifiche. Ciò detto non risulta valido per tutte le società.

La DeCodeME islandese, specifica espressamente che in caso di fallimento l’azienda non fornirà a terzi i propri dati, non specificando, però, in quali ricerche varranno utilizzati.

Inoltre, le aziende a cui viene spedito il proprio campione hanno sedi in Paesi diversi con legislazioni e norme differenti.

L’”European Journal of Human Genetics” si è occupato di questa tematica mostrando una panoramica sulle regolamentazioni di genomica personalizzata nei vari Paesi. Ne è emerso che la maggior parte delle società fornitrici di test DTC hanno sede in USA e sono perciò sottoposte a leggi federali, come quelle della FDA, e a leggi specifiche di ciascuno Stato.

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Anche in Europa la situazione si presenta frammentata e disomogenea fornendo così una “protezione a macchia di leopardo” (Pistoi, 2015).

Sebbene interventi come quello della FDA mirati a regolamentare test DTC come strumenti medici hanno mitigato un po’ la carenza legislativa in materiarendendo alcune aziende fornitrici di test genetici DTC conformi con linee guida internazionali e nazionali, i timori e le criticità sulla riservatezza, sulla privacy e sull’ uso secondario dei dati continuano ad essere elevate.

Nel lavoro di Laestadius e colleghi emerge, infatti, che la maggior parte delle aziende produttrici di test genetici DTC rispettata i protocolli di sicurezza, procedure di archiviazione e di divulgazione a terzi. Poche hanno parlato dei rischi di divulgazione dei dati e, nella maggior parte dei casi, non hanno evidenziato che la legge GINA non tutela da discriminazioni genetiche riguardo ad assicurazioni sulla vita, su disabilità e su assistenza a lungo termine. Una parte ha specificato come attuano la conservazione del materiale genetico, e solo la metà ha menzionato la possibilità di poter richiedere la distruzione materiale e in pochissimi hanno specificato per quanto tempo sarebbe rimasta archiviata tale informazione (Laestadius et al, 2016).

Da un lato, dunque, le aziende attuano la trasparenza per costruire la fiducia del pubblico nella ricerca; dall’altro sono disincentivate da tale comportamento in quanto, fornire informazioni sui molti rischi, farebbe diminuire l’interesse dei consumatori per i test genetici diretti al consumatore. Infatti, a livello economico e finanziario, le aziende hanno forte interesse a condividere e vendere questi dati raccolti per scopi sanitati.

Resta, dunque, pressante la necessità di regolare dettagliatamente questo settore quanto prima.

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2.4 BIOBANCHE

Fig.3. Biobanca (marialuisamanis.nota100.ilsole24ore.com).

Nel nuovo millennio si sono osservati importanti cambiamenti nell’ambito della genetica umana. I rapidi progressi delle tecnologie applicate alla genetica e lo sviluppo della ricerca in tale ambito hanno elevato l’interesse sull’analisi e la raccolta di materiale biologico umano.

Le banche biologiche, in quest’ottica, assumono un ruolo fondamentale per l’avanzamento delle conoscenze scientifiche in campo biomedico (CNB e CNBB, 2008). Lo stoccaggio di campioni biologici umani e le informazioni personali ad essi associati possono, infatti, essere utilizzati per numerose ricerche da cui ricavare dati preziosi per accelerare la ricerca biomedica, riducendo la dispersione di fondi e di tempo (Don Chalmers, 2016).

A testimonianza di questo, in molti contesti, l’avvio di grandi collezioni biologiche non è più dovuto all’iniziativa di singoli ricercatori, ma a vere e proprie azioni di governo (CNBB, 2008).

Negli ultimi venti anni, infatti, industrie ed governi hanno investito nelle biobanche, come, ad esempio, l’ex-presidente degli Stati Uniti Barack Obama che ha incluso nel suo “Precision Medicine Iniziative” la creazione di una grande biobanca nazionale (Cautfield e Murdoch, 2017).

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Il gene è divenuto una risorsa preziosa. La raccolta e lo stoccaggio di campioni umani, dunque, è aumentata e negli ultimi decenni si è assistito ad una proliferazione di biobanche che collegano il campione biologico a dati genetici, clinici e personali dei donatori (SIGU e Telethon, 2003).

Il termine Biobank è stato usato per la prima volta a metà anni ’90 in un articolo di Loft e Poulsen (Loft e Poulsen, 1996) per indicare la conservazione di campioni biologici e dati associati, organizzati sistematicamente per essere utilizzati dagli interessati, siano essi ricercatori o medici per l’assistenza sanitaria (Don Chalmers, 2016).

Nel 1999 in Svezia, si delinea la biobanca per la prima volta descrivendola come raccolta di campioni biologici umani i cui donatori siano sempre rintracciabili e che vengono conservati per specifici progetti di studio per un tempo determinato o indeterminato.

L’Università di Maastricht, nelle REGULATIONS per l’European Biobank del 2003, specifica, inoltre, che la biobanca è un’organizzazione che conserva e gestisce materiale biologico e dati clinici facendone corretto utilizzo e seguendo le indicazioni dei Comitati Etici Universitari.

Si sancisce anche che questa banca biologica debba essere un’“organizzazione no profit ufficialmente riconosciuta dalle autorità sanitarie competenti degli Stati membri e che deve garantire il trattamento, la distribuzione e la conservazione del materiale, secondo certi standard di qualità e professionalità” (Consiglio d’Europa Raccomandazione R(94))(SIGU e Telethon, 2003).

In linea con quanto detto sopra, i Consiglio di Oviedo nell’art. 21 sancisce che “il corpo umano e le sue parti non debbono essere, in quanto tali, fonte di profitto”, confermando il principio fondamentale di gratuità del materiale biologico umano riconosciuto a livello internazionale (SIGU e Telethon, 2003).

In Italia il Ministero delle attività produttive (2006) ha distinto le biobanche, da intendersi quali unità per la raccolta, il controllo e l’analisi di campioni biologici, e Centri di Risorse Biologiche (CRB), che rappresentano biobanche certificate per la qualità del proprio sistema di gestione da appositi organismi preposti, rinviando a specifici gruppi di studio dell’OCSE per i criteri di tale certificazione.

Le biobanche, inoltre, differiscono dalle mere raccolte di materiale biologico sorte spontaneamente, conseguite ad esempio donazioni di malati nelle strutture ospedaliere. Allo stesso modo si distinguono dalle raccolte dati che non devono

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sottostare alle normative di accreditamento e certificazione cui sono sottoposte le biobanche (CNBB, 2008).

Le biobanche nei documenti internazionali si definiscono anche in funzione al diverso tipo di campione che conservano.

Le biobanche genetiche sono “unità di servizio, senza scopo di lucro diretto, finalizzate alla raccolta e alla conservazione di materiale biologico umano utilizzato per la diagnosi genetica, per gli studi sulla biodiversità e per ricerca. La peculiarità delle biobanche genetiche, richiede che i campioni conservati siano collegabili ai dati anagrafici, genealogici e clinici relativi ai soggetti da cui deriva il materiale depositato” (SIGU e Telethon, 2003).

Le banche biologiche rappresentano una preziosa risorsa per il progresso delle conoscenze genomiche poiché favoriscono l’identificazione di mutazioni che causano malattie genetiche migliorando la comprensione delle basi genetiche di numerose malattie complesse e la predisposizione ad esse (SIGU e Telethon, 2003).

Il materiale biologico stoccato all’interno di queste banche biologiche, dunque, assume una duplice valenza poiché può essere “utilizzatosia a scopo personale sia a scopo più generale di ricerca, dato che non solo può predire la predisposizione individuale ad una manifestazione normale o patologica, ma può avere un impatto significativo sul gruppo familiare, fino ad estendersi alle generazioni future, agendo oltre il gruppo ristretto cui la persona appartiene,” permettendo “la comprensione sull’eziopatogenesi di molte malattie che riguardano estesi gruppi di persone” (CNBB, 2008).

L’UNESCO ha definito il genoma umano come patrimonio dell’umanità, evidenziando la necessità di preservarlo anche per le generazioni future, riconoscendone inoltre l’unicità del genoma del singolo individuo. In tal senso, è fondamentale che la banca utilizzi procedure che tutelino la riservatezza dei dati sensibili del singolo individuo (art14) (UNESCO, 2003).

Il CNBB, nelle linee giuda per le biobanche, afferma la necessità di sviluppare procedure che permettano ai soggetti di poter scegliere in modo consapevole un eventuale donazione di campione, mantenendo la possibilità di accedere, recere e distruggere i propri dati. Questo tipo di procedure richiedono un consenso informato ampliato che vada oltre l’acconsentire alla raccolta del campione e che specifichi le finalità e le modalità di conservazione del materiale collezionato.

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Deve essere illustrato, infatti, nella modulistica per tale consenso, che il campione potrà essere utilizzato per ricerche ulteriori senza scopo di lucro, devono essere indicati i vantaggi che ne derivano, qualora presenti, è necessario siano chiarite le procedure di tutela della riservatezza e garantito l’anonimato e le responsabilità per il mantenimento del campione nella biobanca. Dovrà, inoltre, essere specificata la possibilità di ritirare il consenso in ogni momento (SIGU e Telethon, 2003).

Quest’ultima evenienza, in particolare, così come la chiarezza sulla gestione del dato e del campione accrescono la fiducia dell’eventuale donatore alimentandone la percezione di trasparenza e coinvolgimento nelle finalità di ricerca (CNBB, 2008).

Purtroppo una chiara ed omogenea regolamentazione legislativa a livello nazionale ed internazionale, di tale settore scientifico tarda a comparire.

L’incertezza riguardo alla proprietà sui campioni e sul tipo di consenso appropriato risulta ancora elevata. Nonostante decenni di dibattiti e grandi investimenti pubblici e privati nelle biobanche, c’è ancora molta ambiguità sul controllo dei campioni e delle informazioni sulla salute (Cautfield, 2017).

A questo problema si aggiungono anche altre criticità di carattere etico, legale e sociale che hanno rappresentato una sfida che la comunità delle biobanche ha dovuto affrontare (Don Chalmers, 2016).

A livello internazionale si nota una grande variabilità nell’approccio e nella legislatura delle biobanche. Alcuni Paesi hanno introdotto una regolamentazione specifica, mentre altri hanno disciplinato le biobanche includendole nella legislatura già esistente.

È quest’ultimo il caso del Regno Unito dove gli ingenti finanziamenti pubblici e privati in questo settore non hanno condotto ad un quadro giuridico ad hoc ma hanno applicato la guida dell’Autorità per la ricerca sanitaria anche alle biobanche.

A Taiwan, invece, il parlamento ha approvato la “Human Biobank Management Act” (HBMA) per regolamentare l’istituzione, la gestione e le applicazioni delle banche biologiche.

L’atto indica anche le sanzioni previste in seguito ad eventuali violazioni delle regole stabilite, come ad esempio la divulgazione impropria dei dati personali, o

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qualora un ricercatore della biobanca non pubblichi regolarmente i risultati della ricerca condotta.

A tal proposito, la redditività a lungo termine è uno delle criticità che recentemente le biobanche hanno dovuto affrontare. All’inizio del terzo millennio, con grande entusiasmo, sono stati stanziati ingenti capitali, pubblici e privati, per istituire nuove biobanche come fossero la miniera d’oro della ricerca. Nel corso degli anni, però, si è assistito ad una riduzione di questa tendenza proprio per l’onerosità della manutenzione. Tali banche hanno dovuto rispondere dei dati prodotti a fronte della grande spesa per sostenerle; hanno dovuto farsi carico di responsabilità nuove, come la comunicazione con i partecipanti, i requisiti dello stabilimento e il ritorno dei risultati. In alcuni casi, l’interruzione dei fondi ha portato alla chiusura delle stesse, come nel caso della Singapore Bio-bank nel 2011 valutata insostenibile operativamente e finanziariamente, a causa di diversi problemi tra cui la sottoutilizzazione.

“Le biobanche potrebbero essere incredibilmente costose” affermava già nel decennio trascorso il professor Hank Greely.

Per ovviare a questi problemi di sostenibilità si è pensato si inserire l’industria e le strategie di business nelle biobanche per attirare nuovi finanziamenti e rivitalizzare i vecchi finanziatori. Il rischio è che le aziende private condizionino le attività delle banche biologiche guidandole verso il guadagno e non verso la salute pubblica, vero motivo per cui erano state istituite, e che si perda la fiducia del pubblico, che si è dimostrata fondamentale (Don Chalmers, 2016).

Un lavoro condotto in Canada nel 2012 mostra che la fiducia della popolazione nei ricercatori finanziata dall’università era elevata, ma questa crollava vertiginosamente quando erano le società private a finanziare i ricercatori o la biobanca (Cautfield, 2017).

In una situazione finanziariamente critica, la collaborazione tra biobanche e l’istituzione di una rete interdisciplinare che permetta lo scambio di dati tra biobanche, è considerato un mezzo economico per accelerare la ricerca e contenerne i costi.

In una prospettiva futura, si può pensare addirittura al concetto di “biobanca ambulante”, dove non si collezionano più campioni biologici per lungo tempo ma si ha una partecipazione continua del donatore nel fornire materiale biologico, evitando i costi dell’infrastruttura (Don Chalmers, 2016).

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