II. SU FORMA E CONTENUTO DELL’ETICA SPINOZIANA
2. Interpretazioni a confronto
2.3 Considerazioni sulla normatività dei termini etici spinoziani
I due paragrafi precedenti ci hanno permesso di sottolineare l’importanza che le definizioni dei termini morali ricoprono nel progetto di una comprensione globale dell’etica
92
H. W. ARNDT, Buchbesprechung zu AA. VV., Spinoza’s Metaphysics. Essays in Critical Appreciation cit., “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 31 (1977), pp. 627-631, qui p. 628; la costante compresenza di desiderio e conoscenza è sottolineata anche in TEKMINE, Le modèle de l’homme libre cit., p. 448.
93
Cfr. LANDUCCI, L’etica e la metaetica cit., pp. 388 e s.
94
Ivi, p. 388; tra gli interpreti emotivisti Landucci stesso ricorda i già citati Frankena, Rohatyn e Mc
Shea.
95
WETLESEN, The Sage cit., p. 117.
96
Ibidem.
97
Cfr. ibidem. Riconoscere un fondamento emotivo alla morale spinoziana non porta in effetti ad un immediato relativismo etico; tra gli uomini sussiste infatti un potenziale consenso su norme e valori che dipende dall’attività delle loro emozioni, cioè dall’adeguatezza della loro conoscenza (cfr. ivi, pp. 274 e s. e E 4 P35 Dem).
63
spinoziana. Ci sembra tuttavia che gli interpreti ricordati trascurino, a volte, le chiarificazioni che lo stesso Spinoza ha fornito relativamente alla natura delle proprie definizioni. Nell’Ep 9 a De Vries, Spinoza distingue precisamente due generi di definizione: la definizione reale che «spiega la cosa quale essa è fuori dell’intelletto» e la definizione nominale che «spiega la cosa quale è o può essere da noi concepita»98. Le definizioni spinoziane vanno intese in entrambe le maniere: se considerate astratte dal concreto del sistema appaiono come definizioni nominali; viceversa, una volta reinserite nella trama di relazioni che le giustifica, indicano oggetti esistenti realmente (formaliter, quindi, e non solo objective). Certo è comunque il rifiuto, da parte di Spinoza, delle definizioni per genere e differenza specifica99 e il conseguente accoglimento del metodo definitorio genetico. Tale metodo sposta «la condizione di intelligibilità delle cose dal concetto di “genere prossimo” a quello di “causa prossima”»100, definendo un oggetto tramite il procedimento che lo porta a costituirsi e non in riferimento a proprietà scelte arbitrariamente. Il rapporto tra queste considerazioni e le definizioni specificamente etiche di E 3 e 4 resta comunque problematico. Non riteniamo al riguardo indispensabile proporre una personale riconduzione della metaetica spinoziana a qualche precisa categoria, stante anche la difficoltà oggettiva di qualificare univocamente termini utilizzati in contesti e con significati spesso differenti101. Ci preme invece comprendere, prima della ricostruzione del contenuto dell’etica di Spinoza, la possibilità o meno per il lessico morale spinoziano analizzato sino ad ora di soddisfare le richieste proprie delle etiche assunte come paradigmatiche all’avvio del presente lavoro (teleologia aristotelica e deontologia kantiana). Si tratta precisamente di capire quale rapporto possa sussistere fra termini etici spinoziani e normatività ipotetica o categorica102.
Uno dei presupposti fondamentali perché di normatività si possa realmente parlare è, a nostro avviso, la contingenza di almeno alcuni eventi, più precisamente di almeno alcune azioni umane. Per normatività intendiamo la capacità di prescrivere, di indicare un dover-essere il quale, trascurando le sfumature intermedie, può dover-essere ipotetico-condizionale (del tipo: “Se vuoi raggiungere un certo fine, allora devi…”) o categorico (“Devi”, senza condizioni).
98
Ep 9, p. 43 (p. 70).
99
Cfr. KV I, 7, 9, p. 33 (p. 187); cfr. BIASUTTI, La dottrina della scienza cit., part. pp. 114 e s.
100
Ivi, p. 132.
101
Rileva questa difficoltà anche Schnepf (cfr. SCHNEPF, Variationen der Frage cit., nota 34, pp. 434 e s.).
102
Sulle cautele necessarie al riconoscimento di una vera e propria normatività nell’etica aristotelica cfr.
supra, cap. I, nota 15, p. 10; sul tema della normatività in Spinoza cfr. part. MOLTHAN, Über das normative und
deskriptive Element cit. e M. BUBLITZ, Naturalismus und Normativität bei Spinoza. Versuch einer Vermittlung, Tectum, Marburg 2003.
64
Nel caso dell’etica aristotelica, il riferimento a uomini saggi come modelli di comportamento riveste chiaramente una funzione normativa di tipo condizionale103. Considerare l’agire di uomini di valore come criterio in base al quale disciplinare la vita pratica comporta scelte precise104 (anche se di una precisione non matematica). La figura del saggio, una volta assunta come modello, può quindi esplicare la propria forza normativa solo in un contesto nel quale il soggetto che ad essa guarda come regola può (nel duplice senso di “è capace di” e “gli è permesso di”) scegliere tra diversi corsi d’azione ugualmente possibili. In Kant, come è noto, la dimensione normativa dell’etica è potenziata al massimo e la condizionalità annullata105. È inoltre la legge morale stessa a rendere conoscibile il presupposto necessario per la propria esistenza, la libertà dell’uomo106. Libertà dell’uomo significa anche possibilità, mai completamente realizzabile, di purificazione dei moventi soggettivi dell’azione dagli elementi sensibili particolari107. Che l’agire umano possa deviare dalla determinazione causale propria del mondo fenomenico è quindi una possibilità reale, per quanto mai garantita. Coerentemente con l’accettazione sul piano teoretico della possibile contingenza delle azioni umane e, relativamente a Kant, sulla base dell’esplicita ammissione del libero arbitrio, le etiche aristotelica e kantiana presentano dunque entrambe, seppur in termini radicalmente diversi, chiari aspetti normativi, adeguatamente espressi nel vocabolario ad esse proprio. In Spinoza la situazione è piuttosto differente.
L’unità sistematica spinoziana e l’assenza di differenze metodologiche corrispondenti a differenti oggetti d’indagine implicano che la terminologia morale di Spinoza non faccia eccezione alle leggi necessarie dell’ontologia e rientri necessariamente nell’unico «quadro
103
L’uomo di valore «giudica bene di loro [delle azioni virtuose]» e per lui è bene «ciò che è veramente bene», egli è pertanto «misura di ciascun tipo d’uomo», ARIST. Eth. Nic., rispettivamente: I, 8, 1099a 23 (p. 71); III, 4, 1113a 25 (p. 123); IX, 4, 1166a 13-14 (p. 345). La condizione affinché l’uomo di valore eserciti di fatto la propria potenza normativa risiede ovviamente nel desiderio da parte degli individui di raggiungere la vera felicità. Posto il desiderio del fine (l’eudaimonia), la figura dell’uomo saggio può rappresentare concretamente un criterio normativo, un «criterio che non risiede in valori o […] norme scisse dall’esperienza concreta, ma che scaturisce da un ethos testimoniato, sì da rappresentare un punto di riferimento morale per il comportamento pratico dei propri simili» (DA RE, L’etica tra felicità e dovere cit., p. 124); sull’imperatività della saggezza pratica cfr. Eth. Nic. VI, 10, 1143a 8 e s. (p. 247).
104
«[…] l’elemento principale della virtù e del carattere sta nella scelta», Eth. Nic., VIII, 13, 1163a 23 (p. 333).
105
Non perché l’imperativo categorico sia un imperativo con antecedente necessario, come pensano Curley e James Morrison (CURLEY, Spinoza’s Moral Philosophy cit., p. 371; J. C. MORRISON, The Ethics of
Spinoza’s Ethics, “The Modern Schoolman”, 63 (1985-1986), pp. 173-191, qui p. 181), quanto invece, così ci
sembra, perché l’imperativo categorico è un imperativo del tutto privo di antecedente. Un imperativo con antecedente necessario, in linguaggio kantiano, sarebbe infatti comunque un imperativo ipotetico, ancorché assertorio e non problematico (cfr. LANDUCCI, L’etica e la metaetica cit., nota 55, p. 400).
106
«[…] se non vi fosse libertà, la legge morale non si potrebbe assolutamente trovare in noi», come effettivamente si trova (KANT, Critica della ragion pratica cit., p. 5).
107
«Se un essere morale deve concepire le sue massime come leggi pratiche universali», e in questo, per Kant, risiede l’agire morale, «esso può concepire queste massime soltanto come princìpi tali che contengano il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma semplicemente secondo la forma» (ivi, p. 55).
65
oggettivo all’interno del quale si dispiega la realtà»108. Ciò significa, a nostro avviso, che nessun termine morale spinoziano, exemplar compreso, può realmente svolgere una funzione normativa, essendo la contingenza di almeno certe azioni umane, uno dei presupposti fondamentali per qualsiasi effettivo discorso prescrittivo, falsificata dall’ontologia spinoziana. L’assenza di un lessico in grado di esprimere una reale normatività non esclude tuttavia la presenza quotidiana ed irrinunciabile nella nostra vita di asserti normativi, compresi ed accettati come tali. Questa apparente contraddizione, sulla quale ci soffermeremo nel terzo capitolo, può essere in parte già risolta riprendendo la distinzione di Landucci tra metaetica descrittiva e metaetica propriamente filosofica. Nell’ambito di un discorso “inadeguato”, aggettivi come buono o cattivo, perfetto o imperfetto, vengono tranquillamente, seppur indebitamente, utilizzati per formulare asserti morali, valutativi o normativi. Ciò che rende possibile questa pratica è appunto la credenza nella possibilità di scegliere, almeno in parte, i fini in vista dei quali agiamo e i mezzi per raggiungerli. Le critiche di Spinoza all’uso comune degli aggettivi morali rientrerebbero pertanto nella riflessione sulla morale comune (riflessione che Landucci chiama metaetica descrittiva) e nel costante processo di demistificazione delle credenze diffuse operato da Spinoza in tutte le sue opere. Il senso della determinazione del bene e del male secondo i criteri del certo scire, ovvero della metaetica filosofica di E 4, sembra invece di più difficile comprensione. Abbiamo ipotizzato che nessun termine etico spinoziano possa realmente, cioè considerato dal punto di vista della conoscenza adeguata, prescrivere alcunché, mancando le condizioni perché di normatività si possa parlare109. Che senso può dunque avere la formazione di «un’idea dell’uomo come modello della natura umana, al quale tendere»110, in riferimento al quale è inoltre opportuno conservare vocaboli come ‘bene’, ‘male’ e ‘perfezione’? Rimandiamo l’approfondimento di questo problema al prossimo capitolo; crediamo infatti sia prima indispensabile ricostruire il “contenuto” dell’etica spinoziana, le parti della sua opera direttamente impegnate a descrivere l’exemplar, a formulare giudizi di valore o a fornire prescrizioni morali.