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Mi è accaduto più volte di soffermarmi su un documento rimasto sconosciuto fra le carte dell’archivio capitolare, che descrive lo svolgimento di una seduta giudiziaria, presieduta dal duca di Carinzia nel settembre del 1123 in Verona (638), sul cui significato nell’ambito dell’evoluzione delle strutture pubbliche ci soffermiamo nel prossimo capitolo.

Al cospetto del duca Enrico (639), di giudici, del conte veronese e di altri conti, di capita- nei e avvocati di chiese, l’arciprete del capitolo Tebaldo, con due diaconi e l’avvocato, ‘recla- ma’ contro quei canonici che infrangevano una consuetudine, usus, da tempo adottata dalla chiesa: secondo questo usus, qualora un singolo canonico avesse compiuto una investitura rela- tiva ai beni da lui detenuti e goduti in feudo – « ...si aliquis ex canonicis aliquam investituram de suo feudo faceret» –, se il canonico cessava di vivere o adottava la regola della vita comune, i beni concessi dovevano tornare «in communi fratrum» ovvero nella mensa comune.

[156] Il duca, udita la reclamacio, a seguito del consilium dato dai giudici e dagli altri sa- pientes presenti, emette la sentenza, «protulit sententiam», una sentenza che risulta più articolata

(634) ACVCarte, n. 90, 1139 gennaio 11, Verona, già edito in Castagnetti, Arimanni in ‘Langobar- dia’ cit., n. 21.

(635) Sulle vicende di Grezzana nell’alto medioevo e in età comunale si veda Varanini, Linee di sto- ria medievale cit., pp. 104-130.

(636) Cfr. sopra, t. c. nota 82.

(637) Castagnetti, Arimanni in ‘Langobardia’ cit., p. 35.

(638) App., n. 20, 1123 settembre 22, fuori Verona. Anche se non si tratta di un placito svolto se- condo le forme tradizionali, come altre volte abbiamo segnalato (cfr. anche C. Wickham, Justice in the Kingdom of Italy in the Eleventh Century, in La giustizia cit., p. 242), la sentenza del duca, quando viene presentata in giudizio nella curia dei pari, viene ricordata come una seduta giudiziaria svoltasi nella forma tradizionale del placito (ibidem, p. 243, nota 100): «... hostendebant cartulam per manum notarii scriptam: hunc talem morem olim apud Henricum ducem de Marcha, cum in iudicio resideret prope ecclesia Sancti Zenonis ad iusticiam faciendam, probatum esse et quod idem dux hunc iam dictum morem confirmavit et etiam sua propria sententia, cum consilio iudicum aliorunque sapientum, qui ibi aderant, constituit ...» (app., n. 22, 1139 settembre 16: il corsivo è nostro).

rispetto alla richiesta: il duca stabilisce che l’investitura, che in tale modo si svolgeva nel passa- to, concessa cioè dall’arciprete, dall’arcidiacono o da alcuni canonici senza il consenso comune dei confratelli, non avesse valore né dovesse essere compiuta in futuro; se, tuttavia, essa era stata fatta, dovesse essere considerata come vuota di contenuto ovvero vanificata nel suo effetto giuridico.

Sembra, pur nelle difficoltà di interpretazione derivanti dalla scarsa capacità del notaio re- dattore di chiarire gli aspetti formali del procedimento e quelli giuridici complessi della senten- tia, che il duca accetti la tesi dell’arciprete, cioè che, in caso di adesione da parte del canonico, che ha concesso il feudo, alla vita comune o in caso di sua scomparsa, l’investitura sia invalida- ta e che il bene dato in feudo torni a disposizione della chiesa: in tale forma sarà presentata la richiesta dell’arciprete nella curia dei vassalli del settembre 1139 (640).

L’interpretazione nella sententia ducale può apparire meno restrittiva rispetto alla richiesta dell’arciprete, in quanto limita l’obbligo della restituzione da parte dei vassalli solo nel caso che i beni siano stati concessi dai rettori della chiesa o da altri canonici senza l’approvazione della comunità,;ma in tale modo il duca, mentre dichiara invalide le investiture concesse senza il ri- spetto di tali forme, viene a proclamare, constituit, come viene reso esplicito nella più tarda esposizione del contenuto del placito (641), un principio generale, la validità cioè delle investi- ture – potremmo dire ‘solo’ di queste investiture – compiute dai rappresentanti legittimi della chiesa, anzitutto dall’arciprete e dall’arcidiacono, poi da altri canonici, se convalidate dal con- sensus communis.

Ne possiamo dedurre che la validità dell’investitura non decade con la morte del canonico concedente, poiché ora un peso [157] determinante assume l’ente ecclesiastico, venendo ad essere ridotto, se non escluso, almeno nelle intenzioni, il ruolo del rapporto personale tra l’investitore e il vassallo e rafforzato il ruolo di controllo, per così dire, istituzionale dell’ente, secondo le direttive già enunciate nel programma del pontefice Gregorio VII, che ancor più dichiarava necessarie per la validità degli atti di cessione e di investitura in feudo di beni eccle- siastici l’approvazione di vescovi, metropoliti e pontefici (642). Nella stessa direzione, in prati- ca, anche se con finalità proprie, si muoveva l’introduzione della ‘vita comune’ o ‘regolare’ nelle canoniche, sostenuta dai pontefici dagli inizi del secolo (643), quella vita comune che, se adottata dal canonico concedente, l’arciprete considera una delle due cause di cessazione della validità dell’investitura in feudo.

In tale modo, il duca, riconoscendo valide solo le concessioni in feudo compiute dai rettori o da altri canonici con il consenso di tutto il capitolo, rendeva invalide tutte le altre investiture effettuate per iniziativa individuale, superando la richiesta presentata dall’arciprete, che si limi- tava a dichiararne la cessazione alla morte o all’adozione della vita comune del canonico conce- dente (644), una richiesta che si fondava sulla consuetudine (645), la quale a sua volta, anche se non dichiarato dall’arciprete, era già stata sancita – per quanto concerne [158] invero

l’eventualità della scomparsa del canonico, non l’adozione della vita comune, di cui si era tratta- to in tempi recenti – da una costituzione imperiale della fine del secolo X, quando l’imperatore Ottone, nel suo programma di protezione delle chiese e dei monasteri e di recupero dei loro beni, nella finalità di assicurare ai rettori di questi enti la possibilità di assolvere i loro impegni al servizio dell’Impero, aveva decretato che le concessioni scritte di beni, quali i livelli e le enfi- teusi, fossero revocate alla morte del concedente, così che i beni fossero recuperati nella pro-

(640) App. n. 22, 1139 settembre 16, Verona. (641) App., n. 22.

(642) C. Märtl, ‘Res ecclesiae’, ‘beneficia ecclesiatica’ und Regalien im Investiturstreit, in Chiesa e mondo feudale cit., pp. 462-463.

(643) M. Maccarrone, I papi del secolo XII e la vita comune e regolare del clero, in La vita comune del clero nei secoli XI e XII, Milano, 1962, pp. 353 ss.

(644) Secondo l’esposizione del contenuto del placito ducale, effettuata dal notaio Paltonario (app., n. 20, 1139 settembre 16), l’arciprete avrebbe precisato, nella sua reclamacio al duca, che l’investitura sarebbe stata dichiarata invalida se effettuata dal singolo canonico senza «sine conscilio aliorum fratrum», il che potrebbe riflettere in modo verosomile le modalità effettive della richiesta, se consideriamo che altri aspetti e particolari di rilievo il notaio redattore del placito ha tralasciato o malamente espresso.

(645) Cfr. sotto, t. c. nota 685, per l’affermazione del vescovo Raterio che i beni, dopo la morte degli assegnatari, debbono tornare ad comunitatem.

prietà effettiva delle chiese, sancendo in tale modo la inalienabilità delle res ecclesiarum (646). Se tale norma doveva valere per i contratti scritti, a maggior ragione essa doveva valere per le concessioni in beneficio (647).

La sentenza ducale, che sembra accogliere la richiesta dell’arciprete, inserendosi in una tra- dizione antica e rafforzandola, si inserisce invece, impedendo, appunto, che fossero effettuate investiture di feudo necessariamente limitate nella durata, nel solco di una tradizione più recen- te, che possiamo definire ‘feudale’ e che trova il suo fondamento giuridico nell’edictum de be- neficiis, che si proponeva di rendere certa e stabile nel tempo la disponibilità del feudo per il vassallo (648). Nel sancire un rapporto ‘istituzionale’ tra l’ente e il vassallo, il secondo era sot- tratto all’aleatorietà del rinnovo per la scomparsa del senior, poiché, se il senior rimaneva uffi- cialmente ancora la persona che concedeva ritualmente il feudo, nei fatti questi doveva agire solo con il consenso o per delega dell’ente ecclesiastico, il che rendeva possibile la continuità del rapporto mediante la reinvestitura, divenuta presto pratica comune (649).

[159] La concessione della reinvestitura, anche nella dottrina, oltre che nella pratica, fu su- bordinata all’adempimento di alcuni atti formali: il vassallo, dopo la morte del concedente, in genere il rettore della chiesa, doveva presentare la richiesta di rinnovo della investitura entro un anno e un mese (650) o un anno e un giorno (651), rinnovo che doveva essere richiesto anche dai figli o altri eredi del vassallo, dopo la scomparsa di questo.

Ad esempio, Turrisendo, figlio di Tebaldo Musio, ‘manifestò’ all’arciprete Gilberto il feudo del quale il padre defunto era stato investito dall’arciprete precedente, Tebaldo, ora divenuto vescovo, adempiendo nello stesso atto ad un rinnovo del feudo, divenuto doppiamente necessa- rio, per la successione dell’arciprete e per la scomparsa del padre (652).

Nella vicenda processuale si notino, da un lato, il ruolo svolto [160] dalla consuetudine e, dall’altro, il suo adeguamento al diritto feudale, sancito nelle sue linee generali dall’edictum di Corrado II, ad opera della constitutio ducale. Nel placito ducale l’arciprete aveva chiesto al duca che fossero dichiarati non validi gli atti di investitura compiuti da singoli canonici perché ‘in- frangevano’ l’usus da tempo seguito nella sua chiesa in materia di detenzione appunto di feudi. Anche l’arciprete e il notaio, con lui o per lui, sono consapevoli della complessità di questi ruo- li: quando l’arciprete presenta nella curia dei pari la carta riportante il giudizio del duca, egli, dopo avere dichiarato che il duca aveva ‘confermato’ tale consuetudine – «dux confirmavit hunc ... morem» –, correggendo o meglio ampliando il contenuto della sua richiesta rispetto a quanto registrato nel testo originale, aggiunge subito dopo che il duca, con una sua propria sententia, aveva stabilito, constituit, il principio che nessun canonico – si noti la formulazione propria dei

(646) MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, I, Hannover, 1893, n. 23, 998 set- tembre 20.

(647) Cfr. Violante, La fluidità cit., pp. 16-18. (648) Cfr. sopra, par. 2.1.3.

(649) Un esempio, anche se non propriamente ‘feudale’, di continuità di rapporti proviene dal ‘patto’ di Bionde dell’anno 1091 (app., n. 13), nel quale sono previste, da un lato, la successione del senior o diacono investitore, dall’altro lato, la successione del gastaldo della comunità, che deve appunto chiedere l’investitura al senior del momento, che, da parte sua, ‘deve’ concederla, ricevendo una somma pattuita: cfr. sopra, t. c. note 616 ss.

(650) Lehmann, Das langobardische Lehnrecht cit., Antiqua, tit. VI, 12, p. 106 (nella parte più anti- ca), con riferimento esplicito ad un miles.

(651) Ibidem, tit. X, 1, 2, p. 144, trattato di Oberto dell’Orto, che sottolinea come tale norma non sia seguita dalla curia milanese. La norma è compresa in una delle ‘leggi’ sui feudi di Federico I: DD Fride- rici I, n. 91, 1154 dicembre 5, Roncaglia; si vedano anche alcuni diplomi federiciani: ibidem, n. 271, 1159 maggio 17, per Tinto Mussa; n. 329, 1161 giugno 22, alla chiesa di Avignone, ove sono prescritte norme dettagliate in materia di feudi eclesiastici, feoda ecclesie, quasi a costituire un “piccolo trattato di diritto feudale”, secondo le prospettive imperiali, come osserva Giordanengo, Le droit féodal cit., p. 65.

(652) Si vedano, a titolo esemplificativo, ancora per i Turrisendi, richieste di rinnovo dell’investitura e manifestazione di feudo degli anni 1189 e 1266 (documenti citati sopra, nota 328), nonché il rifiuto del vescovo di Trento di rinnovare l’investitura del feudo al figlio di Tebaldo di Turrisendo, con la motiva- zione che non aveva presentato la richiesta entro un anno e un giorno (doc. dell’anno 1218, citato sopra, nota 282).

privilegi imperiali e dei placiti pubblici: «... ut nullus canonicus ..» – potesse concedere investi- tura di beni della chiesa, a qualsiasi titolo da lui detenuti, senza il consenso degli altri canonici, ma non pone in risalto, pur essendone consapevole, che la constitutio ducale, invece, non aveva confermato semplicemente una consuetudine, ma aveva imposto che questa consuetudine fosse adeguata al diritto feudale, come era stato sommariamente decretato nell’edictum de beneficiis e come nella pratica esso si era venuto svolgendo, proteggendo i diritti dei vassalli, nella fattispe- cie impedendo che fossero concesse investiture ‘a tempo’.

La sentenza emessa dal duca assunse un valore di norma feudale del diritto consuetudinario locale, una ‘branca del diritto’ sviluppatasi soprattutto nell’ambito della formazione del diritto feudale (653), a conferma di quanto sostengono gli storici del diritto, secondo i quali, come si esprime il Calasso, «il feudo fu ... la più grande creazione consuetudinaria del medio evo» (654).

[161] Non è un caso, quindi, che una constitutio ducale sia stata emanata e osservata nella pratica giudiziaria nell’ambito della Marca Veronese e nella città di Verona, che di quella Mar- ca, ancora governata dai suoi duchi e marchesi, sia pure in forme via via meno continue ed effi- caci, rappresentava il centro fin dalla sua formazione, una struttura, tuttavia, che ancora a metà del secolo era percepita quale una realtà viva ed operante, nella quale agiva il dux de Marcha, le cui sententiae assumevano valore giuridico (655).