Come si è visto, la presenza delle donne nella migrazione è stata a lungo considerata marginale negli studi di settore, vuoi perché sino a pochi decenni fa non si disponeva di statistiche sugli spostamenti migratori divisi per sesso, vuoi perché si è sempre considerato che la donna fosse solo colei che raggiungeva eventualmente il marito già espatriato, il numero delle donne in migrazione è sempre stato considerato basso ed è sempre stato fortemente sottostimato, anche a livello di significatività sociale: sono state pressoché inesistenti, fino agli anni Settanta, specifiche ricerche sociologiche che avessero come argomento le donne nella migrazione, poiché fino ad allora la maggior parte degli studi sulle migrazioni concepivano la popolazione migrante come composta perlopiù di lavoratori maschi. Questo era corroborato anche dagli studi sui cicli migratori condotti da Böhning (1984)9 che, pur avendo il pregio di valorizzare l’elemento
9 Böhning elaborò un modello che si fondava sulle caratteristiche osservate nel regime
migratorio tedesco, basato sulla figura del Gastarbeiter, ma che venne poi da più parti ritenuto applicabile universalmente in Europa. Schematicamente, tale modello fornisce una lettura di stampo evoluzionistico della migrazione e delle sue trasformazioni nel tempo e nello spazio, interpretandola come un processo che si autoalimenta attraverso i seguenti cicli specifici:
1‐ inizialmente, i primi a migrare sono giovani maschi, celibi, occupati nell’industria, con progetti temporanei di migrazione
2‐ in un secondo momento si spostano anche uomini più adulti e sposati, con prospettive di stabilizzazione maggiore
dinamico del processo migratorio, avevano una rigidità che non consentiva di cogliere la varietà delle esperienze migratorie e perpetuavano una rappresentazione stereotipata della migrazione femminile come componente ancillare di quella maschile. Le esperienze delle donne nella migrazione, dunque, hanno per lungo tempo scontato un disinteresse da parte degli ambienti accademici e istituzionali, sia europei che statunitensi, che si è mantenuto fino a pochi decenni fa: questa gender blindness era giustificata, come si è visto, dal fatto che le migrazioni femminili erano ritenute complementari ai percorsi maschili e da questi inscindibili, idea che si nutriva dell’immagine stereotipata della donna limitata solo al ruolo di moglie e di madre.
Quando venivano considerati gli aspetti economici della migrazione, infatti, la gender‐blindness degli studi sociali si faceva ancora più evidente, poiché tradizionalmente era l’uomo che veniva considerato come migrante economico‐ lavorativo. Certamente il numero degli uomini che migravano era maggiore, tuttavia quello delle donne non è mai stato trascurabile e si è distinto per una crescita continua e costante e per non essere per forza collegato al flusso maschile ma per essere una componente spesso autonoma.
I primi pioneristici studi, in Europa, che pongono le donne al centro del dibattito sociologico sulle migrazioni risalgono ai primi anni Settanta e sono il frutto di esperienze autobiografiche di studiose di origine immigrata: si ricordano in particolare il lavoro pioneristico, in Francia, di Mirjana Morokvasic sulle donne jugoslave e quello di Leonetti‐Taboada, essa stessa figlia di rifugiati
3‐ la terza fase è quella delle prime stabilizzazioni, dei ricongiungimenti e del conseguente aumento della componente femminile e dei minori. Cresce la richiesta di servizi e la presenza di comunità etniche.
4‐ infine, la quarta è la fase della stabilizzazione matura delle famiglie. Gli immigrati non sono più solo produttori ma anche consumatori. È questa la fase più critica relativamente al rapporto con gli autoctoni, quella in cui cresce la diffidenza dei locali e la richiesta alle autorità di politiche di controllo.
della guerra civile spagnola, sulle donne iberiche. Nonostante ciò e nonostante alcune importanti organizzazioni internazionali, fra le quali l’Ilo, cominciarono proprio in quegli anni a considerare nei propri dossier anche l’apporto specifico delle donne nella migrazione, rimaneva ancora una certa reticenza nel considerare la migrazione femminile come un fenomeno talvolta indipendente, con diverse implicazioni e con specifiche caratteristiche rispetto a quella maschile: gli studi sulle migrazioni continuavano ad essere condotti in modalità
gender blind e la categoria del migrante era trattata in maniera generalmente
asessuata.
Un primo segnale di cambiamento di rotta si ebbe a partire dagli anni Ottanta, quando, in concomitanza con il dibattito sociale di stampo femminista che, in occidente, difendeva il conquistato ruolo economico delle donne anche al di fuori dalle mura domestiche, cominciarono a proliferare anche in ambito accademico ricerche sulle migrazioni femminili per lavoro (Morokvasic, 1980 e 1984; Phizacklea, 1983; Simon, Brettell, 1986). Questi lavori furono importanti per il dibattito successivo, poiché oltre a restituire un ruolo economico anche alla componente femminile, mostrarono chiaramente come le migrazioni per lavoro non sono sempre motivo di emancipazione ed empowerment per le donne: si comprese che l’esperienza femminile non può prescindere da aspetti culturali (come quelli legati alla vita famigliare e alla genitorialità) che intervengono notevolmente ad influenzarne i percorsi, sfatando l’idea diffusa che l’emancipazione femminile potesse attuarsi completamente sul piano politico senza fare i conti con i rapporti sociali e i legami di genere in cui le donne erano inserite.
È a partire dagli anni Novanta che la prospettiva sulle migrazioni femminili europee e nordamericane si avvia ad ampliarsi in modo significativo: cominciano proprio in questi anni a moltiplicarsi studi migratori con specifiche
letture in chiave di genere (Buijs, 1993; Anderson, 1997; Boyle, 1999), che ponevano l’accento spesso esclusivamente sulle esperienze femminili: la migrazione delle donne finiva così per non essere considerata e letta all’interno della cornice più ampia della migrazione, pur con sue categorie specifiche, bensì come un aspetto singolo, da interpretare a latere quasi fosse un fatto dotato di una sua completa autonomia dalle forze sociali circostanti, finendo per esasperare uno solo dei punti di osservazione esattamente come avevano fatto i criticatissimi scholars precedenti, anche se in direzione opposta: ora la tendenza era di voler sottovalutare la portata delle migrazioni per ricongiungimento famigliare, nonostante il loro numero elevato in Europa, e a negare loro l’importanza all’interno del fenomeno migratorio generale (Kofman
et al., 2000), perpetuando il modello stereotipo e tradizionale tanto criticato in
precedenza dalle femministe che dipinge la migrazione famigliare come un tipo secondario e dipendente di migrazione rispetto a quelle per motivi di lavoro. Veniva costantemente sottolineata la profonda diversità fra i due tipi di migrazione e si perdeva di vista, nel frattempo, che essi sono invece due facce della stessa medaglia: pur essendo chiaro che, in un sistema sociale, l’azione produttiva necessita sempre anche di forme di riproduzione sociale, il ruolo predominante delle donne in quest’ultimo caso veniva costantemente negato, quasi ci fosse il timore di poter arrivare a dover mettere in discussione o, peggio, rinnegare parte delle conquiste sociali ottenute con fatica dalle donne nei decenni precedenti.
È chiaro che il dibattito creatosi intorno alla posizione delle donne migranti rifletteva e si nutriva di quello riguardante il ruolo della donna e le relazioni di genere nelle società occidentali in trasformazione. La donna migrante, poi, portatrice di ulteriori forme di discriminazione rispetto alla donna autoctona si
prestava particolarmente ad essere utilizzato come emblema di battaglie politiche che riguardavano tutte.
Oltre a ciò, come nota Wihthol de Wenden (1996), le donne nella migrazione – considerate sia “vettori di integrazione” che “custodi della tradizione” insieme – pongono pungenti dilemmi nelle nostre società fra i principi di universalismo e individualismo, fra l’uguaglianza dei diritti e doveri e il rispetto e la tolleranza per le altre culture e religioni, fra pluralismo e identità: si pensi, ad esempio, a come esse si possano facilmente trovare al centro di dibattiti intorno ad argomenti spinosi quali il velo, le mutilazioni genitali, la poligamia, nei quali il punto di vista delle donne stesse scivola spesso in secondo piano rispetto alle strumentalizzazioni politiche.
1.9. Oltre le teorie classiche e femministe: per una ricomposizione di