Una ulteriore caratteristica particolare del lavoro domestico salariato è relativa al fatto che nella maggior parte dei casi, sia il lavoratore che il datore di
lavoro sono donne: si tratta, dunque, di un settore del mercato dominato in larga misura, sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda, da persone di genere femminile. Questo è direttamente collegabile alla tradizionale divisione dei ruoli produttivi e riproduttivi in chiave di genere, che ancora prevale in quasi tutte le società moderne (Gallotti, 2009).
La tradizionale divisione dei ruoli di genere, accentuata in Italia dalla presenza di un welfare sostanzialmente familistico che delega il lavoro di cura alle famiglie, dunque, si ripercuote su scala globale (Ambrosini, 2005) attraverso la globalizzazione della segregazione per genere nel mercato del lavoro: il settore occupazionale domestico e di cura, infatti, è quello che assorbe, in Europa, il maggior numero di donne immigrate, sia regolari che irregolari.
Se tale fenomeno viene letto all’interno del più ampio processo della crescente emancipazione femminile dei paesi sviluppati, che vede un numero sempre maggiore di donne lavorare fuori casa avvantaggiandosi del lavoro delle donne immigrate per potersi garantire anche un percorso professionale al di fuori della famiglia, è naturale giungere, come fa Andall (2000), alla conclusione che l’emancipazione delle donne occidentali sia ottenuta grazie al lavoro di altre donne, a spese dell’oppressione di soggetti più deboli, sulla scorta di un tacito sistema di sfruttamento che viene definito di “matriarcato domestico” (Morokvasic, Münst, Metz‐Göckel, 2008), quasi che l’emancipazione femminile occidentale potesse avvenire solo a discapito del lavoro di altre donne disposte a pagarne il costo sociale in termini di presa in carico dei ruoli e delle mansioni legate alla sfera domestica.
Questa prospettiva, tra l’altro, sembra andare nella direzione di quanto affermato da E. Colombo (2003), secondo il quale anche la categoria di genere non è neutra dal punto di vista dei rapporti di potere, dato che l’impiego delle donne immigrate nel lavoro domestico sia conseguenza del maggiore potere
sociale ed economico recentemente conquistato dalle donne occidentali a spese di altre donne più vulnerabili.
Tuttavia, è bene sottolineare che questo assunto è criticabile su almeno due fronti.
Innanzitutto, si può affermare che quella della donna occidentale, a ben vedere, non è una emancipazione reale, poiché trova la sua ragion d’essere esclusivamente in virtù di una miopia generalizzata sul suo ruolo nella società e nel mercato del lavoro, che si dispiega in dimensioni diverse: una miopia di tipo
economico, perché il massiccio ingresso della donna nell’attività salariata talvolta
non è frutto di una scelta veramente indipendente da bisogni economici; una miopia di stampo istituzionale, poiché la risposta ai bisogni sociali legati alla genitorialità e alla cura dei soggetti deboli e vulnerabili della cerchia famigliare è sostanzialmente sempre più affidata e delegata alle famiglie stesse, piuttosto che presa in carico dalla società; una miopia di tipo culturale, considerato che, nonostante la chiamata in causa di altre donne nello svolgimento di alcune mansioni domestiche tradizionalmente di sua competenza, è ancora principalmente alla donna all’interno della famiglia che viene attribuito il compito di organizzare il disbrigo di tali incombenze, incluso quello, eventualmente, di delegarle ad altre donne.
In secondo luogo, si tende a rifiutare l’idea di considerare la lavoratrice migrante esclusivamente come un soggetto debole e passivo, vittima dello sfruttamento economico al quale è sottoposta dalle famiglie italiane datrici di lavoro, riconoscendo ad essa, piuttosto, – pur non negando la particolare vulnerabilità di tali individui, connessa alla criticità che le variabili di genere, di etnia e di classe possono comportare – anche un ruolo di agency importante che si dispiega all’interno dello spazio quotidiano del lavoro domestico attraverso
la messa in campo di strategie finalizzate alla negoziazione micro sociale delle condizioni occupazionali e sociali.
In definitiva, il processo di emancipazione femminile dell’ultimo secolo sembra aver comportato cambiamenti maggiori nella sfera pubblica che in quella privata della vita delle donne: esse ottengono ruoli di prestigio nel lavoro extradomestico ma sono ancora sottoposte a disparità di trattamento per quanto riguarda il lavoro domestico, la cui distribuzione permane impari.
L’emancipazione femminile occidentale è una rivoluzione mancata, incompiuta, una rivoluzione di genere in stallo (Hochschild, 2003), che non è riuscita a superare l’ultimo step, non ha saputo rompere fino in fondo l’ultima barriera, quella della rinegoziazione all’interno della famiglia della divisione del lavoro domestico: «è una rivoluzione perché in due decenni le donne sono passate dal rimanere prevalentemente a casa al lavorare quasi tutte, ed è in stallo perché le donne sono passate attraverso questo cambiamento all’interno di un sistema culturale che non ha rivisto il proprio concetto di essere uomo al fine di facilitare la partecipazione degli uomini alla cura della casa, né ha riformato le logiche aziendali in modo da garantire più controllo e flessibilità sul lavoro» (pag. 222).
Perciò la disponibilità di manodopera immigrata, sempre femminile, da impiegare nelle mansioni domestiche è stata vista di buon grado da tutti, sia uomini che donne. Gli uomini per comodità, le donne per riuscire ad andare avanti nel menage famigliare senza dover ammettere la sconfitta del loro percorso. Come opportunamente sottolinea Morini, «siamo in presenza di un passaggio difficoltoso dei ruoli maschili e femminili e dell’organizzazione della vita quotidiana; la soluzione sembra essere, per ora, solo questa: utilizzare la forza lavoro dei paesi in espansione, in cerca di lavoro e realizzazione» (2001: pag. 112).
La maggioranza delle donne, impossibilitata a rinegoziare i ruoli interni alla famiglia con i mariti e compagni, spesso sceglie di risolvere la loro sindrome del
doppio giorno (Morokvasic, Münst, Metz‐Göckel, 2008), la loro doppia presenza,
affidandone gli oneri ad altre donne, disposte a farlo per motivi economici, alimentando quella che è stata definita la global care chain (Hochschild, 2000), la catena mondiale del lavoro di cura.
La ripartizione del lavoro per genere, dunque, non solo è resistente alle trasformazioni ma, in alcune circostanze, può essere addirittura intensificato: in un certo senso, infatti, le differenze di classe e status legate anche alla migrazione permettono in qualche modo il mantenimento dello status quo nella divisione del lavoro riproduttivo e rallentano il cambiamento provvedendo a sostituire il lavoro delle donne locali. Come osserva Bonifazi, infatti, «sorge spontaneo, sotto il profilo delle relazioni di genere, il dubbio che il ricorso a collaboratrici domestiche, donne per lo più, abbia contribuito a ritardare un più effettivo e reale riequilibrio della divisione di ruoli nelle attività domestiche ed extradomestiche all’interno delle coppie e delle famiglie italiane; in questo senso, la disponibilità di lavoratrici immigrate avrebbe rallentato la modernizzazione dei comportamenti sociali e l’adeguamento del sistema di welfare alle mutate esigenze della società» (1998: pagg. 171‐172). La presenza delle donne migranti nei servizi domestici, inoltre, avalla le gerarchie di genere presenti nella società, non solo agendo sulla struttura dei rapporti familiari delle società ospitanti, preservandoli, ma anche sulle società di partenza e sulle esistenze delle donne migranti stesse.
Infatti, l’aumento delle pari opportunità fra donne e uomini nel mercato del lavoro è capace di accrescere le disuguaglianze fra le donne stesse: paradossalmente, dunque, per effetto di un gioco a somma zero, un livellamento della disparità fra i generi causa un aumento della disparità
interna al genere femminile, che si risolve a favore del gruppo socialmente più avvantaggiato, le donne italiane.
La mobilità geografica per lavoro, dunque, che sta assumendo nuovi e sempre più complessi significati specialmente per le donne, le quali, storicamente, sono da sempre associate all’idea di immobilità e passività (Morokvasic, Münst, Metz‐Göckel, 2008), riguarda l’intero assetto della società e dei rapporti fra le sue parti.
Ecco perché una prospettiva di stampo femminista, che assume la sola visuale dei percorsi femminili, sarebbe limitante nella comprensione di un fenomeno che attraversa varie dimensioni della società nella sua interezza: questa visione critica del riduzionismo tipico dell’approccio femminista, condivisa anche da Parreñas, Hondagneu‐Sotelo e Hochschild, sostiene che, involontariamente, per un effetto perverso di nemesi, il peso della gerarchia e di rigidi ruoli sociali da cui si voleva liberare la donna è raddoppiato, ritorcendosi con nuova forza su di essa.
Sarebbe un errore pretendere di collocare la sfera riproduttiva dell’economia totalmente al di fuori del mercato, considerato che ne è la principale forma di mantenimento e di riproduzione della forza lavoro. È stato stimato, per esempio, che, oltre tutta quella parte di lavoro non riconosciuto e non misurato, il valore monetario del lavoro domestico non pagato è verosimilmente l’equivalente della metà del PIL di ogni singolo paese (Gallotti, 2009) e che la presenza delle donne prevale in tutti i settori dell’economia in qualche modo connessi con la cura di persone, in cui sono richieste tutte quelle competenze associate al mantenimento del nucleo famigliare e per le quali le donne sono percepite come aventi natural skills, come il settore educativo, quello sanitario, quello dell’assistenza ai bambini.
La divisione fra ruoli domestici ed extra‐domestici lungo le linee di genere ha sempre evidenziato come la partecipazione e il contributo delle donne fosse presente sia nell’economia privata che in quella pubblica (Gallotti, 2009), sia in quella salariata che in quella gratuita, anche se con diverse attribuzioni di valore e prestigio. Il basso valore attribuito al lavoro non pagato, per esempio, sembra essere equivalente a quello conferito al lavoro pagato nel settore domestico, che generalmente è portato avanti da categorie di lavoratori poco qualificati e poco pagati, fra cui per la maggior parte sono donne e sono migranti.