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1.9.   Oltre le teorie classiche e femministe: per una ricomposizione di genere nello studio delle migrazioni 

2.2.1. Il ruolo della politica: regolazione normativa e mercato del lavoro 

Le  limitazioni  agli  ingressi  degli  stranieri  posti  dagli  stati  europei  alle   frontiere hanno portato molti teorici delle migrazioni a rivalutare l’importanza  della  regolazione  normativa  (Massey  et  al.,  1998;  Bonifazi,  1999;  Ambrosini,  Boccagni, 2000; Ambrosini, 2005), sostanzialmente poco considerata nelle teorie  classiche  perché  formulate  in  epoca  in  cui  gli  spostamenti  di  lavoratori  attraverso  le  frontiere  avveniva  molto  più  agevolmente  rispetto  ad  oggi  (Ambrosini, Boccagni, 2000). 

Lo  stato,  attraverso  la  regolazione  delle  migrazioni,  esercita  di  fatto  una  specifica  selezione  sui  flussi:  oltre  a  determinarne  la  densità,  incide  sulla 

composizione,  sulla  destinazione  e  sull’inserimento  lavorativo  e  sociale  dei  migranti.  

Si  è  già  visto  come,  a  partire  dalla  metà  degli  anni  Settanta,  in  Europa  il  fattore politico abbia assunto un ruolo sempre meno marginale nel determinare  la  direzione  dei  flussi  migratori  che,  vedendo  chiudersi  l’accesso  ai  paesi  centrosettenrionali,  cominciano  a  dirigersi  verso  quei  paesi  le  cui  politiche  consentono ancora ingressi sostanzialmente di entrare liberamente. 

In  Italia,  in  effetti,  fino  alla  fine  degli  anni  Ottanta  gli  ingressi  erano  senza  restrizioni.  Dopodiché,  anche  per  rispondere  a  richieste  europee  di  controllo  delle  frontiere,  venne  emanata  nel  1990  la  legge  39,  conosciuta  anche  come  legge Martelli, che prevedeva, insieme ad una sanatoria per coloro che erano in  quel  momento  già  presenti  sul  territorio  italiano,  una  regolazione  organica  dellʹimmigrazione  in  senso  sostanzialmente  restrittivo  circa  le  modalità  di  ingresso  e  di  soggiorno  che  si  sostanziarono  con    l’introduzione  della  programmazione dei flussi dallʹestero, la ridefinizione dello status di rifugiato e  l’attivazione  di  provvedimenti  di  respingimento  alle  frontiere.  Per  la  prima  volta  in  Italia,  dunque,  anche  al  fine  di  venire  incontro  alle  richieste  che  provenivano  dagli  altri  paesi  europei  preoccupati  dalla  eccessiva  permeabilità  delle  frontiere  italiane  (Colombo,  Sciortino,  2004),  veniva  approvata  una  legge  volta  a  disciplinare  i  flussi  e  le  presenze,  che  tuttavia  non  ebbe  come  risultato  quello  di  contenere  effettivamente  gli  ingressi.  Come  ricordano  Colombo  e  Sciortino,  infatti,  «l’efficacia  di  questi  provvedimenti  è  paradossalmente  confermata  proprio  dai  cambiamenti  che  si  registrano  nei  processi  di  immigrazione irregolare proprio a partire dagli anni Novanta» (2004: pag. 57). 

È ormai appurato che gli ingressi, infatti, non si arrestano con l’inasprimento  dei  controlli  in  ingresso,  a  testimonianza  del  fatto  che  non  siano  solo  i  fattori 

migranti nei sistemi produttivi avanzati delle società contemporanee. Bonifazi,  infatti, sostiene che «le politiche esplicite di richiamo non hanno più costituito  l’elemento  indispensabile  di  attivazione  dei  flussi  che,  in  tutta  evidenza,  sono  riusciti a svilupparsi  in un contesto molto  meno favorevole di quello descritto  da Böhning, soprattutto perché la relazione tra la volontà dei governi e la reale  chiusura delle frontiere si è mostrata in pratica molto meno diretta ed efficace di  quanto si supponesse» (1999: p. 152). 

Le  conseguenze  delle  scelte  politiche  sui  flussi  migratori  si  riscontrano  a  livelli  diversi:  attraverso  l’introduzione  delle  quote  flussi  per  i  lavoratori  stranieri, per esempio, sono stati indirettamente favoriti ingressi non collegati ai  fabbisogni  del  mercato  del  lavoro,  fra  i  quali  quelli  determinati  dai  ricongiungimenti  famigliari;  mentre  le  restrizioni  normative  in  materia  di  mobilità possono aver influito sui progetti migratori stessi, allungando i tempi  di  rientro  in  patria  di  coloro  che  avevano  inizialmente  progetti  temporanei:  è  probabile  che  per  non  rischiare  di  non  poter  più  rientrare,  molti  migranti  si  siano stabilizzati per periodi più lunghi invece di attivare, per esempio, forme  di pendolarismo migrante (Ambrosini, Boccagni, 2000). 

Alla  chiusura  agli  ingressi,  però,  non  fanno  da  bilanciamento  adeguate  politiche di integrazione sociale ed economica per coloro che sono già presenti  sul  territorio  italiano,  permettendo,  in  questo  modo,  che  il  sistema  migratorio  italiano  finisca,  quindi,  «per  assestarsi  di  nuovo  sul  doppio  binario  degli  ingressi  irregolari  (…)  e  dell’assenza  di  un  vero  processo  di  stabilizzazione  degli stranieri già presenti» (Colombo, Sciortino, 2004: p. 58). 

Un  altro  effetto  importante  dell’azione  normativa  restrittiva  e  del  controllo  politico dei flussi migratori, infatti, è la crescita dell’immigrazione irregolare, in  gran parte stimolata anche dalla consuetudine alla pratica delle sanatorie. 

Nel  modello  migratorio  italiano  è,  infatti,  presente  una  combinazione  fra  limitazione  degli  ingressi  (sistema  delle  quote)  e  consuetudine  a  frequenti  provvedimenti  di  regolarizzazione  (sanatorie):  «da  un  lato,  infatti,  la  legge  limita  gli  ingressi  per  motivi  di  lavoro  attraverso  il  meccanismo  delle  quote,  indicate  annualmente  con  decreto  del  Ministero  del  Lavoro.  Dall’altro,  i  crescenti  squilibri  demografici,  primo  tra  tutti  l’invecchiamento  della  popolazione,  incidono  sulle  dinamiche  di  ricambio  generazionale  delle  forze  lavoro e sull’intensificarsi della domanda di lavoro nella sfera dell’assistenza e  della  cura.  Inoltre  la  popolazione  autoctona  è  sempre  più  restia  ad  accettare  impieghi  poco  qualificati  a  causa  della  crescita  dei  livelli  di  scolarizzazione,  mentre  la  domanda  di  lavoro  orientata  a  profili  di  basso  livello  continua  ad  essere  rilevante»  (Ferro,  Fellini,  2009:  p.  113).  Le  migrazioni  clandestine  o  irregolari,  dunque,  trovando  sostegno  sia  nelle  peculiarità  strutturali  del  mercato del lavoro italiano che nella diffusione dell’economia sommersa, sono  via  via  diventate  una  caratteristica  costante  nelle  economie  avanzate,  «tesa  a  coprire  lo  scarto  oggettivo  tra  obiettivi  delle  politiche  migratorie  e  cause  del  fenomeno» (Bonifazi, 1999: p. 152). 

A dimostrazione del divario appena accennato si pongono anche le leggi in  materia di immigrazione successive alla legge Martelli del 1990. 

Al  di  là  della  breve  parentesi  della  legge  40  del  1998,  nota  anche  come  Turco‐Napolitano,  che  tentò  di  ristrutturare  la  legislazione  migratoria  italiana  nella direzione della riduzione del divario fra azione finalizzata al controllo dei  flussi  e  delle  frontiere  e  azione  finalizzata  all’integrazione  degli  stranieri  residenti,  la  promulgazione  della  legge  189  del  2002,  detta  Bossi‐Fini,  si  pose  l’obiettivo di limitare l’irregolarità e i flussi in entrata esacerbando le condizioni  per  l’ingresso  per  lavoro  e  quelle  per  la  permanenza  stabile  e  regolare  sul 

territorio  italiano,  ottenendo,  di  fatto,  l’effetto  di  disincentivare  i  migranti  ad  entrare regolarmente in Italia (Colombo, Sciortino, 2004). 

Tale diffidenza nei confronti dei nuovi ingressi sul territorio nazionale, come  si  è  già  detto,  si  accompagna  alla  percezione  di  un  mercato  del  lavoro  che  è  avvertito  come  saturo  ma  che  in  realtà  presenta  ampie  e  notevoli  nicchie  di  inserimento  nella  twilight  zone  (Baldwin‐Edwards,  1999)  per  chi  è  disposto  ad  accettare condizioni di irregolarità, vulnerabilità, poca protezione. L’ambiguità  di status che accompagna questi “richiesti ma non benvenuti” (Zolberg, 1997),  questi “utili invasori”  (Ambrosini, 1999), richiamati da “importatori riluttanti”  (Ambrosini, 2007),  è manifestazione grave di quella dialettica del doppio asse  richiamata da Sciortino: lo stesso Zolberg afferma che tale forza lavoro, priva di  un forte status giuridico, è «selezionata sulla base di criteri economici, come la  disponibilità  a  lavorare  per  paghe  molto  basse  e  in  condizioni  dure  e  poco  sicure»,  in  modo  che  il  lavoro  che  gli  stranieri  svolgono,  «così  come  le  condizioni di vita a cui sono soggetti, assicura che il gap culturale fra i residenti  e gli immigrati persista o addirittura aumenti» (1997: pag. 30). 

Il  percepire  l’immigrazione  esclusivamente  come  una  “invasione”  opportunisticamente volta al tentativo di miglioramento della propria posizione   e  che  “asciuga”  le  risorse  socio‐economiche  e  di  welfare  dei  paesi  riceventi  ha  comportato una diffusa chiusura sociale ed istituzionale verso i nuovi ingressi.  

Tuttavia, come ricorda Saskia Sassen, «l’immigrazione è funzionale anche al  sistema economico dei paesi di destinazione», quindi «essa diventa componente  integrale  della  loro  crescita»  (1999:  pag.  130).  I  paesi  destinatari  non  sono,  dunque,  a  differenza  dell’immagine  collettiva  che  se  ne  ha,  soggetti  passivi  di  fronte al fenomeno delle migrazioni globali, perché «le condizioni presenti nei  paesi  di  destinazione  influenzano  dimensione  e  durata  delle  migrazioni  e,  dunque,  non  si  tratta  affatto  di  processi  esogeni  legati  solo  alla  povertà  e  alla 

crescita  demografica  nei  paesi  di  origine,  indipendentemente  dalla  capacità  di  intervento  dei  paesi  destinatari»,  che  dunque  hanno  il  «compito  non  già  di  respingere un’”invasione”, bensì di gestire un flusso strutturato» (Sassen, 1999:  pag. 130). 

Il modello mediterraneo – ed italiano in particolare –, come si è visto, si basa  su una circolarità fra limitazione degli ingressi attraverso il sistema delle quote  e  la  regolarizzazione  ex  post  dei  migranti  entrati  irregolarmente  tramite  sanatorie  cadenzate  a  distanza  di  alcuni  anni:  è  evidente  da  un  lato  la  miopia  degli  intenti  e  dall’altro  una  certa  soglia  di  tolleranza  di  flussi  irregolari  di  persone  che  non  rientrano  nelle  quote  stabilite  annualmente  ma  che  riescono  comunque  ad  entrare  nel  Paese.  È  chiaro,  dunque,  osservando  anche  i  dati  relativi alle domande presentate in occasione delle sanatorie degli ultimi anni,  che  le  presenze  irregolari  e  clandestine  siano  numerose  e  che moltissime  delle  persone  ora  in  regola  con  il  soggiorno  sia  in  ogni  caso  entrata  in  modo  irregolare  e  abbia  usufruito  in  seguito  di  un  programma  di  sanatoria.  Da  qui  occorre fare una riflessione fondamentale: non è proprio più possibile ignorare  questo  elemento  e  occorre  dunque  avvicinarsi  allo  studio  delle  migrazioni  nei  paesi  europei  dell’aerea  mediterranea  con  la  consapevolezza  che  la  maggior  parte  dei  migranti  ha  un  passato  da  irregolare  (Barbagli,  Colombo,  Sciortino,  2004; Kosic, Triandafyllidou, 2004). 

L’influenza  dell’azione  normativa  sarebbe  talmente  rilevante  da  essere  ritenuta  da  alcuni  studiosi  l’aspetto  più  importante  dei  cambiamenti  avvenuti  nelle  migrazioni  internazionali  negli  ultimi  due  decenni  (Bonifazi,  1999):  il  settore politico verrebbe, in tal caso, a prevalere su tutte le altre dimensioni di  cui  il  fenomeno  migratorio  si  compone,  tanto  che  la  distinzione  tra  stranieri  regolarmente  soggiornanti  e  stranieri  irregolari  è  stata  definita  «una  delle  più  eloquenti  rappresentazioni  di  quanto  una  qualificazione  normativa  può 

incidere sulle opportunità di vita di un essere umano uguale ad un altro essere  umano»  (Niccolai,  2000:  pag.  453;  Russo,  2008),  esponendolo  in  tal  modo  a  processi  di  verifiche  e  giudizi  volti  ad  appurare  la  sua  ‘meritevolezza’  ad  accedere a determinati diritti e servizi.