Nelle società europee occidentali, il lavoro domestico, storicamente, attirato a sé, per la maggior parte, giovane forza lavoro femminile, fra la più povera, marginale e meno istruita. Solitamente si trattava di ragazze provenienti dalle zone rurali che “andavano a servizio” presso famiglie benestanti, sia nelle campagne che nelle città, per uscire dalle condizioni di povertà e indigenza in cui versavano le loro famiglie: il lavoro domestico, anche per tale motivo, è sempre stato considerato di scarso prestigio sociale, degradante per la lavoratrice e svuotato di un reale valore sociale. Questa percezione generale del lavoratore domestico si è tradotta, tenendo conto dei cambiamenti avvenuti nella composizione della forza lavoro nell’assetto moderno della società, in una trasposizione che si potrebbe definire “di classe”: da quella dalle giovani donne italiane provenienti dalle famiglie povere della aree rurali a quella delle donne immigrate, non necessariamente provenienti dagli strati meno abbienti della società di origine ma ad essi comunque destinate nella società ospite e, perciò,
facenti attualmente parte di quello strato sociale che tradizionalmente viene attirato dal mercato del lavoro domestico.
Il lavoro domestico e di cura, è innanzitutto, dunque, un lavoro “da donne” ma anche un lavoro “fra donne”, nel senso che non è solo una particularly
gendered activity (Lutz, 2008), ma anche perché è un’area, pur quando è nel
mercato, gestita in toto da donne: con molta probabilità, infatti, sia la lavoratrice che la datrice di lavoro saranno di genere femminile (Gallotti, 2009), quasi a significare che la gestione degli affari famigliari legati agli affetti e alla sfera privata siano di competenza propria delle donne, tanto da indurre alcuni studiosi a parlare di rapporti gestiti con atteggiamenti maternalisti, più che paternalisti (Hondagneu‐Sotelo, 2001).
Volgendo lo sguardo all’Europa, si può notare come questo trend sia presente nella maggior parte dei paesi: in Spagna il 90 per cento delle persone occupate nel settore domestico sono di genere femminile, in Belgio l’89 per cento e in Austria più del 95 per cento (Ilo, 2009). In Italia, secondo i dati dell’Inps, nel 2007 gli impiegati nel lavoro domestico erano circa 600 mila, dei quali l’89 per cento di genere femminile e quasi il 78 per cento di cittadinanza straniera. È opportuno segnalare che i dati raccolti dall’Inps, pur molto preziosi perché forniscono informazioni dettagliate e non rintracciabili altrove, si riferiscono ai soli lavoratori regolari, con contratti registrati. Se si considera che una recente stima dell’Istat ha valutato la presenza di più di un milione di lavoratori domestici in Italia (Gallotti, 2009), si può avere un’idea della consistenza del sommerso di questo settore.
In ogni caso, data la difficoltà ad avere informazioni certe sulle situazioni lavorative irregolari, si faranno considerazioni sulle presenze regolari nel mercato del lavoro domestico. Secondo i dati Inps relativi all’anno 2007, le principali aree di provenienza dei lavoratori domestici in Italia sono l’Europa
orientale, le Filippine e l’America del Sud, oltre ad una ancora forte presenza dei lavoratori domestici salariati italiani (cfr. Tabella 10), per i quali permane comunque il dubbio se siano percentualmente più presenti o più regolarizzati contrattualmente.
Tabella 10 ‐ Principali macroaree di provenienza dei lavoratori domestici in Italia, per sesso. Anno 2007.
Femmine Maschi Totale
Europa Est 269.710 13.384 283.094 Italia 127.212 6.036 133.248 Asia: Filippine 39.387 12.908 52.295 America Sud 46.566 5.319 51.885 Fonte: Inps. Si può notare come, fra i lavoratori di origine europea, nel 2007 prevalevano le donne per oltre il 95 per cento dei casi (cfr. Figura 20); si segnala la presenza di un maschio ogni dieci lavoratori domestici sudamericani, mentre è rilevante la quota dei domestici uomini asiatici: in particolare, fra i domestici filippini, uno su quattro è di genere maschile.
È bene sottolineare che la presenza italiana fra i lavoratori domestici (che nel 2007 era il 22 per cento) potrebbe essere verosimilmente sovrarappresentata a causa dell’esistenza di un’ampia fetta di irregolarità nel settore che molto probabilmente è costituita principalmente da lavoratori stranieri che sono soggetti ad un doppio rischio di irregolarità rispetto ai colleghi italiani: oltre alla mancanza di un regolare rapporto di lavoro, eventualità che può riguardare entrambi i gruppi anche se in misura e con modalità diverse, i migranti possono avere l’aggravante di essere senza un permesso regolare di soggiorno, che automaticamente li esclude dalla possibilità di formalizzare un contratto di
lavoro. Questo comporta che l’incidenza numerica degli stranieri – e in modo particolare delle donne straniere – nel settore domestico è ineluttabilmente più elevata.
Ci sono sia motivi di ineludibilità (le donne possono aspirare a ben poco altro che al settore domestico, per varie ragioni) che ragioni di specifica scelta di inserirsi in questo settore, talvolta dettata dall’opportunità che il modello di lavoro live‐in offre in termini di massimizzazione del guadagno e di ammortizzazione di specifici bisogni sociali: la coabitazione con l’assistito, infatti, oltre a permettere alla lavoratrice di non dover cercare una abitazione, consente di godere di una forma di protezione, di avere un punto di riferimento forte e stabile nella comunità italiana e offre, inoltre, una garanzia in più di invisibilità per gli undocumented workers, in aggiunta alla tolleranza istituzionale e sociale diffusa nei confronti degli irregolari e clandestini occupati nel settore domestico, perché sono diventati “un pezzo indispensabile del welfare familiare” (Saraceno, 2009).
Le caratteristiche etniche e di genere continuano ad esercitare un notevole impulso sull’occupazione delle donne: non solo le donne sono considerate naturalmente dotate di virtù caritatevoli, servizievoli e pacatezza, praticamente ciò che serve per il lavoro di cura domestico, ma anche la variabile etnica, di status e di legalità gioca un ruolo importante nella loro marginalizzazione e confinamento nel settore domestico. Il loro lavoro è marginalizzato perché escluso dalle categorie tradizionali del lavoro produttivo, anche se è strettamente connesso ad esso.
Quello che della marketization del lavoro domestico è stato fino ad ora sostanzialmente trascurato riguarda il mutamento del sistema di valori e delle relazioni sociali sperimentato dalle lavoratrici domestiche in seguito al passaggio dalle modalità gratuite di scambio che avvenivano nella società di
Figura 22 – Composizione per genere e macroarea di cittadinanza dei lavoratori domestici. Prime 4 aree di provenienza. Anno 2007. Elaborazione su dati Inps.
origine, alle modalità mercificate (Caponio, Colombo, 2005). Come viene sottolineato da più parti, il lavoro domestico offerto alle immigrate è maggiormente esposto all’instaurarsi di relazioni paternalistiche ed autoritarie, divenendo un lavoro privo di ogni contenuto professionale e quindi realizzabile anche da coloro che non hanno competenze specifiche in materia, incluse le donne straniere. In realtà, l’esperienza mostra che le differenze culturali nel lavoro domestico sono particolarmente rilevanti, proprio perché portatrici di peculiarità rispetto al rapportarsi alla casa e ai suoi oggetti, al senso del tempo e dello spazio, alla centralità di alcune mansioni piuttosto che altre. Il possesso o
meno della capacità di uniformarsi al modello culturale proprio del datore di lavoro costituisce la prerogativa sulla quale si è creata una ben definita gerarchia i gruppi etnico‐culturali in termini di affidabilità e concordanza culturale (per esempio, le domestiche filippine sono più richieste di altre perché ritenute maggiormente affidabili e competenti nella gestione della casa) (Vicarelli, 1994). Lo stretto intreccio fra relazioni di lavoro e relazioni personali che caratterizzano questa professione amplifica sia i disagi e le difficoltà quotidiane (Caponio, Colombo, 2005) che le possibilità di godere di sostegno e aiuto dalla famiglia italiana, legando, di fatto, le condizioni lavorative e di vita delle donne migranti impiegate nel settore domestico alle caratteristiche comportamentali e umane dei datori di lavoro, creando spazi adatti all’instaurarsi di rapporti asimmetrici e paternalisti. Questo comporta una intensificazione delle difficoltà di uscire dalle condizioni di integrazione subalterna (Ambrosini 2001), tendenzialmente sperimentata dai migranti, che vede una loro legittimazione sociale solo in quanto lavoratori occupati nelle mansioni più gravose e marginali del mercato del lavoro, necessarie al funzionamento del sistema economico ma evitate dagli autoctoni. L’accettazione del lavoro immigrato, dunque, secondo questa prospettiva passerebbe attraverso una visione strumentale ed utilitaristica della forza lavoro straniera. Oggi, tuttavia, specialmente le donne immigrate possono essere considerate a tutti gli effetti dei soggetti attivi della società, considerando che occupano un ruolo centrale anche nei sistemi di welfare, sia come fruitrici che come fornitrici di servizi attraverso il loro lavoro salariato e non.
La globalizzazione, dunque, sta creando nuove forme internazionali di disuguaglianza che prendono avvio e, allo stesso tempo, si ripercuotono nel lavoro riproduttivo: le donne che migrano per sostituire altre donne nel loro
lavoro riproduttivo a loro volta fanno parte di un sistema di riproduzione sociale in cui vengono lasciati scoperte delle aree di bisogno, il cui costo sociale ed economico viene scaricato in parte su altre persone, sulle istituzioni e sui bambini stessi. Il dibattito intorno alla transnational motherhood (Hondagneu‐ Sotelo, 2001: pag. 24) è molto acceso, specialmente in relazione alle possibili conseguenze sociali di questa lontananza e alla limitazione del ruolo materno delle donne lavoratrici, le quali, tuttavia, come viene da più parti sottolineato, tendono ad adottare strategie di compensazione della lontananza fisica ridefinendo il proprio ruolo genitoriale intorno a quello di procacciatrice di risorse economiche. 3.6. Alcune aree di vulnerabilità nel lavoro di cura delle immigrate 3.6.1. Un’attività poco regolata: il sommerso nella ‘care economy’
Nel lavoro domestico e di cura, la porzione di irregolarità e di sommerso sembra essere notevolmente importante in tutti i paesi europei. Alcuni studi calcolano una stima compresa fra il 70 e l’80 per cento di lavoro irregolare e non dichiarato in questo settore in Europa24.
C’è un reale problema di comparabilità dei dati, dovuto alla lacunosa – per forza di cose – disponibilità degli stesso, per questo motivo non è possibile né procedere a comparazioni efficaci fra i diversi paesi europei, né fornire una stima della quantificazione del fenomeno in Italia.
24 CES‐ETUC: “Out of the Shadows Organising and protecting domestic workers in Europe: the
role of trade unions” Brussels, 14‐15 April 2005. (Citato in Gallotti, 2009).
È però facile ipotizzare, anche alla luce delle restrizioni degli ultimi anni in materia di diritto dell’immigrazione, che le persone maggiormente implicate nel circuito dell’irregolarità siano quelle socialmente più fragili, vulnerabili e deboli.
L’evidenza mostra che le donne migranti, spesso senza documenti – almeno nei primi tempi di soggiorno –, costituiscono una ampia porzione dell’economia informale europea ed esse sono principalmente concentrate nelle occupazioni informali nell’area ei servizi di cura e alle famiglie.
I governi europei hanno provato in molti modi a scoraggiare l’informalità diffusa nel settore, anche attraverso l’introduzione di sanzioni pecuniarie sia per i lavoratori che per i datori di lavoro, ma con differenti risultati da paese a paese, che riflettono le peculiarità della struttura del mercato del lavoro locale, nel quale l’informalità si incastona e prende forma.
Alcune delle misure prese dai singoli stati europei per contrastare l’irregolarità del settore:, anche se sono principalmente rivolte alla regolarizzazione della posizione lavorativa del migrante – infatti agiscono in special modo sugli incentivi offerti al datore di lavoro per rendere più conveniente la dichiarazione di assunzione – e non al contrasto dell’irregolarità della presenza e conseguentemente del lavoro. Non vanno dunque realmente alla radice del problema considerato che l’irregolarità si annida principalmente proprio fra i migranti che soggiornano in modo illegale sul territorio europeo.
Alcune delle misure più diffuse per combattere il lavoro domestico non dichiarato sono il sistema dei voucher di cura (introdotto in Francia, Germania e Belgio), la deduzione fiscale per il datore di lavoro che impiega personale domestico – misura vigente in Germania e in Italia – e il tentativo di “professionalizzare” il lavoro domestico, avanzato in Germania, che mirava a creare e a formare personale altamente qualificato e capace di gestire in modo
professionale il rapporto di cura, gestito da agenzie che fornivano lavoro alle famiglie (Gallotti, 2009).
Queste misure hanno avuto risultati diversi da paese a paese, anche in base alla struttura interna dei diversi mercati del lavoro. In generale però, il relativamente scarso impatto che esse hanno avuto nel contrastare efficacemente l’irregolarità e il sommerso nel settore del lavoro domestico e di cura deriva dal fatto che, tranne in casi in cui l’intervento statale è consistente e costante, la competitività del mercato nero del lavoro è molto forte e rende poco conveniente per i datori di lavoro ricorrere a manodopera regolare e ai servizi forniti regolarmente sul mercato.
Inoltre, come si è già visto, queste misure di contrasto agiscono solo sull’irregolarità legata al lavoro, che costituisce però la punta dell’iceberg del sommerso nel settore domestico. La maggior parte dei lavoratori domestici in Europa, infatti, è costituita da migranti irregolarmente soggiornanti, che sono esclusi a priori dalla possibilità di godere di alcuna di queste misure di policy (Gallotti, 2009).
Un ulteriore elemento da non sottovalutare è che la regolarità di soggiorno e di lavoro, insieme al possesso di un contratto valido a tutti gli effetti, non costituiscono necessariamente la condizione sufficiente di rispetto delle norme di lavoro. Spesso per i domestici, proprio per la natura fortemente ‘personalistica’ del rapporto di lavoro che caratterizza questo settore, carico di significati sociali e culturali che si riscontrano tipicamente nei rapporti fiduciari, l’ottenimento di un contratto regolare di lavoro costituisce spesso solo il punto di partenza della negoziazione delle condizioni di lavoro e non il punto di arrivo.