Nella corrispondenza daumaliana fra microcosmo e macrocosmo, il corpo rappresenta l’illusiorietà del mondo fenomenico. Di conseguenza, nel Contre-Ciel si assiste a una teoria di figure che incarnano questo ruolo. Nella Nausea
d’essere: «All’angolo di una strada una bambola di gesso / apre, trasuda un’acqua
verde di rabbia, / delle scatole che contengono solo scatole, / e senza fine scatole» [19552: 146]. Nella Cavalcata si scorgono «chimere di cartone dipinto» e «donne meccaniche» [110]; «manichini di gesso» [105] nel Poema per disossare i filosofi
intitolato «L’al di là miserabile». «Tutta un’umanità di cadeveri semoventi» [165]
– sintetizza l’Unico – rinchiusa in quella che À la Néante definisce «pelle stupida» [80]. Un’umanità illusoria che il poeta prova a scacciare dal proprio «regno» [77], come si legge nel Giuramento di fedeltà.
La medesima corrispondenza coinvolge il corpo dello stesso Daumal. Con accenti platonici, è definito una prigione o, meglio, una «tomba semovente» [93] nella
Breve rivelazione sulla morte e il caos. Corrispondenza che diviene equivalenza
nel Gran giorno dei morti: «Non è un paese, è me stesso / cucito nel mio sacco» [59]. Daumal spiega chiaramente questo fenomeno in La rivolta e l’ironia: «L’anima che s’incarna cerca così di persistere nel mondo, di definirsi, di limitarsi in un individuo; cercando di cogliersi come oggetto, ciò che essa percepisce, crede di esserlo» [1972a: 141]. Il doppio movimento di realizzazione dell’anima e di spiritualizzazione della materia è sintomatico della nescienza relativa all’identità fra sé e Sé, fra io e Assoluto. Una inconsapevolezza che può portare alla mineralizzazione del corpo, descritta nel seminale Mugle: «Gli uomini tendevano le mani verso le armature dei muri, per sostenerle e per rassicurare se stessi della propria presenza. [...] Gli uomini erano rientrati nelle cose; erano vestiti delle pietre della città» [1978: 28].
Come abbiamo visto, fra le pratiche della metafisica sperimentale troviamo quel «gioco di morte» [1972a: 40; Aa.Vv. 1967: 241] che coinvolge il «doppio astrale». Esperimenti condotti prevalentemente in compagnia di Meyrat e analizzati in Nerval il nictalope:
Visto dall’esterno, mi addormentavo. In realtà vagavo senza sforzo – e persino con la facilità disperante che coloro i quali si ricordano di essere stati dei morti conoscono bene –, camminavo, e immobile mi vedevo nello stesso tempo camminare. [40; 240]
L’esito di tali esperienze è duplice. Da un lato permane il rischio della dissociazione, eventualmente patologica; dall’altro esse prefigurano la possibilità di una reintegrazione dell’io nel Sé. Il corpo fisico costituisce un ostacolo sul percorso unitivo, mentre il doppio – qualunque sia il significato del quale viene investito – assume un ruolo salvifico o, almeno, fa segno verso l’apertura di uno scenario radicalmente differente dalla realtà fenomenica.
Se il fenomeno dello sdoppiamento amplifica il lato dualistico, è inaccettabile per Daumal, poiché in tal modo favorisce la dispersione dell’io e l’alienazione dell’unità originaria. Per ciò la IX clavicule definisce l’individuo come «l’illimitato che si pensa limitato, dunque privato di sé stesso, torturato in una forma particolare» [1972a: 62]. In questo processo gioca un ruolo preponderante l’autoinganno, che talora assume la forma di un «giuramento [che] consiste nell’interessarsi al corpo» [1972a: 137]. D’altro canto, il corpo (sdoppiato) può acquisire un valore positivo, se permette di risolvere lo scandalo ontologico del dualismo in un’unità vivente. In questo secondo caso, il giuramento di cui fa menzione La rivolta e l’ironia acquista un carattere performativo120. Anche tale
serment ha però un doppio volto, che ricalca la distinzione daumaliana fra
abnegazione e rassegnazione fatalista. Nel secondo caso, l’uomo «rifiuta la libertà per risparmiarsi lo sforzo di essere libero» [138], e ciò è radicalmente differente dal contestare il libero arbitrio per scegliere la liberazione. Tanto più che questa pigrizia individuale si comunica ai rapporti interpersonali, giungendo a informare la società nel suo complesso: «L’intera società cerca di conservarsi tramite dei giuramenti» [139]121. Al giuramento performativo rappresentato dal circolo virtuoso si oppone dunque il giuramento constativo, raffigurato dalla viziosità del circolo stesso.
Tenuto conto di queste riflessioni concernenti il corpo e il suo doppio, concentriamoci sull’evento della morte, per vedere infine come Daumal legge la scelta del suicidio.
L’esperienza dell’angoscia ingenerata dal pensare (al)la morte è presente in Daumal sin dalla tenerissima età ed è in stretta connessione con l’interpretazione fornita da Eliade [1957: 65-66]: la morte rappresenterebbe cioè in modo esemplare l’angoscia dell’uomo moderno di fronte alla perdita della propria individualità. Daumal parla di questa esperienza a più riprese122. Nel Ricordo
determinante è rievocata la sensazione provata dall’autore all’età di sei anni:
«Non essendomi stata inculcata alcuna credenza religiosa, il problema della morte mi si presentò in tutta la sua nudità. Trascorrevo notti atroci, artigliato al ventre e preso alla gola dall’angoscia del niente, del “più nulla”» [1972b: 112]123. Al ricordo autobiografico fa eco un passo di Mémorables, nel quale Daumal si rivolge anaforicamente a sé stesso con un ossessivo «ricordati»: «Ricordati delle sere di terrore in cui il pensiero del niente ti artigliava al ventre, e tornava [revenait]124 a rodertelo, come un avvoltoio» [19552: 210]. A questa fase infantile e repulsiva ne segue una seconda, caratterizzata da un’attrazione di ascendenza Romantica. In una lettera del 31 agosto 1930 a Renéville, Daumal scrive: «Il 1°
agosto 1929 mi sono accorto di essere innamorato della Mia Morte. Il 1° agosto 1930 l’ho chiamata la Néante» [1993a: 142].
La principale metafora della morte, almeno nella seconda parte del Contre-Ciel, intitolata Il nemico del giorno, è la notte. Un soggetto prediletto dagli appartenenti al gruppo del Grand Jeu. Si pensi all’Adresse au poète che Renéville pubblica nel 1946, ove campeggia la domanda: «È la regina, la Notte, verso la quale tendi?». Il giorno, la luce, il Sole rappresentano per Daumal i mezzi che consentono al senso
troppo umano della vista di percepire il mondo illusorio dei fenomeni. In questo
senso, il Sole è una «luce imbecille» che «non illumin[a] niente» [19552: 141]125, come si legge nella poesia che ha come eloquente titolo Giorno, oh scandalo!. L’illuminazione del contro-cielo proietta ombre inevitabilmente ingannevoli, a causa delle quali gli uomini scambiano l’illusione per la realtà, come ricorda un Daumal memore dell’allegoria platonica della caverna esposta nella Repubblica [VII, 514a-517d]126. Questa «luce immanente» [92] non è αληθεια127; al contrario maschera la verità con un «velo nero» [1970b: 46]. Ritroviamo dunque
la formula dell’inversione: alla luce solare si oppongono «GRANDI ANTI-SOLE NERI, POZZI DI VERITÀ» [19552: 90]128. Il legame fra la notte e la verità, nonché il carattere di ineffabilità che lo contraddistingue, può condurre il poeta al silenzio: «La notte di verità ci toglie la parola» [67], «l’autentica notte è nel cuore dei fiori, / dei grandi fiori neri che non si aprono» [142]. Tuttavia, non si tratta di una posizione statica. Un passo di Tu t’es toujours trompé sottolinea il dinamismo dell’esperienza delle coppie notte-verità versus giorno-illusione129:
Avanzo nella notte, la notte autentica senza speranza di sole, poiché il fine infinitamente lontano è al cuore della notte; avanzo e il mio urto contro la notte illumina il cammino percorso, dove la ragione germina e si riveste di una luce presa a prestito. [1970b: 48]
In questa fase del pensiero daumaliano non è tuttavia ancora concettualizzata un’autentica soteriologia, se non nella forma di una reintegrazione nel Principio, nell’unità primigenia precedente la caduta-scissione130. Essendo la morte, intesa come liberazione dalla realtà fenomenica, l’unica via d’uscita dall’impasse ontologica nella quale incappa l’individuo, si spiegano le autoaccuse dispiegate nel Contre-Ciel: il poeta è colpevole di non riuscire a sottrarsi a «un cattivo gusto per questa vita» [163], di aver «inseguito lune fantasma» e di essersi «consolato con troppi falsi soli» [164]. L’espiazione consiste in un’ascesi caratterizzata da un «dolore infinito» [80], ma nel frattempo «la morte se ne va a ritroso, / indefinitamente porte sbattono / fino agli armadi dell’orizzonte» [145; Aa.Vv. 1967: 203]. La conseguenza è un disorientamento angosciante che permea l’io, quand’anche giunga a liberarsi per un istante, «dolorosamente cosciente della contraddizione – si legge nella XX clavicule – fra la sua realtà, concepita per negazione di ogni attributo come assoluta, e il ribollimento animale che questa stessa negazione ha suscitato in un corpo umano» [1972a: 69]. Torniamo così all’assurdità scandalosa intuita nel corso dell’esperienza fondamentale. Rievocando via Nerval il mito di Orfeo, nel 1925-26 Daumal constata: «...E anch’io ho perduto la mia Euridice» [19552: 113]. In altre parole, la visione istantanea dell’Uno sfugge insieme al suo potere salvifico, appena si cerca di
fissarla: «Il tempo che apra la bocca, / scomparsa» [141].
Come possedere stabilmente questa peculiare Euridice, strappandola dalla mera morte del corpo per consegnarla a quella Morte superiore ch’è la reintegrazione al
Tutto? In Nerval il nictalope una via è indicata, ma è lastricata di sangue, adorna d’immagini che coniugano un immaginario al contempo mistico e scapigliato: «Posseduta – lo sarà dopo la strada sanguinante, dopo la pista dei deserti macchiati di rosso dalle ginocchia spaccate, dopo le traversate della paludi nere senza fondo, dopo quali cumuli di umanità sconvolti dalle torture!» [1972a: 49; Aa.Vv. 1967: 252]. È un omaggio al limite del sadomasochismo anerotico alla figura della Néante, come ribadito nel componimento omonimo: «Per te questa devastazione – ma che silenzio!» [19552: 79]. La rottura di tale silenzio, tuttavia, non è auspicata nel senso dell’apparizione di un’ipostasi di questo anomalo principio di morte. Nel luglio del 1929, Daumal scrive: «Ti supplico: / non m’ingannare, / non venire in questo mondo, / non assumere mai figura umana» [78]. L’esplicitazione di questo nodo si trova in una lettera del 19-20 agosto 1930 a Henry: «Se essa apparisse dovrei ucciderla, è certo che ne porto eternamente il lutto, io l’assassino» [1993a: 136].
Ricapitolando: la morte fisica, l’annichilamento del corpo comporta l’accettazione del carattere diveniente e finito dell’io. Essa apre dunque al Sé autentico, originario e unico: in una lettera a Henry del 20 novembre 1927, Daumal sentenzia che «il morto è colui che giura di vivere, non chi accetta di morire» [1992: 216]. Ma la questione ha un’altra sfaccettatura. Se infatti l’individuo come tale rappresenta l’unica risorsa per potersi reintegrare nell’Assoluto, il rischio consiste nell’affidarsi a una morte meramente fenomenica, che reimmeterebbe l’io nel costante flusso del divenire. È il senso della faustiana inchiesta promossa da Daumal nel 1929 sul «Grand Jeu»: «ACCETERESTE DI FIRMARE IL FAMOSO PATTO COL DIAVOLO?» [1972a: 152]. Quest’ultimo rappresenta la molteplicità: «Il male è l’esistenza individuale, e il bene lo sforzo dell’individuo per distruggersi» [Daumal 1993a: 266. Cfr. 130-131]131.
L’attrazione per la morte matura dunque nel quadro di una riflessione ontologica dai contorni piuttosto definiti: l’«esperienza fondamentale» permette di intravedere l’Assoluto, ma la stabilizzazione è acquisibile soltanto sacrificando la propria individualità. La conseguenza più logica pare allora il suicidio132. In una
lettera a Maurice Henry del 5 marzo 1930, Daumal argomenta: «“Io” [“moi”] è l’individuo umano, limitato, chiuso su sé stesso, che voglio distruggere» [1993a: 78]133. E poche righe oltre: «Ci si suicida per sfuggire al dolore – di qualunque
ordine esso sia – distruggendo l’essere limitato nel quale la pura volontà è prigioniera. Se il suicidio è in grado di fare ciò, bisogna uccidersi subito» [79]134. E tuttavia, sulla scorta della risposta di Breton all’inchiesta sul suicidio, Daumal ravvisa una contraddizione nella proposizione «io mi uccido»135:
Quando dico «io mi uccido», «io» indica la volontà che ho di uccidermi, «mi» indica ciò che uccido, e che pertanto non è più me stesso. Quel che allora penso come reale in me stesso è io [je] che uccido e non io [moi] che
sono ucciso. [78]136
Riemerge così, in un’accezione differente, il tema del doppio. I versi d’apertura della Breve rivelazione sulla morte e il caos recitano: «Tu che ti sei dimenticato in questa tomba semovente, / a me parlo e il mio doppio mi uccide» [19552: 93]. Nella Caduta la situazione s’inverte, se così si può dire nella prismatica sfaccettatura dell’io: «Ed eccomi di fronte al mio coltello, il mio sguardo / nello specchio all’angolo della strada, / di fronte all’assassino il mio doppio» [19552: 174]. Ma, soprattutto, il rapporto col doppio rappresentato da Mugle nel racconto omonimo è particolarmente complicato da continui scambi di ruolo. Il narratore tenta più volte di strangolare Mugle e viceversa: «La sua mano che mi imprigiona il collo; mi strangola» [1978: 45]; «Vedo le mani del vecchio Mugle che impastano un collo bianco» [53]; «Qualcuno mi stringe il collo tra le sue dita» [69]137.
L’assassinio sfocia raramente in una situazione definitiva, e la lotta prosegue nel corso delle poesie e dei poemi in prosa del Contre-Ciel. Emerge allora il carattere metaforico del suicidio: «Sarò liberato dal circolo delle rinascite dal momento in cui compirò in piena coscienza l’atto di morire» [19552: 83]138. In alcuni passi del
Contre-Ciel, Daumal dà tuttavia per acquisita la morte-liberazione. Di
conseguenza, con una certa condiscendenza si rivolge ai mortali, ai «signori del fumo e dell’ombra» [63]. Nella Fameuse surprise:
Voi che vivete, credete alla mia morte? [...]
Tento di avere l’aria di qualcuno fra voi che vivete,
per ridere un poco [71-72]
E nella Désillusion:
Attenzione, vi insegnerò a morire chiudete gli occhi, stringete i denti, clac! vedete, non è difficile, non c’è niente di sorprendente. [...]
Oh! Non capite, non esistete,
sono solo a morire. [73-74]139
Come abbiamo appena visto, la morte fisica non è però il fine ultimo. Il rischio sempre incombente è la rinascita – sia essa intesa in senso metaforico o letterale – e dunque la reimmissione nel circolo vizioso: «Rinascerò senza cuore, / sempre nello stesso universo, / [...] ma ciò stesso non mi consolerà affatto» [75]140. In
quest’ottica, la morte non è un fenomeno puntuale, è bensì «eterno» e «interminabile» [74 e 81]141. La fine del corpo si rivela un’ambigua disillusione,
un concetto ribadito non solo nel componimento omonimo, ma anche nella lettera a Maurice Henry del giugno 1928: «Illusioni, illusioni. Credo che il giorno della nostra morte avremo una grande disillusione» [1992: 254]. Una soluzione meno radicale consiste allora nel tentare di eliminare il lato egoico di sé, «assassinare le larve-riflessi di me stesso» [19552: 80]: «Crepa / quando ci riuscirai» [176]. Un diverso esito affiora in alcuni componimenti e, se a prima vista può apparire opposto, è in realtà un’altra forma di annullamento della scissione fenomenica dell’io. Ci riferiamo alla fusione delle due componenti che permettono di parlare di doppio, cioè la loro reintegrazione con l’Unità, il ristabilimento della situazione precedente il dissidio. Un tema che, come abbiamo visto, permette di leggere in profondità il discorso daumaliano sulla morte e sul suicidio. È ancora la Breve
relazione che ci soccorre in questa fenomenologia del doppio: Quando il cielo sarà confuso con l’oceano,
[...]
per svuotare tutte le lacrime d’un tratto, e né io né tu, attenzione: LA BOCCA AVRÀ MANGIATO L’ORECCHIO, LA VOCE VERRÀ. [93]
In queste condizioni, Daumal si sente pronto ad accogliere la Morte, come in
Esattamente a due dita dalla morte: «Ho la forma della tua assenza, / attendo il
tuo respiro nelle mie membra» [164]. Tale status è raggiunto al termine di un cammino che conduce all’«abbagliante nudità in cui sarò Lei, l’unico oggetto di ogni amore» [1972a: 49; Aa.Vv. 1967: 251]. Il suicidio daumaliano si riconfigura così in amore mistico, fusione che viene esplicitata nella lettera a Henry del 12 marzo 1930:
Il Fine è la fusione di Io e Non-Io. Il cammino dell’Io verso il Non-Io è Amore. [...] Il proprio dell’Amore (nel suo senso totale) è di superare, di distruggere tutte queste contraddizioni. È [...] il movimento che deve portarmi attraverso la morte aldilà della morte. La necessità di superare continuamente tutti gli oggetti particolari del’Amore s’impone da sé ed è in ciò che essa può diventare un ascetismo (naturale, accettato, ma non arbitrariamente imposto). [1993a: 86]
Un cenno infine è dunque dovuto alle figure del femminino che impersonano le diverse sfaccettature del rapporto fra Daumal è la morte.
Innazitutto la Madre, connotata come la dea-madre comune a innumerevoli tradizioni «cultuali». I richiami alla situazione prenatale e indifferenziata, a un’origine precedente la nascita-scissione, rendono tale paredra del Principio assoluto coincidente con la Morte-Amante che, trovandosi al termine del ciclo, è a essa sovrapponibile142. Anche per questa ragione, nel Contre-Ciel la Madre assume il volto indistinto della notte: «Ero sicuro di te come della mia morte, / ero sicuro dell’evidenza della mia notte / che è il tuo corpo di silenzio vivente» [19552: 80]. Grazie all’omofonia dei termini mère e mer, la Madre è altresì mare, come si legge nella XV clavicule: «Vite sofferenti verso altre vite sofferenti, isolate anche dal Mare comune, dal Mare-uno dolorosamente separati» [1972a: 65]. Il principio vitale coincide dunque con quello di morte in forza del suo potere dissolutorio, in un circolo che attraversa il temporaneo e doloroso principium
individuationis.
negli abissi organici della città nervaliana, simbolo del femminino, che è a sua volta immagine dell’indistinzione. E altresì athanor, per utilizzare un termine alchemico, disciplina della quale Daumal non è a digiuno. Tale metaforica ipogea è esemplarizzata dal componimento Persefone o la doppia via d’uscita: «Scàvati per ricevermi / nella tua bocca la vorace, / verso il tuo cuore bruciante nero [...] / verso il tuo abisso divorante, la notte bruciante del tuo ventre» [19552: 68; Aa.Vv. 1967: 189]143. Oltre a essere simbolo della morte intesa come ritorno all’indistinzione – rivoluzionaria «regressione nel tempo» [1968: 15], per usare le parole dell’artaudiano Post scriptum al Manifesto per un teatro abortito –, la figura della Madre incarna anche la genitrice della vita. La poesia succitata si chiude infatti con una nota di disperazione:
E tu, tu che non volevi più rinascere, [...]
La matrice che ti generò si rivolta E ti rigetta vivente innanzi al mondo, larva di spavento laggiù, e subito
comincerai di nuovo a lamentarti del cielo, di te stesso e della vita, tuo vomito. [69; 189-191]
Frutto del caleidoscopio daumaliano, la Madre torna qui a rappresentare la ruota del samsāra, il ciclo indù delle rinascite, la morte senza maiuscola144.
1 Almeno per quanto concerne Daumal, le lettere continueranno a rivestire un ruolo
notevole lungo tutto l’arco della sua vita, pur permanendo la loro caratteristica scritturale, dunque limitante nella prospettiva fonocentrica di Daumal.
2 E non a Reims, come sostiene Todd [1988: 10].
3 Non è possibile in questa sede tracciare le parabole di tutti coloro che contribuirono al
Grand Jeu. Nella maggior parte dei casi, si tratta di personaggi dotati di un alto profilo. Nella fattispecie, il poeta di origine ebraica Richard Weiner era in contatto con l’ambiente intellettuale del proprio Paese, da Kafka a Rilke a Max Brod, prima dell’arrivo a Parigi nel 1912. La sua presenza spiega l’idea di lanciare la rivista simultaneamente in Francia e in Cecoslovacchia, dove Vailland soggiornerà nei mesi di settembre-ottobre del 1927 [1972: 84-105 e 1968: 38-40]. Weiner era fra l’altro corrispondente del «Lidové Noviny» e, grazie ai suoi articoli, i cechi sono i primi a conoscere il gruppo. Lascerà violentemente il Grand Jeu all’inizio del 1928 (si veda la lettera inviata a Daumal il 18 febbraio [1992:
231]). Tornerà a Praga nel 1936 e morirà l’anno successivo. Due opere del periodo parigino sono tradotte in francese: Le Barbier e Jeu pour de vrai, rispettivamente del 1929 e del 1933. Quanto alla letteratura critica, si veda Abrams 1994 e Srp 2003, nonché Poivre d’Arvor 1992 per il rapporto fra il Grand Jeu e l’ambiente cecoslovacco.
4 Riparleremo di questa importante figura nella seconda parte. Qui ci limitiamo a
rimandare a Linhartová 1974 per identificare il contesto in cui opera.
5 La lettera di Daumal a Renéville datata 28 marzo-2 aprile 1930 [1993a: 101-105]
testimonia del profondo interesse in cui il primo teneva l’opera di Ribemont-Dessaignes. Una breve ricapitolazione dei rapporti fra i due si trova in Moreau 1993, ma segnaliamo altresì le vibranti lettere contenute nel terzo volume della Corrispondenza daumaliana. Rammentiamo soltanto che, nel luglio 1967, Ribemont-Dessaignes realizza un adattamento radiofonico del Rāmāyana dal titolo Il bene e il male.
6 Com’è noto, precedentemente Desnos apparteneva al gruppo di Breton [Béhar 1967:
187-193]. I primi contatti con Daumal e Lecomte saranno patrocinati da un altro surrealista, Pierre Unik [Random 1970a: I, 153]. Desnos pubblica sulla rivista un solo testo, intitolato Ténèbres! O ténèbres! [Aa.Vv. 1977: I, 28]. Per chiarire i rapporti di Desnos con il Surrealismo e il Grand Jeu, segnaliamo Aa.Vv. 2005.
7 Per scrupolo di completezza, citiamo almeno i restanti collaboratori, anche occasionali,
del «Grand Jeu», dei quali non parleremo più diffusamente in seguito: Georgette Camille,