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2.2.1 – P ERFETTIBILITÀ DI H EGEL

2 – L’Oriente geografico e simbolico

2.2.1 – P ERFETTIBILITÀ DI H EGEL

Il primo contatto di Daumal col pensiero hegeliano risale al novembre del 1925, grazie all’insegnamento che Alain impartisce al liceo Henri IV di Parigi49. I toni sono ancora entusiastici il 20 novembre 1927, quando Daumal scrive a Henry: «François [Roger Vailland] e io siamo ebbri di Hegel» [1992: 216]50. Tuttavia, come abbiamo visto nella prima parte, la lettura di Hegel viene presto filtrata dalle

posizioni politiche maturate in seno al gruppo del Grand Jeu. Filtraggio piuttosto generoso, poiché Daumal ritiene che Hegel sia stato «tradito da sé stesso, o piuttosto dal borghese prussiano che abitava nella stessa pelle, a profitto di un imperialismo di statu quo» [1970b: 116], senza che gli fosse d’aiuto la sua «intelligenza titanica» [1972a: 83]. Il giudizio si fa però più caustico col trascorrere degli anni e con il mutare della situazione geopolitica. Scrivendo l’8 febbraio 1932 a Renéville, Daumal definisce Hegel un «imperialista prussiano che ha fornito dottrine reazionarie a tale o tal altro fascista italiano» [1993a: 255]. D’altra parte, nella Francia coeva, le resistenze nei confronti dell’idealismo hegeliano sono vigorose. Per quanto concerne l’ambiente più prossimo al Grand Jeu, Bataille e Queneau tentano di rendere maggiormente dinamica la dialettica materialista, iniettandole i contributi provenienti dalla psicoanalisi. A partire dal 1933, è fondamentale il ruolo «divulgativo» – anche in funzione di argine al dilagare del bergsonismo – rivestito dal seminario che Kojève tiene fino al 1939 all’École Pratique des Hautes Études51. Un lavoro non sufficiente se, a distanza di oltre dieci anni, in qualità di direttore della rivista «Diogène», Caillois esclude «sistematicamente ogni articolo che comportava quel termine» [Sigoda 1993b: 188]52. La parola in questione è dialettica53.

La ricezione daumaliana di Hegel non si configura in alcuna fase come una prona accettazione. Innanzitutto, va notato che spesso Daumal utilizza le categorie della finitudine hegeliana per elaborarne il superamento, in un’ottica radicalmente non- dualista. D’altra parte, la sua posizione politica lo conduce a condannare in specie lo Hegel della Filosofia del diritto, «dualista, nazionalista, imperialista» [Daumal 1972a: 201], in favore del materialismo «monista» di Marx ed Engels, che propugna «una dialettica dei fenomeni che è al contempo il pensiero concreto dei fenomeni e il loro movimento stesso» [200]. In quest’ottica, mentre il materialismo dialettico assume la valenza di un metodo scientifico, la dialettica hegeliana riveste fondamentalmente un ruolo antidogmatico, soprattutto in funzione antikantiana, volto a evidenziare che «l’oggetto del pensiero non è mai il pensiero stesso» [Marcaurelle 2004: 131]. Al contempo, in un continuo gioco di prelievi e critiche, Daumal rintraccia nello stesso Hegel assunti risolutamente dogmatici. Al di là delle conseguenze politico-sociali, il dubbio daumaliano concerne le moltemplici impasse che originano dal carattere sistematico della sua

opera. Daumal ritiene infatti che ogni sistema induca inevitabilmente il sonno della ragione, in forza del potere di infiacchimento dell’esprit critique e della tendenza a tradursi in una «sterile scolastica del ragionamento» [Burgio 2006: 61]54.

In un articolo dedicato alla scrittura automatica, Phil Powrie sintetizza l’adesione daumaliana al pensiero di Hegel articolandola nelle tre canoniche fasi: lo Spirito «genera» una coscienza individuale gettata nel mondo fenomenico; tesi progressivamente negata dall’opposizione fra individuo e mondo oggettivo; per sfociare sinteticamente nella reintegrazione della coscienza di Sé nello Spirito [1988: 185]55. Tuttavia, questa dinamica non è lineare come può apparire. Nella Patafisica dei fantasmi (1939), Daumal avverte che «il fantasma si sposta [...]; lo

negate, e quello riappare laggiù. Poiché non è sufficiente negarlo; bisogna riempirlo per distruggerlo» [1972b: 240]56. È esattamente questo il punto in cui emerge la con-fusione tra pensiero hegeliano e tradizione vedantica. Come ha sottolineato Marcaurelle [2004: 139 e 146-147], talora Daumal propende per il primo, definendo la coscienza assoluta come il frutto di un atto mentale riflessivo; in altre occasioni la caratterizza invece come conseguente all’«esperienza» della trascendenza dei presunti limiti del pensiero o, meglio, della ragione, avvicinandosi dunque maggiormente a Śankara. Cerchiamo allora, per quanto possibile, di isolare le due differenti eredità, che Daumal spesso miscela, dando luogo a molteplici occasioni di fraintendimento interpretativo.

Il pensiero di Hegel costituisce una radicale frattura rispetto al cartesiano dualismo soggetto-oggetto. Il loro «reciproco riconoscimento» [1807: I, 155], delineato nella Fenomenologia dello Spirito, ad-viene nell’ambito di un percorso che prevede la necessità storica del mondo come «figura» dello Spirito. L’identificazione del soggetto con il «proprio» oggetto ha dunque una natura fondamentalmente concettuale57. Per quanto ci interessa in questa sede, occorre altresì ricordare che questa processualità non nega affatto la finitudine del soggetto. Al contrario, essa è ritenuta necessaria alla spirale – che, in quanto simbolo di espansione centrata, campeggia sulla copertina del «Grand Jeu» – percorsa dallo Spirito, transitante lungo l’estraneazione (Entfremdung) e il ritorno a Sé. L’escursione dello Spirito si avvale dunque dell’indispensabile partecipazione del soggetto, il quale svolge una funzione veicolare:

Lo spirito è il Sé della coscienza effettuale, alla quale esso o, piuttosto, la quale a se stessa si contrappone come oggettivo mondo effettuale; un tal mondo, peraltro, ha perduto, per il Sé, ogni significato di estraneità, così come il Sé ha perduto ogni significato di un esser-per-sé separato, dipendente o indipendente, da quel mondo. [1807: II, 2]

La posizione di Śankara è nettamente diversa. Innanzitutto, l’integrazione di soggetto e oggetto si dà a livello sovra-razionale ed è concepita come identità integrale con il Sé58. La finitudine del soggetto non è superata a uso dello Spirito, ma è l’io che, grazie all’autocoscienza, si ri-conosce come (identico al) Sé. Il punto di vista dello scolastico indiano è dunque agli antipodi rispetto a quello di Hegel, poiché l’autopercezione del soggetto come Dasein si rivela illusoria – anzi, l’autentica percezione di sé si fonda sul riconoscimento dell’illusorietà dell’essere-nel-mondo – e sarebbe inconcepibile raffigurarla come un «capitolo» del Bildungsroman che ha come protagonista lo Spirito59. Ne consegue che, dalla prospettiva vedantica, il non-dualismo hegeliano è solo presunto, poiché confina il soggetto in una situazione che gli impedisce di cogliere proprio quanto potrebbe condurlo a superare il dualismo. Nello stesso senso, l’Infinito – il cattivo infinito, lo definirebbe un ipotetico Śankara hegelo-parlante – risulta confinato à jamais nella sintesi diveniente, sottratto a qualsivoglia intuizione buddhica.

Daumal non tematizza queste differenze. Al contrario, sovente sfrutta la tripartizione hegeliana per illustrare la scansione del percorso che conduce la coscienza a superare l’ambito razionale; quand’invece la parabola hegeliana, culminante nella riunificazione di soggetto, oggetto e Spirito, è il risultato di una funzione fondata sul medesimo strumento utilizzato per separarli dalla lignée le cui ipostasi sono Descartes e Kant: la ragione. Daumal condivide l’obiettivo

dichiarato della Fenomenologia dello Spirito, ossia la ricerca di un Assoluto che

non sia una pura astrazione, né sia connotato dall’inaccessibilità noumenica [Hegel 1807: 167-169]. Per ciò la distanza dal dettato hegeliano si palesa anche e soprattutto nel discorso relativo all’Assoluto. In Daumal, quest’ultimo non abbisogna della manifestazione nel mondo/soggetto ai fini della (propria) autocoscienza. Ne è testimonianza un testo del 1929, scritto a quattro mani con Lecomte, Le Casse-dogme, ove si legge che «Dio è quello stato limite di ogni coscienza, La Coscienza che si auto-percepisce senza ricorrere a un’individualità o, se si vuole, senza offrirsi alcun oggetto particolare» [1972a: 151, n.]. Il

medesimo punto di vista è ribadito in una lettera del 12 marzo 1931 a Henry: il mondo esiste

nel Sé e per il Sé che lo pensa. [...] Il Mondo è la Totalità delle forme possibili, contenute nel Sé, non essendo che tramite il Sé, il quale rimane puro da ogni partecipazione a forme individuali. I termini «Sé» e «Mondo» come assolutamente separati sono momenti dialettici del pensiero: la Realtà è nella loro unione. [1993a: 186-187]

D’altra parte, recensendo una dissertazione di von Humboldt, anche Hegel sottolinea le differenze fra la propria concezione e quella indù, in particolare fra Spirito e Brahman: quest’ultimo sarebbe una «cosa deficiente, alla quale fa difetto la differenza del soggettivo e dell’oggettivo» [1827 cit. in Hulin 1979: 190]. Una lacuna che, agli occhi di Hegel, rende il Brahman un infinito sprovvisto di verità, l’indistinzione di soggetto e oggetto non permettendone la riunificazione logico- razionale. In sintesi, la realtà assoluta degli indù sarebbe tout bonnement una categoria sterile.

Il debito contratto da Daumal nei confronti di Hegel parrebbe dunque limitarsi alla dialettica, come emerge in particolare in Tu t’es toujours trompé60. Tuttavia, sin dall’epoca del Grand Jeu, distingue la «logica dialettica» dal «pensare dialetticamente» [1972a: 161; Aa.Vv. 1967: 258], quasi a smarcarsi dalle conseguenze «contestuali» del pensiero hegeliano. Daumal parla allora di una dialettica eraclitea, eleatica e platonica, che degrada in pragmatismo dopo esser stata relegata al rango di «logica» con Hamelin e di giustificazionista dell’imperialismo con Hegel [1972a: 35]. La dialettica hegeliana si riduce così a una «traduzione intellettuale, necessaria per l’esposizione discorsiva, dell’abnegazione» [130]. Un viatico per la conoscenza (di sé), in direzione della re-integrazione nell’Assoluto. Questo carattere strumentale emerge in vari passi daumaliani:

È assai più importante la negazione dialettica di una dualità, dapprima posta e riconosciuta come contraddittoria, che l’affermazione metafisica dell’Unità. Il non-dualismo può essere chiamato monismo, ma è anche, più profondamente, un pensiero trinitario. [1972a: 200, n. 1]61

A proposito della negazione, va sottolineata la precedenza accordatale da Daumal nell’ambito del processo dialettico che sfocia nell’autocoscienza: «La coscienza è l’atto stesso di negare. Colui che non nega più, dorme. La coscienza è l’abnegazione» [130]62. Il movimento dialettico è innanzitutto negatività, di cui è «latore» l’individuo, il quale – da un punto di vista ancora stretto nelle maglie dell’illusione mondana – esperisce l’assurda frattura tra sé e Sé, causata dalla decadenza dell’Infinito unico nel finito molteplice. Secondariamente, pur non trattandosi in verità di un doppio tempo storicamente inteso, viene la negazione della negazione, che tuttavia non è illustrata da un complessivo movimento circolare. Negare la negazione63 è un’affermazione spiraliforme che conduce al ri-

conoscimento del Sé da parte dell’io o, meglio, all’autocoscienza dello Spirito-Sé in quanto identico al soggetto-sé. Nelle parole di Daumal:

Ogni forma è in effetti conoscibile in qualche maniera, dunque oggetto. Ora, un oggetto è ciò che non sono io. Il mondo oggettivo è dunque ciò che è rigettato nel corso del cammino verso sé stessi. Ma poiché la rappresentazione dell’oggetto negato non esprime nient’altro che l’atto di negazione in condizioni particolari, tutto ciò che «esiste», essendo il

rinnegato da sé, si trova a essere il simbolo del progresso dello spirito.

[1970b: 43-44]64

La conseguenza di tale riflessione espelle nuovamente Daumal dall’alveo hegeliano: se la negazione coincide con il poter negare; e se quest’ultimo agisce su un oggetto che rappresenta l’unica differenza fra atti di coscienza diversi e concernenti soggetti diversi; allora la coscienza, nel suo atto negatore, non può che essere identica in ogni spirito soggettivo. Quest’ultima delimitazione viene dunque a cadere65: l’atto di negare è «identico a sé nel suo movimento perpetuo» [1972a: 59] e «il Pensiero in atto è unico, indivisibile ed eterno» [169, n. 2]. La portata del sillogismo è chiara a Daumal, poiché in una lettera dell’11 agosto 1929 a Jean Carrive scrive: «Per sfuggire al dualismo, e alla tentazione di immobilizzare il trascendente, che in fondo è il puro-soggetto indeterminato, occorre insediarsi fermamente nel puro soggetto stesso in ogni momento della sua manifestazione, in quell’atto che è l’unica realtà» [1993: 35-36].

Riferendosi alle pagine dedicate dall’Enciclopedia alla Bhagavadgītā, Daumal ritiene che Hegel, pur avendo a disposizione un numero limitato e qualitativamente discutibile di traduzioni66, abbia comunque interpretato «magistralmente i pochi dati che possedeva sul pensiero indù» [1970b: 125], in particolare riconoscendo la differenza fra non-dualismo e panteismo67.

È tuttavia proprio questa nozione che, nel 1942 e grazie alla lettura di La Trinité

spirituelle – la tesi di dottorato in filosofia di Lanza del Vasto discussa nel 1928 –,

conduce finalmente Daumal alla condanna di Hegel. A parere di del Vasto- Daumal, l’immanenza dell’Infinito nel finito condurrebbe a una forma di panteismo, o addirittura al panteismo par excellence. Contestando l’opposizione fra Essere e Non-Essere68 – «non sono opposti, ma l’uno è dell’altro la negazione,

nel senso formale ed estensivo, cioè la privazione» –, ne deriva che

questa pseudo-triade nasconde sotto il suo terzo termine una petizione di principio – le sabbie mobili sulle quali Hegel costruirà tutto il suo sistema – ossia che il Divenire (posto come «sintesi» dei primi due termini), cioè la Natura, sarebbe il luogo di tutte le conciliazioni. [Daumal 1955: 42]69

È proprio questo «luogo» a dover cambiare qualitativamente natura, non rappresentando più la sintesi meramente logica d’un percorso, bensì una «realizzazione» [48] intesa in senso pratico, esperienziale. Come nota Marcaurelle [2004: 156], Daumal si richiama al capitolo della Scienza della logica dedicato all’Esser determinato, in particolare a una nota dedicata al Sollen70: «Nel dover essere comincia l’oltrepassamento della finità, l’infinità. Il dover essere è quello che, in un ulteriore sviluppo, si presenta dietro a quella impossibilità come il progresso all’infinito» [Hegel 1812-1816: I, 133, c.m.]. Nota che riecheggia nella VII clavicule:

Questa contraddizione fra la mia nozione di essere assoluto e la mia condizione di individuo limitato [limité] si risolve, secondo la prima triade motrice della Dialettica: «Essere, Non-Essere, Divenire», nella necessità dell’avviamento della mia natura limitata [bornée] verso l’essere assoluto. [1972a: 61]

L’obiettivo ultimo di Daumal – con Hegel, oltre Hegel – è ancor più evidente quando, nel saggio su Spinoza, sottolinea il carattere «spirituale» della sintesi, con accenti che richiamano la «metafisica sperimentale» del decennio precedente: «Ritrovo a ogni passo lo stesso schema dialettico: la dualità duramente constatata; l’affermazione intellettuale dell’unità; e l’atto spirituale che risolve la dualità nell’unità vivente» [1972a: 82]71. La tesi è frutto di un’esperienza vissuta, «l’esperienza diretta dell’INTOLLERABILE», come Daumal scrive nelle Provocazioni all’ascesi [1970b: 36]; l’antitesi ha un carattere razionale; la sintesi

è inevitabilmente diveniente e pratica. Una pratica da attuarsi nel costante lavoro su di sé, con l’obiettivo (della coscienza) dell’identificazione con il Sé. Un divenire da intendersi in senso eracliteo come «lotta dei contraddittori [...] Padre di ogni movimento» [1972b: 128].

Quest’ultima affermazione parrebbe problematica in un’ottica vedantica. Secondo Śankara, il Sé non è infatti conoscibile mediante atti mentali, siano essi razionali o intuitivamente intellettuali, poiché è strutturalmente libero dall’azione, in quanto tale limitante. Daumal concepisce invece la liberazione come un perpetuo atto negatore, tendente a svincolare l’individuo dalla propria sog-gettività. L’idea di una libertà acquisita una volta per tutte è esplicitamente definita «ingenua» [1970b: 24]: «Il risveglio non è uno stato, ma un atto» [23]. Tale posizione è tuttavia una sorta di contestualizzazione della dottrina, situata a un livello guenonianamente superficiale. In altri termini, il soggetto immanente deve esercitare un continuo atto di negazione, ma da un punto di vista trascendente si tratta d’un «atto unico ed eterno dell’istante»: «La coscienza è il suicidio perpetuo. Se essa si conosce nella durata, tuttavia non è che attuale, cioè atto semplice, immediato, fuori della durata» [1972a: 12]72. In questo senso va letta la citazione da Eraclito, affiancata alla seguente: «La via in su e la via in giù sono una e la medesima» [Diels-Kranz 22 B 60]73.

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