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2.2.1 – L A NEGAZIONE E LA RIVOLTA

Il nodo negazione-rivolta rappresenta una delle componenti di maggior continuità fra Simplisme e Grand Jeu, e anche in questo caso si riscontrano alcune differenze d’espressione sotto il manto delle dichiarazioni d’unità di intenti. Per quanto concerne Lecomte, ad esempio, emerge uno spiccato accento dadaista e finanche nichilista: «Tutto ciò che ho scritto può servire soltanto a distruggere. La costruzione non l’ho mai, non posso scriverla» [1971: 93]. Di conseguenza, sul piano politico il rivendicato côté marxista cela essere piuttosto una forma di anarchismo, a tratti debitore di Stirner. Riferendosi alla recensione di Crisi del

mondo moderno pubblicata nel 1928, Sergio Solmi [1972: 70] può a buon diritto

sostenere che la rivolta lecomtiana è più vicina alla Vertige di Rimbaud che al

Manifesto comunista.

Prima di analizzare la posizione di Daumal, è doverosa una premessa metodologica. L’isolamento della fase negatrice è utile per l’analisi, ma va compreso limitatamente a questo fine. Infatti, la negazione «non è che una tappa – la prima e fondamentale – del movimento dialettico dell’essere verso lo spirito» [Demangeot 2001: 26]58. È la rivolta generata dalla rivelazione, che prepara l’abnegazione e annucia la rivoluzione. Anche questa scansione va intesa in senso meramente logico e nella durata poiché, dalla (pan)ottica dello Zeit e di quella che Daumal definisce «esperienza fondamentale», i tre stadî collassano in una folgorante simultaneità.

Seconda premessa. Una lettera del 4 luglio 1932 a Paulhan chiarisce come Daumal non accetti che il disgusto costituisca il movente per avviarsi verso lo

Spirito, come invece sostiene Renéville [Paulhan 1986: 256]. La ragione è semplice: così facendo, si consentirebbe a un fattore «sentimentale» di svolgere un ruolo basilare in una questione che, invece, dev’esserne scevra. Per ciò Daumal insiste sull’assolutezza della negazione:

Volendo il meglio si nega ciò che è. Noi vogliamo innanzitutto un bene mediante il rifiuto di un male. Ma è piuttosto ciò che noi vogliamo che è, che è negazione di ciò che appare.

Infinito, assoluto, universale non sembrano. SONO PER NOI IN QUANTO

NEGAZIONI del finito, del relativo, dell’individuale che paiono. Formare queste Idee è volerle. [1993a: 287]59

Torniamo al 1928. La Premessa al primo numero del «Grand Jeu» – firmata da Roger Gilbert-Lecomte «in completo accordo» con Cramer, Daumal, Harfaux, Henry, Minet, Renéville, Šima e Vailland – rivendica l’obiettivo di «rimettere

tutto in questione in ogni attimo» [1974: 33; Aa.Vv. 1967: 3]. Due decenni dopo,

Vailland rilegge questa dichiarazione programmatica come se si trattasse della definizione stessa dello «spirito scientifico» [1948: 89]. La forzatura, che non avrebbe trovato il beneplacito dei compagni d’un tempo, non è tuttavia priva di spunti:

All’origine di tutti i campi della ricerca scientifica ritroviamo storicamente una medesima petizione di principio scandalosa: che tale o tal altra porzione del reale, sino ad allora considerata sacra, tabù, intoccabile, determinata da un fatalismo intrinseco [...] al contrario pertiene alla natura, ed è sottoposta a leggi oggettivamente determinabili. [90]

Adottando un’ottica auto-revisionistica, Vailland può affermare che la differenza fra i surrealisti – e gli appartenenti al Grand Jeu – e gli scienziati consiste nel credere al progresso. Ciò si traduce nella distinzione fra rivolta e rivoluzione. Le conseguenze del sillogismo sono prevedibili: «Ogni pensiero liberatore che non

sia legato a una volontà di trasformare il mondo, a un’azione rivoluzionaria, ha infine conseguenze reazionarie» [93]. Una conclusione che ha affascinato alcuni

interpreti del Grand Jeu, ma che non tiene in debito conto l’articolato discorso di Daumal.

Analizziamo da presso il suo testo pubblicato sul primo numero della rivista, nella sezione dedicata alla Necessità della rivolta60.

L’oggetto della rivolta è costituito da concetti socialmente condivisi che eterodirigono l’azione: «Desiderio, interesse, amore, bellezza, ragione» [1972a: 9; Aa.Vv. 1967: 3]. A prima vista, è l’atto gratuito dadaista quello che incarna al meglio la libertà totale, poiché ingenera un distacco dalla realtà che equivale allo stoicizzante «riso disperato di colui che [è] pronto a suicidarsi»61. Un riso che è lungi sia dall’abiezione che dal ribellismo, quest’ultimo dovendo riconoscere il «nemico» per contestarlo62. Questa fase non apre su una realtà differente, bensì

rinchiude l’uomo in una «prigione astratta» [10; 18] tramite la rimozione – Daumal scrive esattamente «refoulement» [11]63 – di una componente dell’essere

umano, gli istinti. Il disprezzo del mondo rivela una υβρις che esclude l’umanità, intesa come società e al contempo integralità dell’uomo64. Alla rivolta segue dunque l’abnegazione: «L’essenza della rinuncia consiste nell’accettare tutto negando tutto. [...] La libertà non è libero arbitrio, ma liberazione; è la negazione dell’autonomia individuale» [12; 21]65. Tale riflessione non è soltanto il frutto di una scelta etico-politica, ma vuole essere supportata da un idealismo dall’eco fichtiana:

In qualsiasi forma io mi colga, devo dire: non sono ciò. Con questa abnegazione, ributto ogni forma alla natura creata, e la faccio apparire oggetto; [...] questo atto di negazione è creatore della coscienza e del presente. [12; 21]

La rassegnazione alla quale si perviene è dunque frutto del «sacrificio perpetuo della rivolta», traducendosi sul piano politico in una sorta di «rivoluzione virtuale», costantemente sul punto di attuarsi. È perciò tutt’altro dall’attitudine dei «deboli», di coloro che «accettano tutto, ma non negano niente» [13; 22]66.

Facciamo un ulteriore passo indietro. Il 27 maggio 1867, Mallarmé scrive a Eugène Lefébure: «La distruzione fu la mia Beatrice» [1998-2003: I, 717]. È qui sintetizzato il doppio movimento di negazione e creazione che abbiamo analizzato nel capitolo dedicato alla poetica del Grand Jeu: dapprima la reazione all’esperienza della finitudine da parte del Dasein, poi – ma allo stesso tempo – il movimento opposto. In sintesi, «l’atto di negazione iperbolica è un atto di

creazione – di creazione quasi ex nihilo» [Poulet 1952: 335]. La produzione letteraria e la questione delle potenzialità autoreferenziali del linguaggio sono esemplari di questo processo. Come scrive Foucault ne Le parole e le cose, «una letteratura votata al linguaggio fa valere, nella loro vivacità empirica, le forme fondamentali della finitudine» [1966: 394]. E tuttavia, come rammenta Hölderlin in Patmos, «dove però è il rischio / anche ciò che salva cresce» [1993: 667]. Nella fattispecie, a repentaglio è la significanza stessa del linguaggio, che può svuotarsi fino a ridursi a uno sterile contenitore di significanti, favorendo il dogmatismo: «L’uso di un nome [...], ripetuto spesso quanto basta, rimpiazza con un’apparenza sonora la nozione che dapprima significava» [Daumal 1970b: 85]. La conseguenza può essere radicale e giungere alla scelta di sospendere la propria produzione poetica, come nel caso di Rimbaud. Alla base di ciò v’è però non soltanto la sfiducia nell’autenticità della parola umana, ma anche e soprattutto il timore che «l’aspirazione all’esperienza di un Assoluto trascendente [sia] irrimediabilmente votata all’impasse» [Marcaurelle 2004: 22]. L’esito rimbaldiano non è tuttavia inevitabile. La «fenomenologia mistica» [24], per esempio, a partire dalle medesime premesse sbocca in acque assai diverse. Oppure si può optare per la pratica di una poesia consapevole dei propri limiti e pronta a dibattersi per far segno verso un fuori che deve pur essere. È questa seconda opzione che troviamo nel Contre-Ciel, dove il procedimento retorico della negazione si carica d’una valenza gnoseologica e infine ontologica.

Nella raccolta daumaliana, la realtà fenomenica, portatrice di illusorietà, subisce un trattamento trasvalutativo, un «sistematico rovesciamento di valori» [Powrie 1990: 59] dalle velleità nietzscheane. Rileviamo innazitutto una profusione di figure antinomiche, dai «cieli liquidi» del Sudor panico [19552: 134] alle «pietre aeree» di Giorno, oh scandalo! [141]. Immagini che preparano una visione ove i contraddittori si conciliano, superando il dualismo nel quale è invischiata la percezione. Visione accennata in vari componimenti, ad esempio quando si prospetta una «notte polare sia bianca che nera» e un «cuore devastato sia fuoco che ghiaccio» [79]. Unico punto fermo, l’oggettiva difficoltà linguistica a esprimere il contro-mondo, caratterizzato da un’ineffabilità che chiama in causa la teologia negativa. La fusione del soggetto con l’Assoluto è l’occasione per fare appello al neoplatonismo:

L’Io, che si pone così senz’alcuna altra determinazione se non la negazione di ogni determinazione, non può più essere definito individuale. Questo momento della coscienza individuale coincide col Dio della «teologia negativa» di Plotino, ma considerando Dio nel suo aspetto esclusivamente trascendente, rigorosamente separato da tutto ciò che può ricevere un predicato positivo. [1970b: 68]67

L’apice dell’apofatismo è raggiunto nella s-definizione della «madre delle forme, senza forma» [19552: 80]68, preceduta da un’infilata di negazioni: «Né bianco né nero, né fuoco né ghiaccio, / né granello di piombo né puro spazio» [79].

Senza inoltrarci in una minuziosa analisi dei tropi di cui fa ampio uso il Contre-

Ciel, segnaliamo ancora le inversioni con valore oppositivo, particolarmente nel Giuramento di fedeltà:

L’anti-re della notte da basso, L’anti-me dell’altra faccia,

pensa e muove un cielo nero crepato d’astri. [...]

Colui che ride dal lato opposto [...] è l’Altro Re, no, è la Regina, è la Regina la Madre, regna all’inverso [...]. [76-77]69

Che la principale caratteristica del Principio superiore – o, meglio, che ciò che rende tale il Principio – sia la decostruzione delle opposizioni binarie, Daumal lo scrive esplicitamente in Fuoco a volontà: «Dio di tutte le contraddizioni risolte fra

quattro labbra» [19552: 89, c.m.]. Permanendo tuttavia l’impossibilità di circoscriverlo con una definizione, nel Contre-ciel ricorrono gli ossimori e talora parafrasi che Daumal trae dal vedantismo, come «Lui-stesso-no-non-è-Lui» [97] del poema in prosa Come tutto ricomincia. In questa fase, l’influenza orientale non è però ancora dominante; e nella critica antidogmatica, coniugata anche nei confronti del linguaggio, sussiste un sentimento di speranza, che emerge dalla possibilità stessa della denuncia. Quest’ultima ha assonanze con quanto sostiene Artaud nel medesimo periodo, per esempio quando nell’Ombilic des limbes del 1925 denuncia i «signori del falso verbo» [1956-98: I, 122] e il furto commesso da un Dio escatologico70. Nel saggio sull’Intuizione metafisica nella storia,

Daumal riecheggia la posizione artaudiana: «Tutte le religioni, tutti i dogmi al servizio dei nostri oppressori hanno da tempo tradito il linguaggio della verità, hanno rubato e ucciso le parole, lasciandone solo carcasse vuote, buone per farne qualunque cosa» [1970b: 171]. Tuttavia, Daumal insiste su un differente autore del crimine: nella maggior parte dei casi, il furto è commesso da sé stessi, al fine di autoconsolarsi: «Ce n’è sempre uno nella mia bocca, che spia le mie parole quando vorrei parlare» [19552: 206; 1972c: 43]. La funzione della dottrina indù è allora prospettare una salvezza di contro all’impaludamento al quale conduce la negazione tout court. Anche in questo caso, si sovrappone una lettura assai

orientata di Hegel. Daumal infatti concepisce o, meglio, istituisce l’infinito con

un movimento di pensiero che nega il finito: «Un’interpretazione cosciente del fatto che [la scelta critica] pone il proprio oggetto come una sfida vertiginosa» [Marcaurelle 2004: 80]. Nella Fenomenologia dello spirito, l’Assoluto è caratterizzato come «la sostanza e l’essenza universale, eguale a se stessa, permanente, – il granitico e indissoluto fondamento e punto di partenza dell’operare di tutti». Simultaneamente è «l’opera universale la quale, mediante l’operare di tutti e di ciascuno, si produce come loro unità ed eguaglianza: questa sostanza è infatti l’esser-per-sé, il Sé, l’operare» [1807: II, 2]. In Daumal, questo doppio versante si traduce in un Sé che è «negazione di tutto ciò che è particolare e diverso e cangiante in ciascuno. Questo Sé è l’attivo NO! Il NO è NO, identico a sé, senza forma» [1972b: 127]71. La negazione fa segno verso la «fusione col Verbo, che è l’unico Atto Puro, poiché è l’Atto infinito, la somma di TUTTI gli atti» [1992: 51], come si legge in una lettera del 17 settembre 1925 a Vailland. L’apice della negazione apre dunque alla creazione assoluta.

Torniamo alla Premessa del primo numero del «Grand Jeu»:

Una immensa spinta d’innocenza72 ha fatto cedere per noi tutti i quadri degli obblighi che un essere sociale è abituato ad accettare. Noi non accettiamo perché non capiamo più. Non i diritti né i doveri e le loro pretese necessità vitali. [Lecomte 1974: 33; Aa.Vv. 1967: 3]

Rovesciando i valori, la negazione acquista un carattere sociale. Prendere coscienza della necessità della rivolta (individuale) significa propendere per la rivoluzione (sociale)73. Qui ci interessa notare come l’anelito libertario smetta i

panni di un mero ribellismo adolescenziale, pur non sfociando nell’ortodossia di un vangelo socialista dalle sinistre coloriture hegeliane. Discutendo della manifestazione dello Spirito nel soggetto umano, Daumal scrive:

Se riconosce questa determinazione, il pensiero è pienamente cosciente, conosce la necessità della propria manifestazione [...]. Il «libero arbitrio», la «libertà d’indifferenza» non è altro che un fantasma di libertà. [1970b: 154]

È il tema fondamentale della critica all’individualismo e della libertà nella necessità, che emerge anche in una lettera a Henry del 12 agosto 1926: «In effetti la libertà pura è soltanto in Dio» [1992: 127]. Come vedremo nella seconda parte, queste riflessioni, affiancate dalla lettura almeno sommaria della Critica della

ragion pratica, non servono a ricalibrare il giudizio di Daumal su Kant. Un altro

aspetto contribuisce al contrario alla sua condanna, stavolta in compagnia dello Hegel propugnatore di «una filosofia il cui contenuto è speculativo e quindi

religioso» [1830: 426, c.m.]. Si tratta della particolare rivolta che coinvolge le

istituzioni ecclesiastiche, latrici di un ordine morale dogmatico. È ancora la programmatica Premessa la più eloquente: «Tutti i grandi mistici di tutte le

religioni sarebbero dei nostri se avessero spezzato le gogne delle loro religioni che non possiamo subire» [Lecomte 1974: 34; Aa.Vv. 1967: 4]74.

Come vedremo, la questione teologica sarà oggetto del primo «processo» intentato da Breton ai membri del Grand Jeu. Ma l’abbaglio, o la cattiva fede dal quale nasce è desumibile dalle parole che Daumal scrive a Vailland nella già citata lettera del 1925. Condividere la concezione aristotelica di Dio come Atto Puro [AM, 1072b, 10-30] è infatti assai diverso dall’accettare i dogmi del cattolicesimo. Quando il Grand Jeu parla di Dio, di grazia e di fede, lo fa con l’obiettivo di iniettare nuova linfa in quei concetti, ormai svuotati di intensità simbolica75. E ciò non tanto in chiave anti-cristiana, ma piuttosto nel tentativo di risalire alle fonti di quegli stessi concetti. Così avviene nel caso della voyance, inseparabile dalla fede, e che però va vissuta liberandosi dalla gabbia dogmatica della religione e finanche dell’esoterismo76. In quest’ottica va letta la

considerazione nella nota dedicata a Guénon sul secondo numero della rivista. Daumal accetta infatti la citazione evangelica riportata nella Crisi del mondo

«rivoltante» [1972a: 176] la frase successiva: «Ma guai all’uomo per cui lo scandalo avviene!»77.

In conclusione, ciò che contraddistingue nettamente la rivolta del Grand Jeu è la

scelta dell’abnegazione, che sacrifica la rivolta. La rinuncia consapevole è «una

distruzione incessante di ogni guscio con cui l’individuo cerca di rivestirsi» [1972a: 14; Aa.Vv. 1967: 23]. La rivolta è dunque costantemente sul punto di esplodere, proprio perché – se usiamo le distinzioni proposte da Pierre Lévy [1995] – essa è virtuale78. Mentre il possibile conduce a una realtà connotata da opzioni prestabilite, il virtuale tende all’attualizzazione di uno scenario che permane nella sua apertura problematica. La differenza fra i due processi è di natura qualitativa: il possibile si affaccia su una realtà costituita da meri accadimenti, il virtuale apre all’eventualità, in tutta la sua de-limitazione79. È in questa seconda modalità che si configura l’abnegazione del Grand Jeu, mentre il perseguimento della rivolta sfocerebbe inevitabilmente nella prima.

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