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Il corpo come «vesta»

Il tema della corporeità nella Commedia è indissolubilmente legato al dogma cristiano della resurrezione della carne alla fine dei tempi. Nel capitolo precedente abbiamo visto come, in conformità alla nuova tradizione escatologica medievale, l’attenzione di Dante sia focalizzata principalmente sull’esperienza vissuta dalle anime separate, dotate dei corpi aerei grazie ai quali essa risulta possibile. Pur nell’interesse verso il tempo escato-logico che va dalla morte corporale al giorno del Giudizio, l’intero poema è disseminato di episodi che richiamano ciò che accadrà in quel giorno, nel momento in cui si assisterà alla ripresa del corpo, desiderato, rimpianto, in alcuni casi irrimediabilmente perduto, e spesso indicato, nel corso dell’opera, come la veste di cui le anime si ammanteranno nuo-vamente alla fine dei tempi. Mi dedicherò in questo capitolo ai richiami al tema della resurrezione nella Commedia lungo le tre cantiche, ricordando anzitutto, in questo para-grafo, alcuni episodi il cui il corpo viene indicato come una veste, partendo dalle «misere carni» dei corpi infernali sino ad arrivare alle «bianche stole» dei corpi gloriosi dei beati.

Il primo riferimento alla veste corporale si trova proprio in un canto ove protagoniste sono delle anime che di essa saranno impossibilitate a rivestirsi, i suicidi di Inf. XIII. Il contrappasso a essi riservato prevede infatti che dopo il Giudizio non possano rivestirsi del corpo strappatosi volontariamente, il quale sarà invece impiccato nella selva, ciascuno all’arbusto germogliato dalla propria anima.

In Inf. XXXIII il conte Ugolino racconta a Dante la propria misera storia: accusato di tradimento e fatto rinchiudere nella torre della Muda a Pisa assieme ai figli e ai nipoti, li vede morire uno a uno a causa della fame, prima d’incontrare anch’egli la morte. Nel

racconto di Ugolino, in un picco d’intensa drammaticità, egli descrive la reazione dei figli nel momento in cui essi videro soffrire il proprio padre per la fame, e lo esortarono a cibarsi delle loro carni per sopravvivere:

[…] “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia”.1

La similitudine del corpo come di una veste di cui si è ammantati e ci si spoglia con la morte riguarda in questo caso un corpo sofferente e ferito, quelle «misere carni» di cui è disseminato il mondo infernale dantesco.

Questo corpo offeso si discosta in modo significativo dalla veste corporale che s’in-contra procedendo nella lettura e giungendo nel mondo purgatoriale, ove le anime sono soggette a pene fisiche, ma sicure della beatitudine futura: in Purg. I Virgilio si rivolge così all’anima di Catone, guardiano del Purgatorio, riferendosi alla sua scelta nella vita terrena di preferire la morte alla privazione della libertà:

Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti

la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.2

L’immagine è ora quella di un corpo glorioso, contrapposto a quello terreno, sepolto a Utica. In Purg. XVI, tra gli iracondi Dante incontra l’anima di Marco Lombardo, renden-dolo edotto della propria condizione di vivente e indicando il proprio corpo come una «fascia»:

[…] «Con quella fascia

che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l’infernale ambascia.3

1 Inf. XXXIII 61-63.

2 Purg. I 73-75.

Nel Paradiso Terrestre, uno dei ventiquattro vecchi che precedono il carro della proces-sione grida per tre volte l’inno Veni, sponsa, de Libano, subito imitato dagli altri. Cento angeli si alzano in volo dal carro in risposta al grido, e sono paragonati da Dante ai beati che il giorno del Giudizio si leveranno solleciti ognuno dalla propria «caverna», il proprio sepolcro, cantando l’Alleluia di lode, celebrante la «revestita voce», ossia il corpo ricon-quistato e ricongiuntosi all’anima:

e un di loro, quasi da ciel messo, ‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando gridò tre volte, e tutti li altri appresso.

Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna, la revestita voce alleluiando,

cotali in su la divina basterna si levar cento, ad vocem tanti senis, ministri e messaggier di vita etterna.

Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’, e fior gittando e di sopra e dintorno, ‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’.4

Anche in questo caso, come in Purg. I, il corpo cadavere in terra viene contrapposto alla gloria cui esso andrà incontro alla fine dei tempi. Nel canto successivo Beatrice, rivol-gendosi a Dante, si riferisce così al proprio corpo: «[…] le belle membra in ch’io / rin-chiusa fui, e che so’ ’n terra sparte»5: anch’ella dunque fasciata e rinchiusa, prima della morte, da quel corpo ora disordinatamente scomposto in terra.

Anche nella terza cantica è presente il corpo paragonato a una veste. Al canto XIV, così parla l’anima di Salomone: «Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta»6. Infine, a Paradiso XXV vengono richia-mate le parole del profeta Isaia: «Dice Isaia che ciascuna vestita / ne la sua terra fia di doppia vesta: / e la sua terra è questa dolce vita».7 Di questi due canti mi occuperò appro-fonditamente nel procedere del capitolo.

4 Purg. XXX 10-21.

5 Purg. XXXI 50-51.

6 Par. XIV 43-45.

3.2 Il corpo delle anime dannate e il tema della resurrezione