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Paradiso XIV: la sorte dei beati

3.4 Il tema della resurrezione nel Paradiso

3.4.1 Paradiso XIV: la sorte dei beati

Dopo quest’analisi di versi nei quali Dante offre una descrizione del corpo e dell’aspetto delle anime beate, giungiamo ora al canto XIV, il quale si svolge interamente nel cielo del Sole. Qui predomina esplicito il tema della resurrezione e del corpo, che le anime riacquisteranno nel giorno del Giudizio. Per questo motivo, si crea un evidente parallelismo tra questo canto e Inf. VI, e suo corrispettivo (cfr. 3.2.1). Allo stesso modo in cui Dante si era interrogato in merito alla maggiore, minore o eguale intensità dei tor-menti dei dannati una volta riacquistato il corpo, qui egli s’interroga sull’intensità del fulgore luminoso che gli spiriti irraggeranno una volta ricongiuntisi con esso.

La domanda non viene posta direttamente dal poeta, com’egli aveva fatto tra i golosi, interrogando Virgilio, ma da Beatrice, la quale conosce i pensieri di Dante prima ancora ch’essi siano pensati, e rivolge all’anima di Salomone tale dubbio del poeta, ancora ine-spresso:

«A costui fa mestieri, e nol vi dice né con la voce né pensando ancora, d’un altro vero andare a la radice.

Diteli se la luce onde s’infiora vostra sustanza, rimarrà con voi etternalmente sì com’ ell’ è ora; e se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti,

esser porà ch’al veder non vi nòi».63

La luce di cui si riveste la «sustanza», ossia l’anima, dei beati rimarrà tale e quale anche in seguito al ricongiungimento col corpo? E in caso di risposta affermativa, una volta ch’essi saranno «visibili rifatti», ovvero una volta che potranno essere veduti dagli altri beati, avendo ripreso le proprie sembianze64, come potrà accadere che l’intensità di una

63 Par. XIV 10-18.

tale luce non offenda gli occhi ora corporei?65 Dopo una manifestazione di tripudio e gioia da parte delle anime a tale dubbio di Dante, Salomone risponde così alla prima parte di esso:

[…] «Quanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amore si raggerà dintorno cotal vesta.

La sua chiarezza séguita l’ardore; l’ardor la visïone, e quella è tanta, quant’ ha di grazia sovra suo valore.

Come la carne glorïosa e santa fia rivestita, la nostra persona più grata fia per esser tutta quanta;

per che s’accrescerà ciò che ne dona di gratüito lume il sommo bene,

lume ch’a lui veder ne condiziona; onde la visïon crescer convene, crescer l’ardor che di quella s’accende, crescer lo raggio che da esso vene.66

Quanto a lungo durerà il gaudio del paradiso – eternamente –, tanto a lungo l’ardore di carità di cui si accendono le anime s’irradierà attorno a esse, come una «vesta» della quale esse si ammantano. La «chiarezza» di tale fulgore è proporzionale all’ardore di carità provato dalle anime beate, e quest’ultimo, spiega Salomone, lo è a sua volta alla visione di Dio, commisurata allo stato di grazia che Egli concede a seconda del «valore», ossia del merito. Dice Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae:

Ad secundum dicendum quod opera non habent quod eis retributio gloriae reddatur nisi inquantum sunt caritate informata. Et ideo secundum diversos caritatis gradus erunt diversi gradus in gloria.67

65 Sulla resurrezione del corpo in Par. XIV, cfr. Soprano 1964, pp. 487-488, e Chiavacci 2010, pp. 14-17.

66 Par. XIV 37-51.

67 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, Supplementum, q. 93, a. 3: «In merito alla seconda difficoltà bisogna dire che le opere non meritano che a esse sia retribuita la gloria se non in quanto sono informate dalla carità. E perciò i diversi gradi nella gloria saranno diversi a seconda dei diversi gradi di carità» (tra-duzione mia).

Una volta rivestito il corpo con la resurrezione, la persona sarà ora perfetta68, in quanto sinolo di anima e corpo, come afferma di nuovo Tommaso nella Summa, chiedendosi proprio se la beatitudine dei santi sarà maggiore prima o dopo il Giudizio:

Ad primum ergo dicendum quod anima coniuncta corpori glorioso est magis Deo similis quam ab eo separata, inquantum coniuncta habet esse perfectius: quanto enim est aliquid perfectius, tanto est Deo similius. Sicut etiam cor, cuius vitae perfectio in motu consistit, est Deo similius quando movetur quam quando quiescit, quamvis Deus nunquam moveatur.69

Così, come era stato detto anche in Inf. VI, la creatura sarà più perfetta dopo il ricongiun-gimento col corpo, ed essendo di conseguenza più gradita a Dio, il dono di luce sarà maggiore, e ne deriverà un accrescimento della visione, e con essa dell’«ardor», interno al cuore, e del «raggio», l’irraggiarsi esternamente di quell’ardore.70 La luce di cui sa-ranno circondati i beati sarà dunque, col ricongiungimento col corpo, maggiore.

Una volta chiarito il primo dubbio di Dante, l’anima di Salomone procede col discio-gliere il secondo:

Ma sì come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, sì che la sua parvenza si difende;

così questo folgór che già ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto dì la terra ricoperchia;

né potrà tanta luce affaticarne: ché li organi del corpo saran forti a tutto ciò che potrà dilettarne».71

68 Cfr. Inf. VI 107.

69 Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Supplementum, III, q. 93, a. 1: «In merito alla prima difficoltà bisogna dire che l’anima è più simile a Dio quando è congiunta al corpo glorioso rispetto a quando è da esso separata, poiché da tale unione risulta un essere più perfetto: infatti quanto più qualcosa è perfetto, tanto più è simile a Dio. Così anche il cuore, la cui perfezione di vita consiste nel moto, è più simile a Dio quando si muove che quando è fermo, sebbene Dio non si muova mai» (traduzione mia).

70 Chiavacci, ad locum.

La spiegazione di Salomone si sviluppa da una similitudine riguardante l’esperienza con-creta: allo stesso modo in cui il carbone incandescente può essere intravisto nello splen-dore della fiamma in cui arde, pur se avvolto dal fulgore di essa, così la figura umana, una volta riacquistato il corpo sepolto in terra, sarà visibile pur se circondata da tanta luminosità. Netto è in questa parte del discorso il contrasto tra il corpo ridotto a cadavere e ricoperto dalla terra e quello glorioso che, come spiega il re, sarà dotato di organi tal-mente potenti da essere in grado di sostenere la visione delle altre anime beate, avvolte da una luce altrettanto intensa, e le quali saranno, anzi, fonte di diletto per la vista.

Alla fine del discorso di Salomone, le anime esplodono in un tripudio di gioia e decla-mano all’unisono un Amme! che rivela senz’altro, come afferma Dante, il desiderio ch’esse provano verso i propri corpi morti (cfr. 2.4.3).72 È apparentemente paradossale il fatto che il ricongiungimento col corpo lasciato in terra sia tanto desiderato proprio nel paradiso, luogo di perfezione e gioia totale delle anime, appagate dalla visione perpetua di Dio. È proprio tuttavia grazie al corpo terreno, così lontano dalla leggerezza e dalla luce paradisiaca, sepolto e ricoperto dalla terra, ch’esse potranno ottenere la beatitudine completa, ed è proprio esso che le porterà a essere perfette e, per questo, maggiormente gradite a Dio. Non dunque corpo come materia bassa e sede di vili istinti, meno merite-vole di attenzione rispetto all’anima, bensì elemento necessario di una completezza per-fetta. Tale desiderio viene palesato in modo più evidente nella terza cantica proprio per tale motivo, in una differenza palese tra le anime incontrate lungo le tre cantiche: i dannati non sembrano rimpiangere il proprio corpo, dal momento che alla perfezione ottenuta tramite la nuova unione di anima e corpo seguirà necessariamente un acuirsi della pena. Le uniche anime infernali che rimpiangono il proprio corpo sono quelle, come visto, dei suicidi, le quali non potranno mai più ricongiungersi a esso, secondo il contrappasso pro-prio del peccato di cui si sono macchiate. Le anime purganti sembrano invece rendersi conto con maggiore dolenza e nostalgia della perdita del corpo, dal momento ch’esse saranno destinate, dopo il periodo di purificazione, alla beatitudine paradisiaca, e dunque anche per loro il ricongiungimento con esso significherà, in quanto future anime beate, una gloria maggiore, la stessa alla quale andranno senz’altro incontro quelle già beate

nella terza cantica, e che dimostrano qui il desiderio del proprio nuovo corpo «glorioso» in un tripudio di esultanza.