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Buona fede, correttezza e perseguimento del profitto: l’equità nelle prestazioni e la sproporzione del valore economico dello scambio 

CAPITOLO III  CORRETTEZZA E BUONA FEDE COME REGOLA PRECETTIVA 

12.  Buona fede, correttezza e perseguimento del profitto: l’equità nelle prestazioni e la sproporzione del valore economico dello scambio 

 

La  buona  fede,  la  correttezza  o  la  lealtà  richiesta  all’imprenditore  nell’esercizio  della  propria  attività  di  impresa  dall’art.  39  cod.  cons.  non  possono sospingersi sino al includere nel perimetro valutativo elementi di  equità, ovvero elementi di valutazione del contenuto economico del con‐ tratto secondo i valori correnti di mercato, allorché sia stata assicurata la  libertà  del  consumatore  di  determinarsi  all’acquisto  (157):  i  canoni  di  con‐ dotta  imposti  all’imprenditore,  infatti,  non  possono  comportare  una  imposizione  di  prezzi,  ovvero  pretendere  che  l’imprenditore  operi  gli  scambi  “a  giusto  prezzo”,  identificato  questo  a  sua  volta  in  quello  di  mercato o con riguardo al costo di produzione. La carica di giustizia che  può  essere  imposta  all’imprenditore  in  ragione,  da  un  lato,  di  una  efficienza del  mercato  e,  dall’altro,  della  tutela  del  consumatore non  può  condurre  ad  includere  nel  concetto  di  buona  fede  il  valore  dell’equità 

157 Sul punto si vedano le considerazioni di A. BASSI, Correttezza e contratto di società, 

in  Giur.  comm.,  2002,  I,  p.  301;  L. BIGLIAZZI GERI,  Buona  fede,  cit.,  184;  C.M.  BIANCA,  Il 

dello  scambio,  ovvero  un  limite  (quantitativo)  al  perseguimento  del  profitto da parte dell’imprenditore stesso. 

Del  rapporto  tra  correttezza,  buona  fede  ed  equità  si  è  ampiamente  occupata la dottrina civilistica con riferimento alla materia contrattuale. Al  riguardo, taluni autori (158), significativi ma certamente minoritari,  hanno  valorizzato  la  prescrizione  dell’art.  1374  c.c.,  assegnando  a  quest’ultima  norma  un  ruolo  primario  di  integrazione  del  contratto  e  relegando  alla  buona  fede  il  compito  meno  significativo  di  semplicemente  concorrere  a  determinare  le  modalità  esecutive  delle  singole  prestazioni:  in  definitiva,  «le  specifiche  circostanze  che  in  concreto  caratterizzano  la  singola  operazione  negoziale  dovrebbero  risultare  valorizzate  al  massimo  grado,  ben oltre i limiti entro i quali sia ad esse concesso di agire sul contratto in  virtù del canone di buona fede» (159). 

Risulta del tutto prevalente, invece, l’opinione secondo la quale, da un  punto  di  vista  qualitativo,  il  giudizio  di  equità  differisce  da  quello  di  buona fede sia con riguardo al tipo di circostanze che possono essere prese  in  considerazione  dal  giudice,  sia  relativamente  alla  qualificazione  di  clausola  generale  che  competerebbe  solo  a  quest’ultima  e  non  alla  prima  (160):  si  afferma,  infatti  che  «la  buona  fede  postula  il  ricorso  a  criteri  di  valutazione in grado di assurgere a regola di giudizio applicabile in serie,  laddove  l’equità  si  rimette  ad  un  giudizio  che,  per  il  carattere  indefinito  delle variabili da considerarsi, non è in alcun modo generalizzabile ed è,  in tal senso, soggettivo del giudice, ancorchè non arbitrario e pur sempre  ispirato alle direttive dell’ordinamento positivo e, in tal guisa, non affatto 

158  M.  FRANZONI,  Buona  fede ed  equità  tra  le  fonti  di  integrazione  del  contratto,  in  Contr. 

impr., 1999, p. 89, che evidenzia che «la buona fede ha finito per occupare uno spazio che 

avrebbe potuto essere dell’equità»; F. GAZZONI, Equità e autonomia privata, Milano, 1970,  p. 132. 

159  S.  RODOTÀ,  Le  fonti  di  integrazione  del  contratto,  Milano,  2004,  p.  214;  F.  GAZZONI

Equità, cit., p. 355. 

esente dal controllo di legittimità» (161). 

La  solidarietà  sociale  che  costituisce  il  contenuto  dell’obbligo  di  condotta  secondo  buona  fede,  pur  orientando  l’agire  imprenditoriale  verso il rispetto di istanze di tutela esogene al singolo rapporto economico  o contrattuale, non può contrapporsi, quale giudizio di valore negativo, al  libero  e  naturale  meccanismo  di  formazione  del  prezzo,  ovvero  alle  dinamiche di confronto della domanda e dell’offerta; questi ultimi, infatti,  costituiscono  gli  unici  strumenti  per  la  selezione  dei  soggetti  offerenti,  ovvero per la “calmierizzazione” del prezzo di cessione dei beni o dei ser‐ vizi.  La  congruità  dell’equilibrio  economico  raggiunto  dagli  interessati  è,  dunque, estraneo ad ogni possibile valutazione in termini di buona fede:  l’equilibrio economico è affidato alla esclusiva piena capacità di autodeter‐ minazione del consumatore, il quale non potrà lamentare se egli non abbia  ricevuto  quel  vantaggio  in  considerazione  del  quale  era  stata  fissata  l’entità  della  prestazione  medesima.  Tale  discorso  vale  ovviamente  se  le  informazioni  rese  siano  state  complete  e  sufficienti  e  se  le  modalità  di  promozione e cessione del bene o del servizio non abbiano falsato il com‐ portamento economico della parte consumatrice; e sempre che non siano  superati  quei  limiti  previsti  dallo  stesso  legislatore  per  l’istituto  della  re‐ scissione del contratto per lesione (art. 1447 ss. c.c.), e cioè lo stato di biso‐ gno e la lesione ultra dimidium. 

Nè pare possibile far rientrare nel perimetro della correttezza regole di  allocazione del rischio, tal che, misurato il rischio che assume l’imprendi‐ tore  nell’esercizio  della  propria  attività,  questo  diventi  un  limite  per  il  perseguimento di profitti, impedendo che si acquisiscano vantaggi econo‐ mici  superiori  al  rischio  stesso  (162):  tale  meccanismo  di  protezione  della  parte,  infatti,  può  operare  in  campo  negoziale  solo  se  espressamente 

161 Per tutti F. GALGANO, Effetti, cit., p. 91 ss. 

162 A. RICCIO, La clausola generale di buona fede è, dunque, un limite generale all’autonomia 

prevista dalle parti (163).  

In  definitiva,  la  correttezza  e  la  buona  fede  non  possono  erodere  margini alla lucratività ed alla speculazione, trasformando l’impresa in un  organismo  finalizzato  al  perseguimento  di  valori  etici  o  altruistici,  nè  possono influire sulle tecniche e sulla mentalità necessariamente opportu‐ nistica  dell’imprenditore  nel  momento  in  cui  si  propone  al  mercato.  La  correttezza,  tuttavia,  può  costituire  un  criterio  interno  alla  lucratività  ed  alla  speculazione,  quale  principio  dell’organizzazione,  assicurando  che  il  risultato lucrativo dell’attività economia non comprometta la fruizione, da  parte dei terzi, di quei valori fondamentali e delle libertà personali che la  Carta costituzionale sancisce a livelli prioritari, o con pari dignità e consi‐ derazione,  rispetto  alla  libertà  di  iniziativa  economica.  L’esercizio  della  libertà  da  parte  di  un  consociato,  infatti,  deve  necessariamente  collocarsi  in un sistema collettivo di tutela delle altrui libertà. 

L’estraneità al sistema di tutela del consumatore di qualsiasi condizio‐ namento  sull’imprenditore  riguardo  alla  valutazione  economica  dello  scambio  è,  altresì,  desumibile  dall’ormai  risalente  interpretazione  fornita  dalla  dottrina  assolutamente  maggioritaria  in  tema  di  clausole  vessatorie  (164).  L’art.  33  cod.  cons.,  infatti,  riproducendo  il  previgente  art.  1469  bis  c.c., ha espressamente previsto la nullità delle clausole «che, malgrado la  buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squili‐ brio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto». A tal riguardo, si è  osservato  che  per  significativo  squilibrio  dei  diritti  e  degli  obblighi  deri‐ vanti dal contratto deve intendersi esclusivamente la sperequazione delle 

posizioni  giuridiche  che  si  determina  a  carico  del  consumatore  privo  di 

potere  contrattuale,  esclusa  ogni  valutazione  economica  delle  prestazioni 

163  Sul  rapporto  tra  base  negoziale  e  principi  di  giustizia  negoziale  C.  CACCAVALE

Giustizia del contratto e presupposizione, Torino, 2004, p. 163 ss, e spec. 185 ss. 

164  Per  un’ampia  rassegna  della  bibliografia  si  rinvia  a  V.  RIZZO,  Il  significativo 

squilibrio «malgrado» la buona fede nella clausola generale dell’art. 1469 bis c.c.: un collegamento  «ambiguo» da chiarire, in Rass. dir. civ., 1996, p. 497 ss. 

corrispettive (165). L’art. 34, comma 2, cod. cons. (già art. 1469‐ter, comma  2,  c.c.)  precisa  che  «la  valutazione  del  carattere  vessatorio  della  clausola  non  attiene  ...  all’adeguatezza  del  corrispettivo  dei  beni  e  dei  servizi  ...  purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile». E’  agevole, perciò, desumere che lo squilibrio rilevante per la qualificazione  di  vessatorietà  della  clausola  è  quello  “normativo”,  e  non  quello  economico:  il  legislatore  ha  inteso  proteggere  il  consumatore  solo  per  gli  aspetti  del  rapporto  con  l’imprenditore  che  determinino  un  significativo  squilibrio tra diritti ed obblighi, e non tra bene (o servizio) e corrispettivo. 

Non si intende in alcun modo sindacare la congruità dello scambio, la  convenienza  dell’affare,  l’equivalenza  tra  le  prestazioni:  «più  modesta‐ mente, il legislatore vuol far corrispondere ad un diritto del professionista  un diritto del consumatore, in un’ottica di tendenziale corrispondenza tra  le  posizioni  giuridiche  di  vantaggio  e  svantaggio  di  ciascuno  dei  contraenti» (166). 

Se  dunque  nella  predisposizione  del  regolamento  contrattuale  e  nella  fase  dello  scambio  lo  stesso  legislatore  ha  ritenuto  non  censurabile  una  determinazione  del  corrispettivo  richiesto  dall’imprenditore  rispetto  al  valore  del  bene  o  del  servizio  offerto  (con  il  solo  limite  della  rescissione  del  contratto),  non  appare  possibile  che  siffatta  valutazione,  in  senso  di  censura  per  la  condotta  dell’imprenditore,  possa  essere  introdotta  attraverso  l’imposizione  di  doveri  di  buona  fede  o  di  correttezza.  Gli  aspetti  strettamente  economici  relativi  alla  determinazione  del  valore  economico dello scambio, soprattutto nell’ambito di un sistema economico  fondato sul mercato concorrenziale, devono ritenersi estranei al perimetro  della  correttezza,  che  non  intende  perciò  assicurare  che  gli  scambi  avvengano al “giusto prezzo”, nè che l’imprenditore sia equo nel richiede‐

165 Per tutti  E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale, Torino, 2006, p. 63.  166 E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore, cit., p. 63. 

re il prezzo per i propri prodotti o servizi. L’eventuale irragionevole eso‐ sità  del  corrispettivo  richiesto  dall’imprenditore  sarà  oggetto  di  valu‐ tazione da parte del mercato, che se correttamente funzionante, orienterà  la domanda verso i prodotti o servizi migliori ceduti al prezzo più basso. 

L’equità  dello  scambio  potrà  venire  in  rilievo  sotto  il  profilo  della  condotta scorretta dell’imprenditore solo lì dove vi sia un abuso da parte  di  quest’ultimo  della  situazione  di  bisogno  del  consumatore‐utente,  ovvero  della  soggezione  economico‐giuridica  dello  stesso:  se  ricorre  una  situazione  di  monopolio  o  di  posizione  dominante  dell’impresa,  la  fattispecie  è,  invero,  sanzionata  dalle  norme  antitrust,  con  poteri  di  intervento  dell’autorità  amministrativa  di  controllo  del  mercato  non  già  per fissare prezzi più bassi, ma per sanzionare la condotta dell’impresa ed  obbligarla  ad  adottare  una  condotta  più  “corretta”,  nel  senso  di  abbassamento dei prezzi. 

Ove  tale  situazione  di  mercato  non  ricorra,  ma  sia  comunque  rav‐ visabile  una  situazione  di  abuso  dell’imprenditore,  la  censura  della  condotta  potrà  essere  veicolata  dalle  norme  in  tema  di  correttezza:  la  scorrettezza sarà non già nella mera fissazione del prezzo eccessivamente  elevato per quel determinato bene o servizio, ma nel voler conseguire un  ingiustificato profitto approfittando della particolare situazione di bisogno  o  di  debolezza  del  consumatore  (si  pensi  alla  fissazione,  in  situazioni  di  particolare  necessità  o  urgenza,  di  un  prezzo  maggiorato  di  un  farmaco  rispetto a quello normalmente praticato dall’imprenditore). 

   

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