CAPITOLO III CORRETTEZZA E BUONA FEDE COME REGOLA PRECETTIVA
10. Proliferazione della normativa settoriale e principio di precauzione
L’esigenza di affermazione di un criterio di giudizio ampio e generale sulla condotta dell’imprenditore esprime un quid novi che trova origine dal proliferare della legislazione speciale, nella quale il legislatore ordinario ha mostrato di voler tener conto delle indicazioni costituzionali contenute nell’art. 41, per il versante dell’imprenditore, e nei diversi articoli che sanciscono diritti fondamentali per le “persone” – consuma‐ tori, coniugati al criterio dell’utilità sociale. Il riferimento è soprattutto al rispetto della persona umana, della sua personalità, della salute, del risparmio, del lavoro, alla luce delle nuove acquisizioni della scienza e della tecnica e della globalizzazione dei mercati.
Al riguardo, sembra opportuno ricordare che la clausola generale di buona fede non può essere interpretata come mero incide di valutazione del corretto adempimento di norme positive date: l’iniziale concezione re‐ strittiva del ruolo della buona fede, secondo la quale «la violazione dei doveri generici di lealtà e correttezza è fonte di responsabilità per danni solo quando concreti la violazione di un diritto altrui, riconosciuto in base ad altre norme» (127) era ispirato soprattutto da una dottrina critica rispetto all’uso da parte della giurisprudenza di principi o clausole generali per la risoluzione dei conflitti. A tal proposito si evidenziava come spesso le re‐ gole operative individuate dai giudici per dare contenuto concreto alla clausola di buona fede si sostanziavano in obblighi specifici e doveri generali di poca utilità, perché «gli obblighi specifici sembra si possano
127 Così Cass. 16 febbraio.1963, n. 357; Cass. 5 ottobre 1980 n. 5610; Cass. 21 novembre
1983 n. 6933; più recentemente, tale tesi sembra ripresa da Cass. 29 marzo 2007, n. 7731, che parimenti ha ritenuto che «la violazione dei principi di correttezza e buona fede si configura solo nell’ipotesi in cui vengano lesi diritti soggettivi già riconosciuti in base a norme di legge, riguardando le modalità di adempimento degli obblighi a tali diritti correlati; le stesse regole non valgono, invece, a configurare obblighi aggiuntivi che non trovino, ai sensi dell’art. 1173 c.c., la loro fonte nel contratto, nel fatto illecito o in ogni altro atto o fatto idoneo a produrlo in conformità dell’ordinamento giuridico».
moltiplicare indefinitivamente a seconda di quel che serve alla soluzione del caso concreto e i doveri generali appaiono mere varianti terminologi‐ che dl dovere di buona fede» (128).
Acquisito, invece, il valore precettivo delle clausole generali (129), ad esse va riconosciuto anche una portata applicativa diretta ed integrativa delle norme speciali, al fine di porre canoni “etici” di condotta che siano mutevoli e flessibili con il progredire della società e dei sistemi economici e giuridici. Ed anzi, è stato opportunamente segnalato come «nei sistemi giuridici fondati sui codici, la norma giuridica tende a coprire tutti i profili dei rapporti ed abbiamo a cascata una diffusa normativizzazione dei rap‐ porti economici attraverso norme primarie e norme secondarie. Nonostan‐ te questa tendenza alla regolamentazione del dettaglio, restano comunque aspetti e profili dei comportamenti che non possono avere una definizione giuridica, ma solo essere oggetto di valutazione (ad esempio: corretto o non corretto, buona o malafede, diligente o negligente). Ebbene, il nostro sistema normativo si richiama in più occasioni a tali concetti, di per sé non giuridici in senso tecnico, i quali diventano uno strumento di integrazione della regola giuridica, salvo a considerare essi stessi come regole giuridi‐ che» (130). In definitiva, quanto maggiore è l’analiticità della regolamenta‐ zione della vicenda giuridicamente rilevante, tanto maggiore è avvertita l’esigenza di una norma di carattere generale che valga a dettare la regola per le ipotesi non contemplate dalle norme speciali; regola generale che appare correttamente orientata a suggerire «una valutazione del comportamento del professionista, sussumendo, così, nell’ambito della
128 M. BARCELLONA, Un breve commento sull’integrazione del contratto, in Quadrimestre,
1988, p. 528.
129 Vedi per un’ampia rassegna della dottrina e della giurisprudenza C. CACCAVALE,
Giustizia del contratto, cit., p. 163 ss.
doverosità giuridica, principi che si ritrovano anche nell’etica» (131).
La previsione di una norma precettiva di stampo etico ha l’ulteriore conseguenza che in tal modo il contenuto della correttezza non sarà più valutato in base ad indagini “corporative” e, cioè, in base alla «condotta normalmente tenuta dagli operatori in generale, sebbene in relazione ad un costume professionale eticamente qualificato ed i cui parametri di valutazione non sono rinvenibili tanto in un generico concetto di onestà, quanto – e soprattutto – in regole deontologiche che essi operatori abbiano riconosciuto valide e vincolanti» (132), bensì in ragione di parametri desun‐ ti dal comune sentire della generalità dei consociati e plasmati alle esigen‐ ze di tutela di questi ultimi (133). Diversamente, sarebbe alquanto irragio‐ nevole misurare sulla prassi dei professionisti e sulle effettive scelte dei consumatori la lealtà della condotta dello stesso professionista: significhe‐ rebbe, cioè, elevare a principio che «quel che avviene conviene» (134), rendendo del tutto inutile l’intervento normativo. Esso ha senso, e funzio‐ na, se ciò che avviene può essere confrontato con ciò che deve avvenire, adottandosi un parametro che integri la clausola generale della regola legale.
Sotto tale profilo, in una prospettiva di regolazione dell’attività d’im‐
131 M. SANDULLI, Strumenti giuridici, cit., p. 75. Questo è quanto accade nei paesi di
civil law; nei paesi di common law, invece, in cui poche sono le norme settoriali (anche se
in aumento negli ultimi anni), il sistema è retto interamente da principi generali applicati in relazione ai casi concreti.
132 Cass. 15 febbraio 1999, n. 1250; sul punto v. anche M. SANDULLI, op. ult. cit., p. 76. 133 Va peraltro ricordato come lo stesso concetto di correttezza è stato per lungo
tempo ancorato alla morale individuale, cogliendosi in epoca più recente il legame con la «mistica del collettivo, del sociale, della comunità»: così G. CRISCUOLI, Buona fede e
ragionevolezza, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 718.
134 A. GENTILI, Pratiche sleali, cit., p. 5; M. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni
particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contr. imp., 2009, p. 85: «è
nota infatti la tendenza delle imprese ad allinearsi spontaneamente su standard di comportamento non molto rispettosi della libertà del consumatore, in contesti di mercato in cui, inevitabilmente, la moneta cattiva (cioè la pratica commerciale più disinvolta) finisce per scacciare la buona. Più che sotto ogni altro profilo, una disciplina delle pratiche commerciali volte a tutelare efficacemente il consumatore deve dunque fondarsi su criteri eteronomi, rispetto alla volontà e alle abitudini delle imprese interessate».
presa, diventa emblematico e centrale il «principio di precauzione» sancito nell’art. 174, § 2 del Trattato di Nizza istitutivo dell’Unione Europea, a tenore del quale, con riferimento all’autonomia d’impresa, si individua una responsabilità dell’imprenditore non più solo collegata al mero inte‐ resse produttivo, bensì ai danni cagionati a consumatori ed utenti dai pro‐ dotti dell’impresa stessa. In base a tale principio si delinea un regime di responsabilità che consegue ad un’applicazione tecnologica di acquisizioni scientifiche, anche in mancanza di certezze sulle loro conseguenze, e che trascende il mero elemento oggettivo del prodotto, ma si riferisce all’in‐ tero sistema organizzativo dell’impresa, che deve essere teso a tutelare le aspettative di sicurezza della salute e di sicurezza delle libertà. Sulla scorta di tale principio vanno ricordati, come applicazione dello stesso: a) la legge 22 febbraio 2001 n. 36, la quale dopo aver richiamato l’art. 32 Cost. e, quindi, la tutela della salute dei lavoratori e della popolazione, indica come fine ultimo della normativa la protezione, la promozione della ricerca scientifica per la valutazione degli effetti a lungo termine e l’attiva‐ zione di misure di cautela da adottare in applicazione del principio di precauzione; b) la legge 5 marzo 2001 n. 57, ancor più importante perché recante disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati, la quale, nel dettare i criteri informatori della delega a garanzia della salute dei consumatori per la modernizzazione dei settori dell’agricoltura e della pesca, indica come criterio direttivo la necessità di garantire la tutela della salute dei consumatori nel rispetto del principio di precauzione; c) il d.lgs. 21 maggio 2004, n. 172 di attuazione della Direttiva sulla sicurezza generale di prodotti, il cui art. 2, dopo aver definito «prodotto sicuro» quello che non presenti alcun rischio o comunque rischi minimi, richiede che questi ultimi siano considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e delle persone; ed il cui art. 6, nel deter‐ minare l’indirizzo che le amministrazioni pubbliche devono adottare in
presenza di prodotti pericolosi, o che possono essere pericolosi, indica, tra le misure da prendere, oltre quelle previste dallo stesso provvedimento, misure analoghe tenendo conto del principio di precauzione in modo pro‐ porzionato alla gravità del rischio.
Del principio di precauzione ha fatto, poi, applicazione la Corte di Giustizia (135), decidendo in materia di offerta sul mercato di nuovi prodot‐ ti alimentari potenzialmente pericolosi per la natura umana (136). In tale sentenza, infatti, la Corte ha stabilito che quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata dei rischi per la salute delle persone, devono essere adottate misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. E proprio la Corte di Giustizia ha sottolineato l’importante ruolo dell’organizzazione dell’attività di impresa per l’acquisizione della necessaria consapevolezza da parte dell’imprenditore dello stato delle conoscenze tecnico‐scientifiche e dei rischi conseguenti all’esercizio di determinate attività. La declinazione del principio di precauzione nel paradigma di buona fede e correttezza fa emergere, così, una più avanzata frontiera del dovere dell’imprenditore di conoscere e valutare i rischi ai quali l’attività di impresa espone i consumatori, anche con riferimento all’incertezza ed alla complessità delle questioni scientifiche e tecnologiche, ad esempio dotandosi di un adeguato reparto di studio e monitoraggio delle ricerche scientifiche internazionali e dei loro risultati via via acquisiti.