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1.4.1 CONSUMO ENERGETICO

E CAMBIAMENTI CLIMATICI

quistando il 60% in più rispetto al 2000 (Ellen MacArthur Foundation, 2017). Ogni capo acquistato viene indossato sempre meno prima di essere smaltito e questo comporta una maggiore produzione di nuovi capi e, di conseguenza, maggiori emissioni. Le emissioni dovute alla produzione di nuovi capi dipendono in parte anche dal materiale con il quale sono prodotti. Il poliestere è ad oggi il tessuto più usato per la produzione di capi d’abbigliamento, più del cotone. Le emissioni dovute alla produzione di polieste- re e altri materiali sintetici sono molto elevate in quanto derivano da combustibili fossili. Nel 2015 la produzione di poliestere destinati alla produzione tessile ha prodotto ol- tre 706 miliardi di kg di CO2e (Greene, Olivetti, Kirchain, Miller, 2015). Gli autori appena citati stimano che una sin- gola t-shirt in poliestere abbia emissioni di 5,5 kg di CO2e, rispetto a 2,1 kg di CO2e di una di cotone. Tuttavia anche il cotone ha i suoi difetti: infatti questo è un materiale che ha bisogno di una quantità considerevole di acqua e di con- seguenza la sua produzione ha un impatto notevole su di essa.

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La CO2 equivalente (CO2e) è una misura che esprime l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica (CO2). In particolare, si può parlare di "grammi 2

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Fin da piccoli ci è sempre stato insegnato a non sprecare l’acqua chiudendo il rubinetto mentre laviamo i denti, mentre facciamo la barba o mentre ci insaponiamo sotto la doccia. Ma ci siamo mai chiesti di quanta acqua ci sia bisogno per produrre i capi che indossiamo? Prendendo come esempio una t-shirt, servono ben 2700 litri d’acqua per la sua produzione, la stessa quantità che serve a una persona per dissetarsi per 900 giorni, ossia due anni e mez- zo (National Geographic, 2013). Il consumo di acqua per la produzione di capi d’abbigliamento è eccessivo e, gran parte di questo consumo, si concentra in aree già povere di risorse idriche. L’industria tessile (compresa la coltivazione di cotone) consuma circa 93 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno, cioè il 4% dell’acqua potabile globale (Ellen Ma- cArthur Foundation, 2017).

Come già accennato, la maggior parte della pro- duzione di cotone è situata in Paesi che già di per sé sof- frono la carenza di acqua potabile come Cina, India, USA, Pakistan e Turchia. Il cotone è una delle fibre che neces- sita di una grande quantità di acqua per la sua produzione. Secondo WRAP, la produzione di cotone incide per il 69% sull’impronta idrica della produzione di fibre per i tessuti (WRAP, 2017). Un chilogrammo di cotone può richiedere fino a 10.000-20.000 litri per la sua produzione, a secon- da di dove viene coltivato. Il Mare d’Aral, precedentemen- te uno dei quattro più grandi laghi del mondo, si è quasi completamente prosciugato, in gran parte a causa della in- tensa coltivazione industriale di cotone in Asia centrale e

viene ora chiamato il deserto dell’Aralkum (Environmen- tal Audit Committee, 2019). Anche ciò che succede dopo la vendita di un capo comporta un uso esagerato di risorse; si stima che per la cura dei capi si consumino ulteriori 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno (Ibidem).

C’è da considerare, però, il fatto che l’acqua non viene solo sprecata ma anche inquinata e, questo, è causato sia dalle sostanze tossiche che vengono riversate nei fiumi e nei mari durante la produzione dei capi d’abbigliamento, sia dai lavaggi quotidiani dei nostri vestiti. Il Global Leader- ship Award in Sustainable Apparel ha riferito che l’indu- stria dell’abbigliamento è responsabile per il 20% dell’in- quinamento delle acque (GLASA, 2015) e che sono state identificate nell’acqua ben settantadue sostanze chimiche tossiche (provenienti esclusivamente dai processi di tin- tura tessile), trenta delle quali non possono essere rimosse (Ibidem). Le lavorazioni come la filatura, la tessitura, la la- vorazione a maglia, la colorazione e la finitura, o la tintura, aumentano considerevolmente l’impronta idrica degli in- dumenti. Ogni anno, migliaia di miliardi di microfibre ven- gono rilasciate nell’ambiente tramite i lavaggi dei vestiti e, la maggior parte di esse, finiscono nell’oceano. Uno studio dell’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA) ha dimostrato che la quantità di microfi- bre rilasciate durante il lavaggio varia da 124 a 308 mg/kg di tessuto lavato, in base al tipo di indumento. È una quan- tità che corrisponde a un numero di microfibre compreso tra 640.000 e 1.500.000. La presenza di materie plastiche

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nell’ambiente, come poliestere, acrilico e nylon, è motivo di crescente preoccupazione sia per i loro impatti negativi sugli ecosistemi che per la salute umana. Un documento del dott. Mark Browne dell’Università della California pone una significativa attenzione al problema delle microfibre, riferendo che la stragrande maggioranza delle microfibre trovate sulle spiagge corrisponde a materiali plastici, come poliestere e acrilico, utilizzati nei vestiti (American Chemi- cal Society, 2011). Secondo le stime, il 35% delle micropla- stiche primarie che entrano nell’oceano vengono rilasciate attraverso il lavaggio di vestiti. Anche se il numero effettivo di microfibre rilasciate dal lavaggio dei vestiti è difficile da misurare e le stime variano ampiamente a volte in base agli ordini di grandezza e a seconda del tessuto e del trattamen- to del capo stesso, George Leonard, Chief Scientist di The Ocean Conservancy, ha stimato che potrebbero esserci già 1,4 quadrilioni di microfibre nell’oceano (Ellen MacArthur Foundation, 2017).

TITOLO CAPITOLO

Microplastiche:

le microplastiche sono piccoli pezzi

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