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Buy-bye. L'ecosistema digitale che aiuta ad adottare comportamenti di acquisto consapevoli e sostenibili inserendosi nel ciclo di abitudine legato allo shopping impulsivo online

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Academic year: 2021

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L’ECOSISTEMA DIGITALE CHE AIUTA AD ADOTTARE COMPORTAMENTI DI ACQUISTO CONSAPEVOLI E SOSTENIBILI

INSERENDOSI NEL CICLO DI ABITUDINE LEGATO ALLO SHOPPING IMPULSIVO ONLINE.

Tesi di Giusy Di Staso Matricola 896462

Politecnico di Milano - Scuola del Design Corso di Laurea Magistrale in Design della Comunicazione

Relatore: Prof.ssa Giulia Sormani Correlatore: Prof.ssa Neva Ganzerla

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L’ECOSISTEMA DIGITALE CHE AIUTA AD ADOTTARE COMPORTAMENTI DI ACQUISTO CONSAPEVOLI E SOSTENIBILI

INSERENDOSI NEL CICLO DI ABITUDINE LEGATO ALLO SHOPPING IMPULSIVO ONLINE.

Tesi di Giusy Di Staso Matricola 896462

Politecnico di Milano - Scuola del Design Corso di Laurea Magistrale in Design della Comunicazione

Relatore: Prof.ssa Giulia Sormani Correlatore: Prof.ssa Neva Ganzerla

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(5)

0. ABSTRACT

1. IL MODELLO FAST FASHION

2.1 LE CAMPAGNE DI SENSIBILIZZAZIONE

2.1.1 FASHION REVOLUTION: “WHO MADE MY CLOTHES?” 2.1.2 GREENPEACE: “DETOX MY FASHION”

2.2 LA MODA ETICA E SOSTENIBILE: VERSO NUOVI MODELLI DI ACQUISTO 
 2.2.1 SLOW FASHION


2.2.2 ECONOMIA CIRCOLARE 


2.2.3 SECOND-HAND E FASHION SHARING

2. LA RISPOSTA AL FAST FASHION

1.1 CHE COS’È E PERCHÉ FUNZIONA


1.2 IL FAST FASHION E LA DIGITAL TRANSFORMATION 1.3 IL COSTO SOCIALE

1.3.1 SALARI RIDOTTI

1.3.2 (IN)SICUREZZA SUL LAVORO 1.3.3 DISCRIMINAZIONE DI GENERE 1.4 IL COSTO AMBIENTALE 


1.4.1 CONSUMO ENERGETICO E CAMBIAMENTI CLIMATICI 1.4.2 CONSUMO E INQUINAMENTO IDRICO

1.4.3 MATERIALI E SOSTANZE CHIMICHE UTILIZZATE 1.4.4 DESTINO DEI CAPI DOPO L’USO E SMALTIMENTO 14 18 24 24 30 34 36 36 38 43 48 56 56 62 66 66 68 74

55

9

13

(6)

111

95

79

3. IL BISOGNO DI ACQUISTO

4. L’INDAGINE

5. IL PROGETTO: BUY-BYE

3.1 NEUROMARKETING: UNO SGUARDO NELLA MENTE DEL CONSUMATORE 
 3.2 IL RUOLO DEI NEURONI SPECCHIO DURANTE L’ACQUISTO

3.3 IL CICLO DELL’ABITUDINE LEGATO ALLO SHOPPING 80 86 90 96 99 100 102 106 112 115 118 120 122 122 123 128 128 130

5.1 INSIGHT E SCOPO PROGETTUALE 5.2 TARGET GROUP E CLUSTER 5.3 PERSONAS

5.4 CONCEPT DEL PROGETTO 5.5 IDENTITÀ

5.5.1 NAMING, PAYOFF, LOGO 5.5.2 PERSONALITÀ 5.5.3 MIND 5.5.4 BENEFIT 5.6 VISION 4.1 IMPOSTAZIONE DELL’ANALISI 4.2 RISULTATI DELL’ANALISI 4.2.1 ABITUDINI D’ACQUISTO

4.2.2 BISOGNI CORRELATI ALLO SHOPPING

(7)

5.7 POSIZIONAMENTO DI MERCATO

5.7.1 TREND, COMPETITOR E STAKEHOLDER

5.7.2 DIFFERENZIALI DI MERCATO E DIFFERENZIALE COMPETITIVO 5.7.3 SO WHAT 5.8 POSIZIONAMENTO DI COMUNICAZIONE 5.8.1 VALORI 5.8.2 VALUE PROPOSAL 5.8.3 PROMESSA 5.8.4 SO WHAT 5.9 MISSION 5.10 DIGITAL STRATEGY

5.10.1 OBIETTIVI DI MARKETING E DI COMUNICAZIONE 5.10.2 FUNNEL

5.10.3 MEDIA-MIX E USER JOURNEY 5.10.4 PIANO EDITORIALE 5.10.5 OUTPUT 132 132 136 140 142 142 144 144 148 150 152 152 154 158 166 170

6. CONCLUSIONI

7. BIBLIOGRAFIA

8. SITOGRAFIA

9. INDICE DELLE FIGURE

RINGRAZIAMENTI

188

190

198

200

204

3.1 NEUROMARKETING: UNO SGUARDO NELLA MENTE DEL CONSUMATORE 
 3.2 IL RUOLO DEI NEURONI SPECCHIO DURANTE L’ACQUISTO

3.3 IL CICLO DELL’ABITUDINE LEGATO ALLO SHOPPING

5.1 INSIGHT E SCOPO PROGETTUALE 5.2 TARGET GROUP E CLUSTER 5.3 PERSONAS

5.4 CONCEPT DEL PROGETTO 5.5 IDENTITÀ

5.5.1 NAMING, PAYOFF, LOGO 5.5.2 PERSONALITÀ 5.5.3 MIND 5.5.4 BENEFIT 5.6 VISION 4.1 IMPOSTAZIONE DELL’ANALISI 4.2 RISULTATI DELL’ANALISI 4.2.1 ABITUDINI D’ACQUISTO

4.2.2 BISOGNI CORRELATI ALLO SHOPPING

4.2.3 SENSIBILITÀ ALLE TEMATICHE AMBIENTALI E SOCIALI

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(9)

Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a una crescita considerevole della pro-duzione e del consumo di abbigliamento. L’abbassamento dei prezzi, i trend in continuo cambiamento e la facilità di accesso ai prodotti, hanno favorito un’impennata frenetica degli acquisti. Tale tendenza viene definita fast fashion, un modello produttivo dell’indu-stria dell’abbigliamento che immette nel mercato fino a cinquantadue micro-collezioni all’anno a prezzi contenuti e rinnovate in tempi brevissimi.

Tuttavia, mentre navighiamo tra gli e-commerce più famosi o giriamo in un nego-zio di abbigliamento alla ricerca del capo in sconto, della maglietta a 2 €, delle offerte 3x2, quanto a fondo ci soffermiamo su ciò che stiamo per comprare? Quante volte ci chiediamo quale sia la storia di quei capi, per quale ragione possano costare così poco e soprattutto se ne abbiamo davvero bisogno o se la voglia di fare shopping sia la risposta impulsiva a un bisogno diverso dalla necessità?

Il compito di questa tesi è in primo luogo quello di indagare i reali bisogni che spin-gono le persone ad acquistare capi d’abbigliamento e, successivamente, capire se e come sia possibile limitare questo atteggiamento di acquisto impulsivo attraverso i canali digitali che hanno favorito la crescita di questa tendenza. In un mondo sempre più digitalizzato, infatti, è facile cadere in tentazione, sia per il fatto che siamo continuamente raggiunti, so-prattutto sui social, da pubblicità che mettono alla prova la nostra capacità di resistere alle tentazioni, sia per il fatto che attraverso l’online l’acquisto è sempre più immediato. Questo ha favorito una crescita del numero di capi acquistati tanto da far diventare lo shopping un gesto impulsivo che si radica nelle persone come un’abitudine. Individuato quindi il ciclo di abitudine legato allo shopping e i bisogni delle persone che lo attivano, mi sono chiesta se fosse più efficace sensibilizzare gli utenti al non-acquisto, contrastando i bisogni degli stes-si, o sfruttare proprio questi bisogni per inserirsi all’interno del ciclo di abitudine offrendo una soluzione diversa da quella dello shopping, senza frustrare l’utente.

Da queste considerazioni nasce Buy-bye, un ecosistema digitale in grado di inter-rompere il ciclo di abitudine di acquisto online inserendosi tra il momento in cui l’utente prova il bisogno di acquistare e il momento in cui effettivamente acquista, per farlo ri-flettere e incidere sul suo comportamento. Utilizzando come leve principali quei bisogni emotivi che si celano dietro a un acquisto impulsivo e la sensibilità del target individuato nei confronti delle tematiche ambientali, Buy-bye si presenta come un corso di autodifesa che aiuta da un lato a informarsi e a prendere consapevolezza del fatto di trovarsi all’inter-no di un ciclo di abitudine che provoca delle conseguenze ambientali e sociali importanti, dall’altro a mettere in pratica le nuove abitudini grazie a uno strumento che permette fisi-camente di bloccare le tentazioni dello shopping e di testare le conoscenze apprese.

È arrivato il momento di prendere consapevolezza del fatto che il prezzo che pa-ghiamo per una maglietta prodotta da una catena fast fashion non è comparabile col prezzo che deve pagarne l’ambiente. Come consumatori siamo gli elettori delle tendenze e, ogni

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abstract

ENGLISH VERSION

(11)

In recent decades, we have seen a considerable growth in clothing production and consumption. Lower prices, ever-changing trends and easy access to products have led to a frantic surge in purchases. This trend is defined as fast fashion, a production model of the clothing industry that brings to market up to fifty-two micro collections per year at low prices and renewed in a very short time.

However, while browsing through the most famous e-commerce or going around a clothing store looking for a discount garment, a 2 € t-shirt, 3x2 offers, how much deeper do we dwell on what we are going to buy? How many times do we ask ourselves what the history of those garments is, why they can cost so little and above all if we really need them or if the desire to shop is the impulsive response to a need other than necessity? While fast fashion has given consumers access to a greater variety of clothing at an affordable price, it has also had negative social and environmental implications: cheap labour, contaminated watercourses, poor quality materials used, overproduction and difficulties in disposing of garments are just some of the aspects related to this production model.

The goal of this thesis is first of all to investigate the real needs that drive peo-ple to buy clothes and then to understand if and how it is possible to limit this impulsive buying attitude through the digital channels that have pushed the growth of this trend. In an increasingly digitalized world, in fact, it is easy to fall into temptation, both because we are constantly being reached, especially on social media, by advertisements that test our ability to resist temptation, and because through online buying is increasingly immedia-te. This has encouraged a growth in the number of garments purchased to such an extent that shopping becomes an impulsive gesture that takes root in people like a habit. Having identified the cycle of habit related to shopping and the needs of the people who activate it, I wondered if it would be more effective to make users aware of the non-purchase, con-trasting their needs, or take advantage of these needs to fit into the cycle of habit offering a different solution from shopping.

From these considerations was born Buy-bye, a digital ecosystem able to interrupt the cycle of online purchasing habits by inserting itself between the moment in which the user feels the need to buy and the moment in which he actually buys, to make him think and influence his behavior. Using as main factors those emotional needs that are hidden behind an impulsive purchase and the sensitivity of the target identified towards environ-mental issues, Buy-bye is presented as a course of self-defense that helps on the one hand to inform and become aware of the fact of being within a cycle of habit that causes impor-tant environmental and social consequences, on the other hand to put into practice the new habits thanks to a tool that physically allows you to block the temptations of shopping and test the knowledge learned.

The time has come to become aware of the fact that the price we pay for a t-shirt produced by a fast fashion chain is not comparable to the price the environment has to pay.

(12)
(13)

TITOLO CAPITOLO

Il modello

fast fashion

1.1 CHE COS’È E PERCHÉ FUNZIONA

1.3 IL COSTO SOCIALE

1.2 IL FAST FASHION

E LA DIGITAL TRANSFORMATION

1.4 IL COSTO AMBIENTALE

CAPITOLO 1

(14)

14 BUY-BYE

Il sistema produttivo che, dal periodo post-belli-co, sta facendo da padrone nel settore della moda è quello del fast fashion che, come si evince dal termine stesso, ha le caratteristiche di produrre e immettere nel mercato nuovi capi d’abbigliamento in tempi ridotti e a prezzi accessibili a tutti.

L’espressione fast fashion viene coniata la prima volta nel 1989 (quando Zara aprì il suo primo negozio a New York) in un articolo dove si diceva che bastavano quindici giorni perché un capo d’abbigliamento Zara passasse dalla mente dello stilista alla vendita in negozio (Cline, 2018). Ciò che infatti permette alle aziende che producono secondo il modello fast fashion di avere successo è la velocità con cui un capo passa dall’essere un semplice schizzo disegnato sul foglio dello stilista a un capo d’abbigliamento finito, pronto

1.1

CHE COS’È E PERCHÈ FUNZIONA

«Fast fashion is trendy clothes made in vast

amounts at lightning speed sold at rock

bot-tom prices in thousands of stores

worldwi-de. They knock off the top fashion designers

and give you cheap versions of it but they

specialize in volume their business model is

about economies of scale and because of it

we’re awash clothes». (Thomas, 2019)

(15)

IL MODELLO FAST FASHION

per essere messo in mostra in tutte le vetrine e per esse-re venduto: questione di pochi mesi, qualche settimana a volte. I ritmi di questa nuova tipologia di produzione sono sbalorditivi: al giorno d’oggi, alcuni marchi arrivano a im-mettere sul mercato fino a cinquantadue micro-collezioni all’anno (The True Cost, 2015).

Uno dei punti di forza è proprio questo: i brand più conosciuti della fast fashion, tra cui Zara, H&M, Pull&Bear, Bershka, soltanto per citarne alcuni, in soli quindici gior-ni riescono a proporre alle persone un cambio di articoli nei loro negozi, a un prezzo medio di 19,99 dollari (VOCE, 2019). Per fare in modo che questi ritmi siano economica-mente sostenibili per le aziende e, soprattutto, proficui, è necessario sia produrre che vendere capi a prezzi bassi, af-finché i consumatori desiderino acquistarne di nuovi con la giusta frequenza.

Quella appena esposta è una logica che si riflette nel consumismo della società moderna, la cui arma più po-tente è stata definita obsolescenza programmata, che Treccani definisce come «processo mediante il quale, nelle moder-ne società industriali, vengono suscitate moder-nei consumatori esigenze di accelerata sostituzione di beni.» Questo feno-meno è valido per la tecnologia in primis, ma è altrettanto vero per l’industria della moda: infatti i consumatori sono spinti a considerare non più adeguati o fuori moda i capi che già possiedono e sono sempre più invogliati a rinnova-re frinnova-requentemente il proprio guardaroba per potersi sem-pre vestire secondo le ultime tendenze.

(16)

«Fast fashion is

like fast food.

After the sugar

rush it just leaves

a bad taste in your

mouth».

Livia Firth, ethical fashion advocate and founder of su-stainable fashion consultancy Eco-Age

16 BUY-BYE

(17)

A questo punto è normale chiedersi cosa ci sia dietro un capo prodotto in poche settimane e a un prezzo così competitivo: manodopera a bassissimo costo, inqui-namento e scarsa qualità delle materie utilizzate sono solo alcuni degli aspetti celati dalle grandi catene di abbiglia-mento, aspetti che affronteremo nei paragrafi successivi.

(18)

18 BUY-BYE

Ogni qualvolta ci si trovi a dover prendere una decisione su un futuro acquisto, questa viene influenzata dalla miriade di informazioni che abbiamo trovato o che possiamo trovare su internet.

Infatti, grazie al considerevole numero di interazioni che ogni utente può fare in rete, una decisione di acquisto è in-fluenzata da fattori differenti da quelli ai quali era sottopo-sti precedentemente. Mentre prima il processo di acquisto era lineare e sequenziale, e quindi nel momento in cui si percepiva un bisogno si andava alla ricerca delle informa-zioni che si potevano trovare in TV, su articoli di giornale o tramite opuscoli e solo successivamente ci si recava nei punti vendita e si decideva se effettuare l’acquisto o meno, ora con internet abbiamo la possibilità di accedere a un’in-finità di informazioni grazie ai siti web, ai blog e ai forum sui quali possiamo trovare recensioni d’acquisto e ai so-cial network che ci permettono di relazionarci in maniera diretta coi brand e con le altre persone. Nel momento in cui ci troviamo in un negozio e ci troviamo di fronte a un possibile acquisto, prendiamo il nostro smartphone e cer-chiamo lo stesso articolo comparando dunque il prezzo con i rivenditori online, verificando le recensioni degli altri utenti e quindi cercando di integrare l’esperienza online e offline per poter cogliere la miglior offerta. Ciò che inte-ressa a un acquirente però, non è solo l’acquisto effettivo che ha lo scopo di soddisfare i suoi bisogni e i desideri, ma anche tutto ciò che riguarda l’esperienza d’acquisto, tutto ciò che permetta di instaurare una vera e propria relazio-ne con il brand. Dunque chi compra non gioca un ruolo passivo all’interno del percorso d’acquisto ma diventa il

1.2

IL FAST FASHION E

(19)

protagonista, assumendo un ruolo di attore interattivo e di ricercatore di esperienza. La sempre maggior conoscenza e consapevolezza di ciò che si vorrebbe acquistare, fa sì che le persone prendano gran parte delle decisioni di ac-quisto già durante la fase di ricerca online, in modo da non essere influenzati durante l’esperienza offline. Internet ha permesso la nascita di processi di acquisto integrati, in cui offline e online si uniscono, dando l’opportunità al cliente, sempre più esigente, di scegliere il luogo e il metodo di ac-quisto per lui più opportuno. Il consumatore è sempre più maturo, selettivo ed esigente, e inizia ad avere una visio-ne diversa dei prodotti che acquista: alcuvisio-ne caratteristiche, quali la funzionalità e la qualità vengono date per scontate, mentre si prediligono prodotti, servizi e brand coi quali è possibile instaurare una relazione o un’esperienza.

«Nel sistema economico industrializzato,

l’elemento di punta dei brand era il

prodot-to e, nello specifico, le sue qualità

intrinse-che e il prezzo: caratteristiintrinse-che intrinse-che avevano

ricadute sulla percezione e la reputazione

del brand stesso. [...] A partire dalla metà

degli anni ’90 si parla invece di società

del-le reti, in cui la dimensione del network,

come forma predominante di

organizza-zione, spinge sempre più i brand a

muover-si nella direzione della creazione di vere e

proprie esperienze utente fino ad arrivare

alla costruzione di relazioni».

(Ronchi, Ciancia, 2019)

(20)

BUY-BYE

«When consumers hear about a product

to-day, their first reaction is “Let me search

onli-ne for it”. And so they go on a jouronli-ney of

di-scovery: about a product, a service, an issue,

an opportunity. Today you are not behind

your competition. You are not behind the

te-chnology. You are behind your consumer».

(Rishad Tobaccowala, n.d., in Lecinski, 2011)

A tal proposito, Jim Lecinski, amministratore de-legato delle vendite di Google, nel 2011, riferendosi alla modalità con cui un acquirente prende delle decisioni su un possibile acquisto, ha introdotto il nuovo concetto ZMOT, ovvero Zero Moment of Truth, inteso come il momento in cui consumatore, a fronte del bisogno, attiva un proces-so di ricerca, prevalentemente online, di prodotti e servizi (Lecinski, 2011). In questa fase di ricerca delle informazio-ni per i propri acquisti, il possibile acquirente può essere influenzato online da molti elementi, dei quali solo una porzione limitata è direttamente controllata dalle aziende. Questi elementi possono infatti essere contenuti di terzi e UGC (User Generated Content) che derivano da esperienze di acquisto, positive o negative, di altri consumatori.

Nel modello mentale classico di marketing esistono tre momenti fondamentali nel processo decisionale e d’acqui-sto delle persone (Lecinski, 2011):

(21)

Ad oggi invece, nel momento in cui si percepisce uno stimolo, prima di recarsi in un punto vendita (o su un sito e-commerce) ci si informa tramite recensioni, com-menti, chiedendo agli amici, consultando i social network, facendo ricerche sui motori di ricerca, consultando siti web, guardando video ecc... In pratica gli utenti si informa-no e decidoinforma-no nel Momento Zero della Verità. Il fatto che ogni utente abbia la possibilità continua di navigare su internet rappresenta un grande vantaggio per chi vende poiché è possibile studiarne il comportamento d’acquisto e i fattori che lo influenzano, personalizzando dunque le pubblicità, le offerte e le notifiche e inviandole direttamente sui dispo-sitivi che utilizza. Sarà l’utente a stabilire se sarà interessa-to o meno a determinate offerte che gli vengono proposte tanto da indurlo ad approfondire l’eventuale proposta e nel migliore dei casi all’acquisto. Questo meccanismo in cui è

1. Lo stimolo: viene ricevuto attraverso spot pubblicitari, ricezione di posta a casa, pubblicità sui giornali;

2. FMOT- First Moment of Truth (shelf): il consumatore si reca presso il punto vendita e riconosce il prodotto. Il pri-mo pri-momento della verità di palesa all’interno del punto vendita, quando il consumatore prende una decisione circa il prodotto da acquistare tra i tanti;

3. SMOT- Second Moment of Truth (experience): il secondo momento della verità avviene dopo l’acquisto, con l’espe-rienza di utilizzo. In questa fase il consumatore valuta il suo livello di soddisfazione rispetto all’acquisto e deciderà se condividere la sua esperienza con gli altri.

(22)

BUY-BYE

22

«[...]se con la rete del bisogno le aziende

attendono l’attivazione di una "chiamata"

per poter restituire una risposta, nella rete

dell’interesse le aziende circolano

libera-mente nel bacino di appartenenza del

pub-blico per lasciare alcuni rabbit hole in cui

sperare che l’utente decida di entrare, e di

vivere la narrazione per attivare quella

re-lazione indispensabile per la fidelizzazione

del pubblico». (Ronchi, Ciancia, 2019)

l’utente a stabilire se sarà interessato o meno a un determi-nato input al quale viene sottoposto prende il nome di rete dell’interesse, differente dalla rete del bisogno, in quanto

Focalizzandoci sul settore moda, la diffusione del-lo shopping online e dei social media ha reso le persone ancora più suscettibili al consumo eccessivo. I social me-dia e lo shopping online, infatti, alimentano la mania dello shopping impulsivo. I dati raccolti nel sondaggio After the Binge the Hangover redatto da Greenpeace nel 2017, mostra-no che le piattaforme di social media come Instagram, Pin-terest, Facebook o WeChat stanno guidando la mania del-lo shopping impulsivo. Gli utenti di Facebook e Instagram spendono più soldi (in media 128,20 euro al mese) e dedi-cano più tempo allo shopping online di vestiti. Navigare tra i blog di moda o seguire amici e celebrità innesca il deside-rio di fare acquisti d’impulso. La fusione tra e-commerce e social media, inoltre, sta accrescendo la potenza dei mar-chi fast fashion. Le funzioni di shopping ora sono accessibi-li con maggior faciaccessibi-lità essendo integrate nelle piattaforme di messaggistica popolari come WeChat o in alcuni social media come Facebook o Instagram. Psicologicamente, di-venta difficile resistere alla pressione, ai mille impulsi e alle tentazioni di acquisto con un clic, ai quali siamo sottoposti quotidianamente e ad ogni accesso sui social.

(23)

A busy mom in a minivan, looking up

decongestants on her mobile phone

as she waits to pick up her son at

school.

A zero moment

of truth is...

A student in a cafe, scanning user

ratings and reviews while looking

for a cheap hotel in barcelona.

A young woman in her condo,

sear-ching the web for juicy details

about a new guy before a blind date.

An office manager at her desk,

com-paring laser printer prices and ink

cartridge costs before heading to

the office supply store.

A winter sports fan in a ski store,

pulling out a mobile phone to look

at video reviews of the latest

snow-boards.

(Jim Lecinski, 2011)

(24)

24 BUY-BYE

Siamo in un centro commerciale, vediamo pile di capi in sconto, capi che sono così economici che è impossi-bile non cadere nella tentazione di acquistarli. Ne compria-mo due al prezzo di uno. Forse un giorno li indosserecompria-mo, o forse no. Quasi mai però ci chiediamo quale sia la storia di un determinato capo, eppure basterebbe almeno guardar-ne l’etichetta. Oggi la maggior parte dei vestiti è prodotta da donne che vivono nei paesi in via di sviluppo, eppure non tutti i consumatori si chiedono quale sia la giornata tipo delle persone che fabbricano i nostri vestiti. Nei paragra-fi successivi verranno descritti i principali problemi etici connessi alla produzione di capi d’abbigliamento nei paesi in via di sviluppo.

Decine di milioni di persone lavorano nel settore dell’abbigliamento e la stragrande maggioranza di loro la-vora per molte ore e con una retribuzione esigua: si stima che mediamente un operaio venga retribuito con una paga media di 1,87 $ al giorno (The True Cost, 2015).

1.3

IL COSTO SOCIALE

1.3.1 SALARI RIDOTTI

«Absolutely and often they’re not paid for

that over time. And what’s more, they’re

paid barely a living wage. If something

co-sts $19.99, rule of thumb is it probably was

it probably was the person who made it was

paid 19 cents since». (Thomas, 2019)

(25)

IL MODELLO FAST FASHION

Figura 1.1

Illustrazione che rappresenta le figure coinvolte per la produzione di un capo.

(26)

26 BUY-BYE

«Everyone has the right to a standard of

li-ving adequate for the health and well-being

of himself and of his family, including food,

clothing, housing, medical care, necessary

social services, and the right to security...».

(United Nations Universal Declaration

of Human Rights-Article 25.1)

1 «Sweatshop è un termine peggiorativo per indicare un luogo di lavoro caratterizzato da condizioni di lavoro po-vere e socialmente inaccettabili. Il lavoro può essere difficile, pericoloso, climaticamente contestabile e sottopa-gato. I lavoratori "sweatshop" possono lavorare per molte ore con bassi stipendi, nonostante le leggi prescriventi il pagamento di un salario minimo». (Wikipedia)

1

Gli operai che lavorano nelle cosiddette Sweatshop li pos-siamo trovare in Asia, Europa dell’Est, America Latina, mentre lavorano per i principali brand che nascondono il fatto che nessun lavoratore guadagna un salario minimo decente (Ibidem). L’industria mondiale dell’abbigliamento è cresciuta in maniera smisurata negli ultimi quindici anni ed è alimentata da una forza lavoro di circa ottanta milioni di operai (Ibidem). Purtroppo il prezzo che deve pagare la maggioranza di questi lavoratori e delle loro famiglie non è comparabile con il salario ricevuto. Una delle tante verità nascoste, che i brand non vogliono divulgare, è che il salario dei lavoratori rappresenta solo una piccola parte del prezzo che i consumatori pagano per i vestiti. Vediamo ad esempio nella Figura 1.1, come sono divisi i ricavi di una semplice t-shirt da 29€: ovviamente il ricavo destinato all’operaio è misero ed è pari allo 0.6%. Questi lavoratori inoltre sono privati del diritto a un salario di sussistenza, diritto ricono-sciuto, tra gli altri, dal Consiglio d’Europa e dalle Nazioni Unite nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma non rispettato nemmeno laddove siano previsti salari mi-nimi stabiliti legalmente.

(27)

Cost breakdown

of a sample €29

t-shirt

RETAIL MARKUP €17 BRAND MARGIN €3,61 TRANSPORT €2,19 OVERHEAD €0,27 MANUFACTURING COST €3,40 LABOUR€0,18 FACTORY MARGIN €1,15 AGENT FEE €1,20 Figura 1.2

Ripartizione dei costi di una t-shirt da 29€.

(28)

BUY-BYE

A living wage includes:

BASIC ACCEPTABLE HOUSING

FOOD

ESSENTIAL NEEDS

(CLOTHING, SCHOOL FEED, MEDICINES, UTILITIES,

ETC.)

COST OF BASIC QUALITY OF LIFE FOR AVARAGE PERSON

FAMILY SUPPORT UNFORESEEN EVENTS (ACCIDENTS AND EMERGENCIES) LIVING WAGE WORKER Figura 1.3

Fattori che determinano un salario di sussistenza.

(29)

I brand fanno affidamento da decenni su questo sistema di retribuzione e sfruttamento della povertà, giustificando il loro atteggiamento con la necessità di rimanere competiti-vi sul mercato globale e di offrire prezzi più convenienti ai consumatori. Di conseguenza, il salario minimo, laddove esista come standard giuridicamente vincolante, non è lo stesso di un salario di sussistenza. Il salario minimo differi-sce da paese a paese, ma in quasi tutti i paesi di produzione è tutt’altro che sufficiente per provvedere ai bisogni di base dei lavoratori e delle loro famiglie, bisogni che sono raffi-gurati nella Figura 1.3. Il rapporto “Stitched up” pubblicato da Clean Clothes Campaign nel 2014 mostra l’ampio divario tra i salari minimi legali nell’Europa orientale, sud-orien-tale e in Asia e ciò che un lavoratore avrebbe effettivamente bisogno per provvedere a se stesso e alla sua famiglia. Essere pagati con salari miseri costringe gli operai a lavo-rare per ore estenuanti per guadagnare straordinari o bo-nus. Non c’è nessuna forma di tutela, motivo per cui se si dovessero trovare in difficoltà o dovessero affrontare spese impreviste, verranno abbandonati a se stessi.

(30)

30 BUY-BYE

La corsa contro il tempo per la realizzazione di capi che devono essere pronti nel minor tempo possibile ha un costo sociale elevato e a pagarne sono la salute e talvolta persino la vita dei lavoratori. Migliaia di persone sono mor-te tra le fiamme provocamor-te dagli incendi o sotto le macerie a causa delle pessime condizioni in cui si trovavano gli edifici all’interno dei quali lavoravano. I pericoli ai quali gli operai si espongono ogni giorno sono molteplici: l’uso di sostanze chimiche pericolose, pratiche come la sabbiatura, rumore eccessivo e cattiva ventilazione sono solo alcuni dei tanti. Dopo oltre un secolo di esperienza nel campo industriale, di sviluppo delle normative nazionali e di convenzioni in-ternazionali, i lavoratori continuano a perdere la loro salute e la vita cucendo i nostri vestiti (Kelly, Miedema, Vanpe-perstraete, Winterstein, 2019).

Fortunatamente gli interessi mondiali per la si-curezza dei lavoratori nel settore dell’abbigliamento sono cresciuti enormemente da quando tre catastrofi sul luogo di lavoro hanno segnato il mondo nel 2012 e 2013: l’incen-dio della Ali Enterprises in Pakistan e della Tazreen in Ban-gladesh nel 2012 e il crollo di Rana Plaza in BanBan-gladesh nel 2013.

1.3.2 (IN)SICUREZZA SUL LAVORO

«When my children found out that their

fa-ther died in a fire that broke out in a factory,

they are afraid to work in any factory, as

they now believe that every factory will burn

down. Therefore, they want to work in

offi-ces, for which they need quality education,

but I don’t have enough money to afford their

education». (Shahida Parveen, 2012)

(31)

TITOLO CAPITOLO

Rana Plaza, un edificio commerciale

di otto piani situato nella

peri-feria di Dhaka Savar, che ospitava

numerosi negozi, una banca e

fabbri-che di abbigliamento, è diventato

il simbolo della più grave tragedia

nello scenario del fast fashion.

Il 24 aprile 2013, l’edificio di

Rana Plaza è precipitato,

provocan-do la morte di 1.134 persone e 2600

feriti. Un incidente strutturale

così non si era mai verificato

pri-ma, tanto da essere etichettato come

“il più grave incidente strutturale

della storia”. Sono state riportate

storie strazianti di

sopravviven-za, di persone che non avevano altra

scelta che amputare i propri arti

per essere liberati dalle macerie e

sopravvivere.

L’aspetto più sconcertante è che

già a partire dal giorno prima, il

23 aprile 2013, erano state scovate

delle crepe strutturali negli

edi-fici. I negozi e la banca ai

pia-ni inferiori hanno subito chiuso,

mentre gli scongiuri per evitare di

accedere all’edificio da parte

de-gli operai della fabbrica tessile,

dopo la comparsa delle crepe, sono

stati ignorati dai proprietari della

fabbrica di abbigliamento ai

pia-ni superiori. Fu ordinato loro di

Il crollo del

Rana Plaza

(32)

32 BUY-BYE

tornare al lavoro il giorno

seguen-te. Per colpa delle pressioni della

direzione, mercoledì 24 aprile 2013,

migliaia di lavoratori sono tornati

a lavorare in una fabbrica

visibil-mente pericolante. Solo poche ore

dopo la tragedia: l’intero edificio

è crollato. Molti sopravvissuti sono

rimasti intrappolati sotto

tonnella-te di macerie e macchinari per ore o

addirittura giorni prima che

potes-sero essere salvati.

(The True Cost, 2015)

(33)

I lavoratori non sono solo minacciati da edifici non sicuri. Pratiche comuni come l’uso non protetto di sostanze chi-miche o la sabbiatura, un metodo per rendere i jeans più vecchi o usurati con aria compressa e sabbia, sono estre-mamente pericolose per i lavoratori in quanto causano si-licosi fatale o altre malattie respiratorie (Riddselius, 2010). Anche i lavori dietro la macchina da cucire sono rischiosi per la salute a causa del rumore continuo, dei movimenti ripetitivi e delle alte temperature alle quali gli operai sono sottoposti, che spesso diventano causa di svenimento or-mai comune nelle fabbriche in cui i lavoratori trascorrono lunghe ore senza un’adeguata ventilazione.

(34)

34 BUY-BYE

L’ottanta percento dei 40-60 milioni di lavoratori del settore dell’abbigliamento è costituito da donne e que-sta non è assolutamente una coincidenza (The True Cost, 2015). In un settore noto per condizioni di lavoro non digni-tose, salari bassi, lavoro straordinario forzato e condizio-ni non sicure, le donne sono spesso private di molti diritti come il congedo di maternità, la cura dei figli e la garanzia di poter recarsi con sicurezza verso il posto di lavoro. Lo stereotipo delle donne, viste come esseri docili, incremen-ta la frequenza di abusi verbali e fisici e molestie sessuali. Le donne lavorano con la paura di essere forse aggredite o violentate mentre tornano a casa dal lavoro a tarda notte. I brand scelgono appositamente di produrre i loro capi in paesi in cui le leggi sul lavoro sono deboli e in cui i lavora-tori hanno scarse opportunità di organizzarsi per far valere i propri diritti. Le donne in particolare sopportano il peso del lavoro domestico e della cura dei bambini oltre al lavoro in fabbrica e spesso hanno poco tempo per organizzarsi e lottare per i loro diritti. I loro ruoli di genere nella società e la mancanza di una valida alternativa fanno sì che abbiano molto da perdere quando esprimono il loro dissenso. I rischi che corrono sono reali e la posta in gioco è alta.

(35)

«Women can be made

to dance like puppets,

but men cannot be

abused in the same

way. The owners do

not care if we ask

for something, but

demands raised by the

men must be given

some consideration.

So they do not employ

male workers».

(Female, Bangladeshi factory worker, n.d.)

(36)

36 BUY-BYE

L’inquinamento è sempre più una minaccia oltre che per la nostra salute, anche per il nostro futuro e per quello del nostro pianeta. Quando gli individui valutano come ridurre al minimo il loro impatto ambientale, i pen-sieri spesso si rivolgono al settore del trasporto, in partico-lar modo quello aereo con le sue grandi emissioni, quando invece basterebbe modificare alcune abitudini quotidiane che sono causa di conseguenze ben peggiori: ad esempio, basterebbe ridurre il consumo di carne e latticini, ridurre il consumo di plastica e ridurre radicalmente le nostre abitu-dini di acquisto che alimentano il consumismo.

Prendendo in considerazione quest’ultimo pun-to, la moda è sicuramente un settore in cui il consumismo è cresciuto rapidamente negli ultimi anni e il fast fashion, come abbiamo visto precedentemente, ne ha accelerato la crescita. Nei prossimi paragrafi verranno descritte le con-seguenze che la produzione di capi d’abbigliamento sta causando all’ambiente.

La produzione tessile è diventata una delle indu-strie più inquinanti, producendo 1,2 miliardi di tonnella-te di CO2 all’anno, un valore che supera le emissioni dei voli internazionali e del trasporto marittimo (Nature Cli-mate Change, 2018). È stato stimato che ogni anno vengo-no prodotti venti nuovi capi per persona e che stiamo

ac-1.4

IL COSTO AMBIENTALE

1.4.1 CONSUMO ENERGETICO

E CAMBIAMENTI CLIMATICI

(37)

quistando il 60% in più rispetto al 2000 (Ellen MacArthur Foundation, 2017). Ogni capo acquistato viene indossato sempre meno prima di essere smaltito e questo comporta una maggiore produzione di nuovi capi e, di conseguenza, maggiori emissioni. Le emissioni dovute alla produzione di nuovi capi dipendono in parte anche dal materiale con il quale sono prodotti. Il poliestere è ad oggi il tessuto più usato per la produzione di capi d’abbigliamento, più del cotone. Le emissioni dovute alla produzione di polieste-re e altri materiali sintetici sono molto elevate in quanto derivano da combustibili fossili. Nel 2015 la produzione di poliestere destinati alla produzione tessile ha prodotto ol-tre 706 miliardi di kg di CO2e (Greene, Olivetti, Kirchain, Miller, 2015). Gli autori appena citati stimano che una sin-gola t-shirt in poliestere abbia emissioni di 5,5 kg di CO2e, rispetto a 2,1 kg di CO2e di una di cotone. Tuttavia anche il cotone ha i suoi difetti: infatti questo è un materiale che ha bisogno di una quantità considerevole di acqua e di con-seguenza la sua produzione ha un impatto notevole su di essa.

2

La CO2 equivalente (CO2e) è una misura che esprime l’impatto sul riscaldamento globale di una certa quantità di gas serra rispetto alla stessa quantità di anidride carbonica (CO2). In particolare, si può parlare di "grammi 2

(38)

38 BUY-BYE

Fin da piccoli ci è sempre stato insegnato a non sprecare l’acqua chiudendo il rubinetto mentre laviamo i denti, mentre facciamo la barba o mentre ci insaponiamo sotto la doccia. Ma ci siamo mai chiesti di quanta acqua ci sia bisogno per produrre i capi che indossiamo? Prendendo come esempio una t-shirt, servono ben 2700 litri d’acqua per la sua produzione, la stessa quantità che serve a una persona per dissetarsi per 900 giorni, ossia due anni e mez-zo (National Geographic, 2013). Il consumo di acqua per la produzione di capi d’abbigliamento è eccessivo e, gran parte di questo consumo, si concentra in aree già povere di risorse idriche. L’industria tessile (compresa la coltivazione di cotone) consuma circa 93 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno, cioè il 4% dell’acqua potabile globale (Ellen Ma-cArthur Foundation, 2017).

Come già accennato, la maggior parte della pro-duzione di cotone è situata in Paesi che già di per sé sof-frono la carenza di acqua potabile come Cina, India, USA, Pakistan e Turchia. Il cotone è una delle fibre che neces-sita di una grande quantità di acqua per la sua produzione. Secondo WRAP, la produzione di cotone incide per il 69% sull’impronta idrica della produzione di fibre per i tessuti (WRAP, 2017). Un chilogrammo di cotone può richiedere fino a 10.000-20.000 litri per la sua produzione, a secon-da di dove viene coltivato. Il Mare d’Aral, precedentemen-te uno dei quattro più grandi laghi del mondo, si è quasi completamente prosciugato, in gran parte a causa della in-tensa coltivazione industriale di cotone in Asia centrale e

(39)

viene ora chiamato il deserto dell’Aralkum (Environmen-tal Audit Committee, 2019). Anche ciò che succede dopo la vendita di un capo comporta un uso esagerato di risorse; si stima che per la cura dei capi si consumino ulteriori 20 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno (Ibidem).

C’è da considerare, però, il fatto che l’acqua non viene solo sprecata ma anche inquinata e, questo, è causato sia dalle sostanze tossiche che vengono riversate nei fiumi e nei mari durante la produzione dei capi d’abbigliamento, sia dai lavaggi quotidiani dei nostri vestiti. Il Global Leader-ship Award in Sustainable Apparel ha riferito che l’indu-stria dell’abbigliamento è responsabile per il 20% dell’in-quinamento delle acque (GLASA, 2015) e che sono state identificate nell’acqua ben settantadue sostanze chimiche tossiche (provenienti esclusivamente dai processi di tin-tura tessile), trenta delle quali non possono essere rimosse (Ibidem). Le lavorazioni come la filatura, la tessitura, la la-vorazione a maglia, la colorazione e la finitura, o la tintura, aumentano considerevolmente l’impronta idrica degli in-dumenti. Ogni anno, migliaia di miliardi di microfibre ven-gono rilasciate nell’ambiente tramite i lavaggi dei vestiti e, la maggior parte di esse, finiscono nell’oceano. Uno studio dell’Istituto per i polimeri compositi e biomateriali del CNR di Pozzuoli (NA) ha dimostrato che la quantità di microfi-bre rilasciate durante il lavaggio varia da 124 a 308 mg/kg di tessuto lavato, in base al tipo di indumento. È una quan-tità che corrisponde a un numero di microfibre compreso tra 640.000 e 1.500.000. La presenza di materie plastiche

(40)

40 BUY-BYE

nell’ambiente, come poliestere, acrilico e nylon, è motivo di crescente preoccupazione sia per i loro impatti negativi sugli ecosistemi che per la salute umana. Un documento del dott. Mark Browne dell’Università della California pone una significativa attenzione al problema delle microfibre, riferendo che la stragrande maggioranza delle microfibre trovate sulle spiagge corrisponde a materiali plastici, come poliestere e acrilico, utilizzati nei vestiti (American Chemi-cal Society, 2011). Secondo le stime, il 35% delle micropla-stiche primarie che entrano nell’oceano vengono rilasciate attraverso il lavaggio di vestiti. Anche se il numero effettivo di microfibre rilasciate dal lavaggio dei vestiti è difficile da misurare e le stime variano ampiamente a volte in base agli ordini di grandezza e a seconda del tessuto e del trattamen-to del capo stesso, George Leonard, Chief Scientist di The Ocean Conservancy, ha stimato che potrebbero esserci già 1,4 quadrilioni di microfibre nell’oceano (Ellen MacArthur Foundation, 2017).

(41)

TITOLO CAPITOLO

Microplastiche:

le microplastiche sono piccoli pezzi

di plastica la cui dimensione varia

da 1 a 5 mm.

Microplastiche primarie:

le microplastiche nell’oceano sono

chiamate microplastiche primarie se

rilasciate direttamente

nell’am-biente a dimensioni microplastiche.

Possono derivate, ad esempio, da

prodotti per la pulizia e

cosmeti-ci, oppure originati dall’abrasione

di grandi oggetti di plastica come

l’erosione dei pneumatici durante la

guida o l’abrasione di tessuti

sin-tetici durante il lavaggio.

Microplastiche secondarie:

le microplastiche sono chiamate

mi-croplastiche secondarie se derivano

da oggetti in plastica di

dimensio-ni rilevanti che vengono rilasciati

nell’ambiente e successivamente di

degradano in frammenti di plastica

più piccoli nell’ambiente marino. Di

solito si tratta di rifiuti di

pla-stica mal gestiti che vengono

river-sati nell’oceano.

Microplastiche e

microfibre: cosa sono?

(42)

42 BUY-BYE

Microfibre:

le microfibre sono fibre tessili

molto corte (lunghe meno di 5

milli-metri). Le microfibre di tessuti a

base plastica (microfibre di

plasti-ca) sono un tipo di microplastica e

vengono rilasciate come

microplasti-che primarie durante il lavaggio.

(Ellen MacArthur Foundation, 2017) SCHEDA DI APPROFONDIMENTO 3

(43)

A differenza dei dati nutrizionali che possiamo trovare sul retro dei cibi acquistati, i capi d’abbigliamento non forniscono un’etichetta con un elenco di ingredienti così dettagliato. Le 8.000 sostanze chimiche utilizzate du-rante la produzione di vestiti, la maggior parte delle qua-li cancerogene, non vengono espqua-licitate e si nascondono all’interno delle fibre tessili dei nostri capi (Andrea Plell, 2018).Fanno un viaggio lungo che parte dai luoghi in cui si trovano i lavoratori che ne respirano i loro fumi, fino ad ar-rivare a contatto con il nostro organo più grande, la nostra pelle, sul quale si depositano fino ad essere assorbite dal nostro sangue.

Per produrre capi di diverse varietà di colori e consistenze è necessario l’uso di sostanze chimiche par-ticolari e di processi di fabbricazione appositi. Durante il processo di fabbricazione, i prodotti tessili possono essere sottoposti a una serie di trattamenti chimici e non chimi-ci, tra cui preparazione e pretrattamento, tintura, stampa e raffinamento dei tessuti. Per far si che un capo ottenga una determinata caratteristica, come ad esempio un colo-re specifico piuttosto che un trattamento antimuffa che ne garantisca l’integrità durante il trasporto, vengono utiliz-zate miscele di sostanze chimiche. Naturalmente ogni filie-ra produttiva determina le quantità e le modalità di utilizzo delle sostanze chimiche impiegate, il livello di pericolosità, i macchinari utilizzati e i cicli di lavorazione applicati. Ogni anno vengono utilizzati 43 milioni di tonnellate di prodotti chimici per la produzione di tessuti. Le sostanze utilizzate

1.4.3 MATERIALI E SOSTANZE

CHIMICHE UTILIZZATE

(44)

44 BUY-BYE

in tutte le fasi del processo di produzione spesso rimango-no, sia intenzionalmente che non intenzionalmente, nei tessuti. Ciò solleva preoccupazioni a causa degli effetti ne-gativi che possono avere sulle persone e sull’ambiente. Gli impatti segnalati vanno dalle reazioni allergiche, alle ma-lattie respiratorie, all’aumento dei casi di cancro nell’uomo e alla perdita della vita marina.

Alcuni dei prodotti chimici utilizzati persistono anche nell’ambiente e si accumulano nel tempo. Di seguito vie-ne presentato un elenco delle principali sostanze chimiche utilizzate per la produzione dei capi e i loro effetti:

1. I pesticidi sono usati per difendere le colture dai danni di insetti, muffe o erbe infestanti e i residui possono esse-re ritrovati nel cotone. Mentesse-re un certo numero di pesticidi pericolosi (ad esempio mirex, endosulfan e diclorodifenil-tricloroetano) è stato vietato a livello globale dalla Conven-zione di Stoccolma, molti sono ancora usati nelle colture di cotone di alcuni paesi (Pesticide Action Network UK, 2017); 2. I solventi vengono utilizzati in grandi quantità nelle varie fasi della produzione tessile per sciogliere sostanze come i pigmenti coloranti. Molti, se inalati o se a contatto con la pelle, possono essere pericolosi. Sono utilizzati nella pro-duzione di fibre a base di cellulosa (per la sua estrazione e il suo trattamento). Il processo per la produzione della visco-sa, in particolare, utilizza spesso disolfuro di carbonio che è stato ricollegato a diversi disturbi di salute;

(45)

3. I tensioattivi sono utilizzati in molte fasi del processo di produzione. I tensioattivi comunemente usati includono alchilfenolo etossilati, e sono problematici perché possono essere metabolizzati, causando interferenze con il sistema endocrino, il che significa che potrebbero interferire con i sistemi ormonali di mammiferi e pesci;

4. I coloranti e pigment sono usati per colorare i vestiti. Alcuni metodi di tintura applicano coloranti in quantità eccessive, e grandi quantità di esse vengono scaricate nel-le acque reflue. Alcuni coloranti, inclusi gli azocoloranti contenenti ammina, sono persistenti: una caratteristi-ca desiderata per i tessuti ma non nell’ambiente. A volte contengono anche metalli pesanti come piombo o cadmio e in determinate condizioni si scompongono in composti cancerogeni;

5. i plastificanti come il polivinilcloruro (PVC), sono usati per ammorbidire la plastica. Nei tessuti, il PVC viene uti-lizzato per le operazioni di serigrafia e per i tessuti di rive-stimento. Un gruppo comune di plastificanti sono gli ftala-ti, che vengono utilizzati in grandi quantità nella stampa. Diversi ftalati sono pericolosi, in particolare per i sistemi ormonali e per la capacità riproduttiva. Dato che gli fta-lati non sono legati chimicamente al PVC utilizzato per la stampa di immagini, talvota se usurati o durante i lavag-gi possono disperdersi. Per questo motivo, la lelavag-gislazione dell’UE, ad esempio, vieta l’uso di alcuni ftalati.

(46)

46 BUY-BYE

6. i ritardanti di fiamma sono usati per rendere un prodotto meno infiammabile. A seconda delle normative nazionali, in alcuni prodotti come ad esempio in indumenti protetti-vi, tende e tessuti usati nei mobili, possono essere utiliz-zati dei ritardanti di fiamma. Alcuni ritardanti di fiamma attualmente utilizzati, possiedono proprietà pericolose: il perfluoroesano solfonato (PFHXS), ad esempio, è stato se-gnalato per essere incluso nell’elenco di registrazione, va-lutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chi-miche (REACH) dell’UE, a causa della sua forte persistenza e del suo potenziale di bioaccumulo nella corpo umano. 7. i biocidi sono usati per impedire agli organismi viventi di prosperare sugli abiti durante l’immagazzinamento o il tra-sporto e per conferire proprietà anti-odore a prodotti come l’abbigliamento sportivo. Questi sono progettati per essere pericolosi per questi organismi bersaglio, ma danneggiano anche noi esseri umani. Vengono sollevate preoccupazio-ni circa la possibilità che i batteri possano sviluppare resi-stenza alle sostanze antibatteriche rilasciate e che ciò possa innescare lo sviluppo di resistenza agli antibiotici.

(47)

Figura 1.4

Due operai si occupano della colorazione di tessuti.

(48)

48 BUY-BYE

L’impatto ambientale negativo dell’industria della moda non si ferma alla fase di produzione, anzi, gran parte dell’impatto è riconducibile al momento successivo all’uti-lizzo dei capi. Infatti, quella maglietta comprata la stagione passata e che quest’anno non passerebbe mai per la testa di indossare e che finirà probabilmente cestino, è in buo-na compagnia: si stima che circa il 73% dei vestiti prodot-ti finisca in discarica e che meno dell’1% venga riciclato. Praticamente ogni secondo che passa viene buttato via l’e-quivalente di un camion carico di vestiti che finiscono in discarica o che vengono bruciati (Ellen MacArthur Foun-dation, 2017).

L’abbigliamento è ampiamente sottoutilizzato. In tutto il mondo il numero medio di volte che un indumento viene indossato prima di essere gettato è diminuito del 36% rispetto a 15 anni fa (Ibidem). Negli Stati Uniti, ad esempio, i vestiti vengono indossati solo per circa un quarto della media globale e si stima che un americano medio getti 37 kg di rifiuti tessili all’anno per totale di 11 milione di tonnel-late (The True Cost, 2015). Lo stesso modello sta emergen-do in Cina, emergen-dove l’utilizzo dell’abbigliamento è diminuito del 70% negli ultimi 15 anni (Ellen MacArthur Foundation, 2017). A livello globale, i consumatori perdono 460 miliardi di dollari di valore ogni anno gettando via i vestiti che po-trebbero continuare a indossare, e si stima che alcuni capi vengano scartati dopo appena sette o dieci usi (Ibidem).

Ma che fine fanno questi vestiti che non indossia-mo più, che sono passati di indossia-moda o che si sono leggermente

1.4.4 DESTINO DEI CAPI DOPO L’USO

E SMALTIMENTO

Valore basato su una densità media di 150 kg / m3 per un lotto di tessuti e un volume di 17,5 m3 di un camion della spazzatura.

3

(49)

rovinati e che quindi non siamo più disposti ad indossare? Se la soluzione non è abbandonarli nell’armadio o buttarli nel cestino, generalmente buona parte dei vestiti che non usiamo più viene donata in beneficenza. Ecco che si pone un altro problema: gran parte dei vestiti donati in benefi-cenza è di bassa fattura o è rovinata, ma gli enti di bene-ficenza e gli operatori umanitari hanno bisogno di vestiti funzionali, non di abiti economici. I soccorritori che ope-rano nelle zone disastrate trascorrono tempo prezioso per selezionare flussi di donazioni di indumenti inutili il cui destino è inevitabilmente la discarica. H&M, Levi’s e alcu-ne altre aziende di moda hanno attivato programmi di rac-colta usato di qualità da qualsiasi marchio. Resta da vedere quanto saranno efficaci questi programmi per far fronte alle enormi quantità di rifiuti tessili generati ogni anno. Dal 2013, H&M ha raccolto in tutto il mondo 40.000 tonnella-te di abbigliamento. Questo è meno dell’1% per cento dei rifiuti tessili totali inviati alla discarica o inceneriti con-temporaneamente solo negli Stati Uniti (Fashion Revolu-tion, 2017). È difficile ordinare in modo efficiente gli abiti una volta raccolti: l’abbigliamento viene ancora smistato a mano, e gli addetti allo smistamento devono prendere una decisione in pochi secondi sul loro destino. Non hanno il tempo di esaminare le etichette per il contenuto, sem-pre che siano ancora attaccate ai vestiti. La tecnologia in questo caso non è di aiuto, poiché per il riciclo dei vestiti non è ancora così evoluta. Solo il 100% delle fibre naturali può essere compostato, ma molte fibre naturali sono tinte

(50)

50 BUY-BYE

e rifinite con sostanze chimiche tossiche. Inoltre, il taglio manuale delle fibre naturali per il riciclaggio le degrada e le indebolisce. Ad esempio, i jeans possono essere tagliati dalle macchine, ma solo il 20% circa del cotone in un nuo-vo paio di jeans può essere costituito da cotone riciclato, il resto deve essere vergine (Sears, 2016). Per non parlare delle fibre sintetiche come poliestere, il nylon e l’acrilico che sono essenzialmente filamenti di plastica che impie-gheranno da 500 a 1.000 anni o più per degradarsi com-pletamente, ma che probabilmente nel frattempo verranno scaricati in mare e di conseguenza consumati dagli organi-smi che vivono in mare e di conseguenza da noi.

(51)

TITOLO CAPITOLO

Il viaggio di una maglietta donata

in beneficenza può essere di per sé

sgradevole. In Haiti questa

prati-ca è diventata un problema e prende

il nome di Pepe. Pepe è un mucchio

di vestiti che gli enti di

benefi-cenza non possono vendere nei propri

negozi e che vengono confezionati

e spediti in Haiti. Apparentemente

non sembra esserci nulla di strano

o sbagliato, se non fosse che solo

il 10% circa dei vestiti che

donia-mo viene davvero venduto nei negozi

dell’usato locali. Mentre noi

consu-miamo sempre più vestiti, molti di

questi vengono scaricati in paesi in

via di sviluppo come Haiti che sta

diventando letteralmente una

disca-rica. Mentre la quantità di

vesti-ti che arriva sta aumentando,

l’in-dustria locale dell’abbigliamento

sparisce, o meglio, Haiti continua a

produrre perlopiù magliette

economi-che da spedire in America,

magliet-te che probabilmenmagliet-te verranno

spe-dite indietro dagli americani dopo

qualche uso. «Haiti has practically

become a trash can where everything

people in other countries don’t need

comes here».

(Ketcia Pierre-Louis in The True Cost, 2015)

Il fenomeno

Pepe

Il lato nascosto della beneficenza

(52)

Tempo di

decomposizione dei

capi in discarica:

Maglia in viscosa

1-6 settimane 1 settimana/5 mesiCalzini in cotone

Canotta in seta 1-3 anni

Maglione di lana

1-5 anni Gilet in lino2 settimane

Figura 1.5

Tempo di decomposizione di alcuni capi d’abbigliamento in discarica.

BUY-BYE

(53)

Borsa in pelle 50 anni

Collant in nylon 30-40 anni

Maglia in lana merino 9 mesi Vestiti tecnici per lo sport 20-200 anni Giacca in jeans 10-12 mesi Abito in poliestere +200 anni IL MODELLO FAST FASHION

(54)
(55)

TITOLO CAPITOLO

La risposta

al fast fashion

2.1 LE CAMPAGNE DI SENSIBILIZZAZIONE

CAPITOLO 2

2.2 LA MODA ETICA E SOSTENIBILE:

VERSO NUOVI MODELLI DI ACQUISTO

(56)

56 BUY-BYE

Dietro ad ogni tendenza o atteggiamento scorretto c’è chi si mette in gioco per cercare di contribuire e risolvere ciò che non va. Tutto ciò che c’è di scorretto dietro le aziende fast fashion viene raccontato e messo in luce da diverse associazioni che si metto-no in campo per cercare di smuovere le coscienze delle persone. Tra le tante cito quelle che hanno avuto una maggior influenza e un maggior successo: l’associazione Fashion Revolution con la sua campagna "Who Made my Clothes?", l’associazione Clean Clothes Campaign, una rete globale dedicata al miglioramento delle con-dizioni di lavoro e alla responsabilizzazione dei lavoratori nelle in-dustrie globali dell’abbigliamento e dell’abbigliamento sportivo e l’associazione Greenpeace che con la campagna "Detox my Fashion" si occupa di sensibilizzare i brand sulle conseguenze ambientali dell’industria della moda.

Carry Somers e Orsola De Castro fondano nel 2013 l’associazione senza fini di lucro Fashion Revolution il cui obiettivo è quello di far conoscere a tutti l’impatto socia-le e ambientasocia-le dei vestiti che indossiamo ogni giorno e di promuovere un consumo più sostenibile che prediliga la produzione locale, il recupero di abiti usati e in generale il concetto di comprare meno, ma di qualità. La Fashion Revolu-tion è iniziata nel maggio 2013 come reazione allo sdegno

2.1

LE CAMPAGNE DI SENSIBILIZZAZIONE

2.1.1 FASHION REVOLUTION:

“WHO MADE MY CLOTHES?”

(57)

LA RISPOSTA AL FAST FASHION

provocato dal disastro di Rana Plaza (vedi Scheda di Ap-profondimento 2). Chi potrebbe non essere scioccato dal peggior disastro industriale del mondo? Ciò che Rana Pla-za ha suscitato è stato mettere in discussione come e dove spendere i soldi e ripensare completamente al contenuto dei nostri armadi. L’unico invito all’azione di Fashion Re-volution è stato quello di chiedere "Who made my clothes?", una domanda che è stata posta in lungo e in largo.

La campagna "Who made my clothes?" è esplosa così tanto che i brand hanno dovuto ascoltare e rispondere.

Dal 2013, migliaia di marchi hanno risposto alla domanda

«Quando tutto nell’industria della moda

è focalizzato sul profitto, i diritti umani,

l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono

persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di

mobilitare le persone in tutto il mondo per

farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa.

L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio

che coinvolge migliaia di persone: la forza

lavoro invisibile dietro ai vestiti che

indos-siamo. Non sappiamo più chi sono le

perso-ne che fanno i nostri vestiti, quindi è facile

far finta di non vedere e come risultato

mi-lioni di persone stanno soffrendo, perfino

morendo». (Carry Somers, co-fondatrice

di Fashion Revolution)

(58)

58 BUY-BYE

e oltre 150 marchi principali hanno pubblicato elenchi di fabbrica. Più di 1.300 fabbriche sono state ispezionate e 1,8 milioni di addetti all’abbigliamento hanno ricevuto infor-mazioni sulla sicurezza in fabbrica (Fashion Revolution, 2017). Le condizioni di lavoro stanno migliorando e anche alcuni salari stanno aumentando. Il governo del Bangla-desh ha registrato un aumento del 77% nel salario mini-mo, arrivando a 68$ al mese per i lavoratori nell’industria tessile. Ma i lavoratori continuano ad essere e sottopagati e 68$ sono ancora lontani da essere un salario minimo di sussistenza. Una sfida percorre le pagine social di Fashion Revolution, un invito chiaro, rivolto a tutti: fotografarsi con i propri abiti al rovescio, etichetta ben in vista. Nel miri-no la famosa dicitura “made in”, ovvero quella che indica il luogo di produzione del capo. Il secondo passo è pubblica-re la fotografia sui principali social network con l’hashtag #whomademyclothes (vedi Figura 2.2) che da il nome alla campagna, ovviamente non tralasciando di taggare nel post anche il marchio in questione, in modo da sollecitarne la risposta. L’obiettivo è da un lato sensibilizzare i cittadini ad un consumo critico e quanto più possibile consapevo-le, dall’altro chiamare direttamente in causa le aziende del settore, le quali possono rispondere tramite un hashtag dedicato, #imadeyourclothes (vedi Figura 2.3), mostrando la realtà lavorativa delle migliaia di operai impiegati nella realizzazione dei loro prodotti. L’iniziativa ha già raccolto le testimonianze di molti consumatori e di molte aziende produttrici. Purtroppo, scorrendo le foto pubblicate sui social, si nota invece una scarsa collaborazione diretta dei marchi più noti di Fast Fashion, che sulle etichette sono al contrario ben evidenti.

(59)

Figura 2.1

Contenuti social della pagina Instagram di Fashion Revolution.

(60)

60 BUY-BYE

Figura 2.2

Una consumatrice pone la domanda

“Who made my clothes?” al brand esposto

(61)

Figura 2.3

Delle operaie rispondono alla domanda

“Who made my clothes?”

(62)

62 BUY-BYE

Nel 2011 Greenpeace ha chiesto alle aziende di moda di tutto il mondo di affrontare le proprie responsa-bilità ambientali e di impegnarsi a smettere di inquinare i corsi d’acqua con sostanze chimiche pericolose. Ottanta industrie si sono impegnate a vietare tali prodotti chimi-ci dalla loro linea di produzione entro il 2020 e, secondo un nuovo rapporto di Greenpeace, alcune hanno già rea-lizzato progressi sostanziali. Il rapporto Destination Zero, pubblicato da Greenpeace Germany nel 2018, mette in luce le aziende di fast fashion che si sono dimostrate particolar-mente virtuose: tra queste possiamo trovare Inditex (Zara), H&M, Benetton e Fast Retailing. Sfortunatamente, solo due marchi di moda del settore del lusso (Burberry e Valentino) hanno preso parte alla missione di ridurre l’uso di sostanze chimiche che inquinano il nostro pianeta. Ad ogni modo, le aziende che hanno aderito al progetto rappresentano il 15% della produzione globale di abbigliamento e il rapporto traccia i principali passi che hanno fatto da quando è sta-ta lanciasta-ta la campagna. Per cominciare, tutte le aziende che si sono impegnate nel progetto Detox my fashion stan-no attualmente eliminando 11 gruppi prioritari di sostanze chimiche pericolose identificati da Greenpeace. Inoltre, il 72% dei marchi impegnati in questo progetto sta divulgan-do le proprie liste di fornitori fino alla lavorazione a umi-do Tier2 e Tier3, al fine di segnalare l’inquinamento delle acque proprio dove si verifica più spesso. Inoltre, la stes-sa percentuale di marchi ha ottenuto l’eliminazione totale dei prodotti chimici perfluorurati e polifluorurati (PFC) dai loro prodotti, mentre il 20% sta attualmente lavorando per rimuoverli completamente dalle loro linee di produzione.

(63)

Say no

to clothes

with a toxic trail.

Greenpeace

LA RISPOSTA AL FAST FASHION

Figura 2.4

L’effetto delle sostanze chimiche utiliz-zate per la produzione di vestiti sui corsi d’acqua.

(64)

64 BUY-BYE

Man mano che lo shopping online diventa sempre più pervasivo, la ricerca di prodotti più economici diventa la norma: i materiali di scarsa qualità contribuiscono alle montagne di rifiuti e le microplastiche presenti negli indu-menti sintetici vengono scaricati negli oceani, aumentando l’inquinamento da fibre. Greenpeace ritiene che l’elimina-zione dell’uso di sostanze chimiche pericolose sia un passo essenziale verso l’economia circolare perché eviterebbe il ricircolo infinito di sostanze tossiche attraverso materiali riciclati. A questo proposito, Kirsten Brodde, responsabile del progetto Greenpeace Germania della campagna Detox my Fashion, afferma che mentre tutti sono estremamente

«We have made great progress in phasing out

hazar-dous chemicals - there has been a major paradigm shift

in the clothing industry triggered by the Detox

cam-paign, which now takes responsibility for their

pro-duction instead of just their products. It is very

impor-tant that we don’t stop here: the huge material intensity

of textiles lifecycle can never be sustainable, no matter

how many chemicals get eliminated, and many more

problems lie ahead for the clothing and textiles

indu-stry.[...]It’s now time for a new impossible - a

para-digm shift towards forward-thinking business models

in line with planetary boundaries. The Detox

Cam-paign should encourage us all to think of the

seemin-gly impossible, aim higher, look closer and collaborate

more.» (Bunny McDiarmid, 2017)

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felici dei progressi realizzati dalle aziende che aderiscono al progetto, dobbiamo ricordare che l’85% del settore tessi-le non sta ancora facendo abbastanza. Ci sono ancora molte sfide da affrontare prima di poter considerare l’industria davvero atossica e il fatto che le catene di approvvigiona-mento globali siano complesse non faciliterà le cose.

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66 BUY-BYE

Con il termine slow fashion si intende un differente approccio al consumo di vestiti che spinge il consumatore ad acquistare capi che sono stati progettati per durare nel tempo, che siano eticamente sostenibili (quindi che siano stati prodotti nel rispetto dei lavoratori), e che siano soste-nibili a livello ambientale, ossia che siano stati realizzati con materiali e attraverso processi di produzione ecoso-stenibili e a basso impatto ambientale. Una tendenza che punta quindi alla salvaguardia del pianeta e dei diritti di chi produce i capi. L’obiettivo dello slow fashion è quello di migliorare più punti della catena di produzione: per i lavo-ratori dell’industria tessile nei paesi in via di sviluppo, slow fashion significa salari più alti, per gli utenti finali, significa che i prodotti sono progettati e fabbricati con maggiore cura con una maggior qualità, infine dal punto di vista ambien-tale, significa che ci sono meno vestiti e rifiuti (Hirscher, 2013).

Uno dei primi marchi che ha guadagnato un suc-cesso particolare e che si basa su questo modello di pro-duzione è il brand britannico People Tree, che appunto ab-braccia il concetto di commercio etico, producendo tutti i prodotti secondo gli standard commerciali etici e suppor-tando produttori e artigiani locali nei paesi in via di svi-luppo (The True Cost, 2015). People Tree è noto come il pri-mo brand al pri-mondo che ha ricevuto il premio Ethical Trade Brand, assegnato nel 2013. Oltre ad adottare il commercio

2.2

LA MODA ETICA E SOSTENIBILE:

VERSO NUOVI MODELLI DI ACQUISTO

2.2.1 SLOW FASHION

(67)

etico, il marchio preferisce anche utilizzare materiali eco-logici e tessuti prodotti con certificazione GOTS 4.

«Business practices have worsened.

Con-sumerism has reached a cruel momentum

speed of a raving car out of control. Fashion

companies are trading faster, harder and

using the lack of legislation, transparency,

consumer awareness and a growing

un-skilled population of young women in the

developing world. The fashion business

model is broken and we urgently need to

find alternatives.» (Safia Minney, Founder

& CEO, People Tree, n.d.)

La certificazione GOTS, per definizione dell’ICEA (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale), «è stata-sviluppato da organizzazioni internazionali leader nell’agricoltura biologica al fine di garantire al consumatore che i prodotti tessili biologici siano ottenuti nel rispetto di stringenti criteri ambientali e sociali applicati a tutti i livelli della produzione, dalla raccolta in campo delle fibre naturali alle successive fasi manifatturiere, fino all’e-4

Figura

Figura 5.1 Scopo progettuale e  nuovo ciclo dell’abitudine.
Figura 5.9 User Journey.
Figura 5.10 Piano editoriale.

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