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Il costo del debito nel sistema dell’Imposta di Ricchezza Mobile

3. Gli effetti dell’indebitamento nella formazione del reddito imponibile

3.2 Ricognizione evolutiva del costo del debito quale componente concorrente alla determinazione del

3.2.1 Il costo del debito nel sistema dell’Imposta di Ricchezza Mobile

Nell’originario assetto dell’Imposta di Ricchezza Mobile era esclusa la

concorrenza del costo del capitale ai fini della determinazione della base

imponibile, senza distinzioni tra il capitale di conferimento e quello attinto a

titolo di credito.

Difatti, con riferimento alla produzione di redditi di categoria B (“redditi

temporanei prodotti dall’unione del capitale e del lavoro dell’uomo”) era espressamente

previsto che “Per la classe dei redditi industriali si terrà conto, in deduzione, delle spese

inerenti alla produzione, come il consumo di materie grezze e strumenti, le mercedi degli

operai, il fitto dei locali, le commissioni di vendita e simili. Non potranno far parte di tali

spese:

1) l’interesse dei capitali impiegati nell’esercizio, sieno propri dell’esercente o tolti ad

imprestito, salvo per questi ultimi il disposto dell’articolo precedente[…]”

52

.

Tuttavia, in base ad altra norma precedente rispetto a quella ivi richiamata

era, per converso, riconosciuto il diritto alla deduzione delle “annualità

passive, anche ipotecarie, che aggravano […] i redditi provenienti da ricchezza mobile”

53

.

L’onere corrispondente ai finanziamenti era, quindi, riconosciuto non tanto

come elemento concorrente, assieme ai ricavi ed ai costi, alla formazione del

risultato economico periodicamente prodotto dall’impresa, quanto,

piuttosto quale importo estraneo al ciclo di produzione

54

, di cui tenere

52 Cfr. articolo 32 del Testo Unico 24 agosto 1877, n. 4021. Con specifico riguardo all’inciso che si riferiva alle “spese inerenti alla produzione” già la dottrina del tempo notava come le spese inerenti non potevano che essere “quelle inevitabili ossia quelle spese

senza le quali la produzione non si sarebbe ottenuta”; cfr. O. QUARTA, Commento alla legge

sull’imposta di ricchezza mobile, Milano, 1917, p. 290. In tempi recenti, in dottrina –

richiamandosi a quanto affermato dal citato Autore – è stato specificato che “tale nozione

di inerenza presentava […] connotati di una rapporto tra ricavi e spese […] di tipo “organico” nel senso che detti componenti reddituali dovevano trovarsi in rapporto di immediata, diretta, necessaria ed attuale causalità con la produzione del reddito, sino ad incorporarsi in maniera quasi “fisica” al prodotto. Non risultavano, conseguentemente, deducibili dal reddito complessivo gli interessi corrisposti per finanziamenti ricevuti da parte di terzi ed il compenso dell’imprenditore e quello dei suoi familiari, ancorché occupati nell’attività imprenditoriale”; cfr. M.PROCOPIO, L’inerenza nel sistema delle

imposte sui redditi, Milano, 2009, p. 36; cfr. anche A.PANIZZOLO, Inerenza ed atti erogativi

nel sistema delle regole di determinazione del reddito d’impresa, Rivista di diritto tributario, I,

1999, p. 675 ss.

53 Cfr. articolo 31 del Testo Unico 24 agosto 1877, n. 4021.

comunque conto nel diverso (e logicamente successivo) passaggio che

portava dal “reddito netto” al “reddito imponibile”.

In altri termini, la deduzione degli interessi passivi per i debiti contratti

doveva essere effettuata non dai ricavi lordi, bensì dal reddito netto già

determinato così da giungere alla formazione della base imponibile su cui

commisurare il tributo dovuto

55

.

Il costo dell’indebitamento, perciò, pur riconosciuto sostanzialmente ai fini

della determinazione dell’imposta scontava una netta “estraneità” nella

configurazione del presupposto imponibile, essendo posto su un piano

debito rispetto al profitto, traesse la propria ratio da origini storiche, risalenti ad antiche prevenzioni sia ideologiche sia religiose sul negozio di “prestito ad interesse” e sull’illegittimità degli oneri da questo conseguenti. A titolo meramente indicativo, si rammenta come il negozio del mutuum dare - originariamente costruito sulla fiducia cum

amico, ma evolutosi anche in forme aventi ad oggetto le usurae - fosse diffuso in epoca

romana repubblicana e fosse successivamente stato oggetto di una disciplina speciale nel Corpus Iuris Civilis vigente sotto l’imperatore Giustiniano; sull’argomento, cfr. A. PETRUCCI, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino, 2002, p. 95 ss. In seguito, dette pratiche commerciali furono, come noto, avversate dalla dottrina della Chiesa cattolica, contraria ad ogni forma di “usura” nel presupposto che essa contraddicesse non solo gli insegnamenti biblici e dei pensatori classici (in specie, Aristotele) - dalle riflessioni dei quali originava la convinzione che “il denaro non producesse frutti” - ma addirittura il diritto naturale (particolarmente evocativo il passo di un manoscritto citato nell’opera di J.LE GOFF, La borsa e la vita. Dall’usuraio al

banchiere, Edizione italiana, Bari, 2003, p. 17, in cui si affermava che “gli usurai peccano contro natura volendo far generare denaro dal denaro come un cavallo da un cavallo e un mulo da un mulo”). La “guerra” contro le usurae - mai, invero, efficacemente contrastate - si rivelò

definitivamente persa quando lo sviluppo economico dell’Europa impose di favorire una più veloce circolazione della moneta e il credito apparve come strumento indispensabile per la prima accumulazione capitalistica, sospinto da istituti giuridici sempre più complessi, che sfuggivano allo schema del mutuum dare, ma nei quali il corrispettivo della “consegna a tempo” del denaro trovava comunque un compenso (periodo corrispondente con la nascita del così detto “Ius mercatorum”). In epoche più recenti detti istituti furono recepiti nel Code Napoléon, che conteneva un apposito capitolo al fine di regolamentare i negozi riconducibili al prêt à intérêt, e da questo trasfusi poi nell’ordinamento italiano all’interno del Codice civile del 1865 e del Codice di commercio del 1882; per una ricostruzione storica dei negozi aventi ad oggetto il denaro e sulla legittimità del relativo carattere oneroso, cfr. U.SANTARELLI, Mercanti e

società di mercanti, Torino, 1998, p. 153 ss.; T. ASCARELLI, Obbligazioni pecuniarie, in “Commentario al codice civile” a cura di A.SCIALOJA -G.BRANCA, Bologna, 1983, p. 577 ss.; R.TETI, Il mutuo, in “Trattato di diritto privato” diretto da P.RESCIGNO, Vol. XII, Torino, 1985, p. 644 ss.; M.PORZIO, I frutti del denaro. La disciplina degli interessi dalle

dodici tavole al testo unico bancario ed oltre, Diritto e giurisprudenza, II, 2008, p. 163 ss.

55 Ciò era desumibile, oltre che dal combinato disposto delle norme sopra citate, anche da quanto stabilito nell’articolo 51 del Regolamento 11 luglio 1907, n. 560, ai sensi del quale nella dichiarazione del reddito dovevano “specificarsi, distintamente per ciascun cespite e

affatto diverso rispetto agli elementi (ricavi e costi della produzione)

concorrenti alla formazione del reddito

56

.

Tale era detta “estraneità” che analoga deduzione dei medesimi oneri

finanziari era ammessa anche dai (diversi) redditi di categoria A

(corrispondenti ai redditi di capitale), non ritenendosi che sussistesse alcuna

incompatibilità tra detta deduzione e la regola della loro determinazione al

lordo di ogni spesa

57

.

Secondo la ratio della disciplina dell’epoca, quindi, gli interessi passivi

rilevavano in un momento logicamente e giuridicamente successivo a quello

riguardante la determinazione dei singoli redditi netti.

In specie, si riteneva che tali interessi costituissero “erogazione” di reddito

prodotto, e non spesa di produzione, ma che ciononostante meritassero di

essere comunque presi in considerazione ai fini della determinazione

dell’imposta per la loro incidenza sulla capacità contributiva individuale

58

.

La particolarità del suddetto regime risiedeva nel fatto che la rilevanza degli

oneri finanziari fosse limitata alle sole imposte sui redditi mobiliari (e negata,

invece, nel computo dell’imposta sui redditi fondiari) e consistesse nel

56 Un’autorevole quanto chiara spiegazione della ratio e del funzionamento di tale originaria disciplina, che presupponeva l’estraneità degli interessi passivi dal novero delle spese di produzione, è rinvenibile negli scritti di O.QUARTA, Legge sull’imposta di

ricchezza mobile, Torino, 1884, p. 653 ss., il quale affermava come “la legge eccepisce dalla detrazione dei redditi industriali e professionali l’interesse dei capitali propri del contribuente impiegati nell’industria o nel commercio. Tali interessi non costituiscono né una passività del reddito né una spesa inerente alla produzione; essi anzi non esistono come attività se non fittizia del contribuente, avvegnachè il capitale impiegato nell’industria non dà interesse, ma dà reddito industriale, frutto del lavoro e del capitale associato […]. Qualora poi i capitali impiegati nell’industria non siano propri del contribuente, ma di spettanza altrui o tolti a prestito, in allora gli interessi relativi dovranno non detrarsi quale spesa di produzione, ma diffalcarsi quale proprietà […]”.

57 Al riguardo, difatti, V.SAMPIERI MANGANO, L’imposta di ricchezza mobile e le società

commerciali per azioni, Vol. II, Milano, 1936, p. 410, rammentava come non sarebbe stato

prospettabile “niun dubbio […] di fronte alla costante giurisprudenza della Commissione centrale e

dei magistrati, adottata dal Ministero fin dal 1869 […] che l’ammissibilità delle annualità passive valga anche per i redditi di categoria A”.

58 In questo senso, V. SAMPIERI MANGANO, L’imposta di ricchezza mobile e le società

commerciali per azioni, cit., p. 394 spiegava espressamente come “l’annualità passiva, a rigor di termini, non è che una forma di “erogazione di reddito netto già prodotto”; e dall’erogazione vera e propria non differisce che pel fatto che una parte del reddito netto è già impegnata, in favore di persona certa e determinata, sin dal momento in cui si inizia il lavoro produttivo in ciascun anno od esercizio sociale […]. L’erogazione è, di regola, atto volontario; l’annualità passiva, invece, come l’imposta è un aggravio legale, obbligatorio, imposto sul reddito netto”.

riconoscimento, ai soli fini fiscali, di un “aggravio” ulteriore del reddito una

volta che fosse già determinato

59

.

Sotto il profilo del trattamento del costo del debito nell’Imposta di

Ricchezza Mobile, può perciò osservarsi come, da un lato, la limitazione

degli oneri originati da passività finanziarie nella determinazione del tributo

discendesse più dai limiti strutturali dell’imposta (e cioè dal fatto che ad essa

non erano sottoposti i redditi fondiari), che da quel che si riteneva dovesse

essere il concetto giuridico di reddito mobiliare (e cioè dal fatto che esso

dovesse essere inteso al lordo, o al netto, delle suddette “annualità

passive”)

60

.

D’altro lato, può oggi rilevarsi come la stessa nozione di reddito prodotto

mediante l’esercizio di un’attività commerciale fosse concepita in una forma

al tempo non del tutto compiuta, in quanto non risultavano ancora recepiti

59 Sul punto, nell’opera di V.SAMPIERI MANGANO, L’imposta di ricchezza mobile e le società

commerciali per azioni, cit., p. 341 veniva rammentato come nella Relazione illustrativa di

accompagnamento alla legge istitutiva del tributo fosse stato sottolineato dal Senatore Scialoja come “la legge, trattandosi di ricchezza mobile, ha quindi prescritto che si diffalchino le

annualità passive quando aggravano i redditi non fondiari. Val quanto dire che il diffalco non ha luogo per la parte che aggrava la rendita della ricchezza stabile […]. Quando constasse che un debito è stato fatto per un impiego assolutamente fondiario, per migliorie di terre, per costruzioni di case, sarebbe ingiusto diffalcare questo debito […] dalle entrate non fondiarie che può avere il proprietario, e che possono per avventura essere appena uguali o anche minori degli interessi sul debito”. Prendendo

spunto da tale intervento, sotto un ulteriore profilo è immediato osservare come nell’impianto normativo dell’epoca fosse presupposta una corrispondenza stretta (per non dire proprio una “relazione biunivoca”, utilizzando la terminologia adoperata con riferimento ai risultati raggiunti al riguardo nelle scienze aziendali, cfr. supra par. 2.2.2) tra specifici finanziamenti ed impieghi del capitale.

60 Tale è la conclusione di S.LA ROSA, Interessi passivi, interessi del debito pubblico e disciplina

fiscale dei redditi d’impresa, Rassegna Tributaria, I, 1984, p. 19, la cui ricostruzione

dell’originario tributo è approfondita dagli orientamenti dottrinali, amministrativi e giurisprudenziali dell’epoca (cfr. p. 21 ss.). Peraltro, la necessità di considerare l’ “aggravio” derivante dai finanziamenti contratti ai fini della determinazione della rispettiva base imponibile venne letto come tentativo di tener conto di criteri di personalità nell’ambito di un’imposta – qual’era l’Imposta sulla Ricchezza Mobile - considerata un tributo a carattere sostanzialmente reale, in quanto applicata a fatti manifestativi di ricchezza singolarmente considerati, prescindendo dal riferimento alla situazione personale complessiva del soggetto; cfr. G. MARONGIU, Alle radici

dell’ordinamento tributario italiano, Padova, 1988, p. 192, in cui è ricostruito il dibattito tra

coloro i quali sostenevano la natura essenzialmente reale all’imposta di ricchezza mobile (da un lato, cfr. M.PESCATORE, La logica delle imposte, Torino, 1867, p. 239) e coloro che, invece, affermavano la coesistenza sia di forme di imposizione reale (per la categoria dei redditi da capitale) sia di forme di imposizione aventi carattere di personalità (cfr. O. QUARTA, Studio sull’imposta di ricchezza mobile, Roma, 1883, I, p. 1 ss.).

nella normativa fiscale i principi e le grandezze proprie dell’economia in

materia di reddito d’impresa, in base alle quali quest’ultimo è determinato

dal concorso di tutti i ricavi e dei costi sostenuti nell’esercizio dell’attività

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.

3.2.2 Il riconoscimento del costo del debito come fattore produttivo di reddito e