3. Gli effetti dell’indebitamento nella formazione del reddito imponibile
3.2 Ricognizione evolutiva del costo del debito quale componente concorrente alla determinazione del
3.2.2 Il riconoscimento del costo del debito come fattore produttivo di reddito e
leggi sulle imposte dirette (D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645)
Il primo formale riconoscimento nelle leggi tributarie dell’idea che gli
interessi passivi dovessero essere ricondotti nell’alveo delle spese di
produzione del reddito avvenne con la disposizione contenuta nell’articolo
15 della legge 8 giugno 1936, n. 1231
62, in cui fu previsto che, per gli enti e
61 Come ricordato in dottrina, cfr. G. FALSITTA, Il bilancio di esercizio delle imprese.
Interrelazioni tra diritto civile e diritto tributario, Milano, 1985, p. 219, “nel vigore del codice di commercio del 1882 e del testo unico sull’imposta di ricchezza mobile […] l’utile fiscale aveva come base l’utile di bilancio valevole per gli azionisti […] il quale però nei fatti si determinava in forza di principi e criteri valutativi posti non dal codice di commercio, ma suggeriti dalla scienza economica e dall’economia aziendale”, dal momento che all’epoca “il silenzio del legislatore era inteso come un implicito rinvio ai principi di ordinata contabilità, di cui si occupa un’apposita disciplina (la ragioneria)”; a tal fine sono citati i passi di A.DE GREGORIO, I bilanci delle società anonime, Milano, 1938, p. 210, sotto il profilo civilistico, e di A.CECCHERELLI, Il linguaggio dei
bilanci, Firenze, 1950, p. 273, sotto il profilo economico-aziendalistico. Tuttavia, è
necessario anche rammentare come risultati definitivi in merito alla stessa nozione di reddito al tempo non erano stati pienamente raggiunti neppure dalle scienze aziendali (quanto meno in Italia), almeno sino all’inizio degli anni ’20, durante i quali avvenne la pubblicazione della prima edizione del volume di G.ZAPPA, Il reddito d’impresa, scritture
doppie, conti e bilanci di aziende commerciali, Milano, 1920-1929; sul punto, per una
ricostruzione storica, cfr. S.PEZZOLI, Profili di storia della ragioneria, Padova, 1986, p. 127 ss. A questo proposito, è stato giustamente osservato come “se era certamente fondata la
critica […] ai testi normativi di prestare scarsa attenzione al fenomeno aziendalistico, neppure si poteva ritenere corretto l’opposto sistema di tradurre in norme giuridiche grezzamente formulate principi, che non sono pacifici nell’economia aziendale”; cfr. N.D’AMATI, Ricavi, oneri e accantonamenti nella
disciplina del reddito d’impresa, Diritto e pratica tributaria, I, 1989, p. 8, quest’ultimo
richiamando anteriori critiche mosse sul piano della tecnica normativa da P.SARACENO,
L’imposizione dei redditi di R.M. cat. B nell’attuale situazione economica, Economia e
Commercio, 1945, p. 28; nonché del ruolo stesso dell’economia aziendale rispetto alla legislazione economica da D.AMODEO, Ragioneria generale delle imprese, cit., p. 563 ss.
62 Tale intervento normativo fu il frutto di un crescente indirizzo di pensiero economico, sviluppatosi nei primi decenni del Novecento, orientato a sostenere la deducibilità dal reddito soggetto a tassazione del costo dei debiti, nell’esigenza di impedire la doppia imposizione che sarebbe viceversa sorta sul reddito prodotto attraverso l’investimento di capitali presi a mutuo; cfr. A.DE VITI DE MARCO, Principi
di economia finanziaria, III edizione, Torino, 1953, p. 222 ss.; per una compiuta
per le società tassabili in base al bilancio, anche le così dette “annualità
passive” dovessero concorrere alla formazione del reddito laddove fossero
riferite all’attività di acquisto di titoli pubblici o privati ed in quanto
quest’ultima formasse oggetto della “normale attività” della società o
dell’ente stesso.
Inoltre, nella stessa norma venne introdotto il principio secondo cui “qualora
trattisi di aziende che abbiano redditi propri di carattere fondiario, o di carattere
mobiliare esenti per legge dall’imposta di ricchezza mobile […] delle spese e passività
riferibili all’organizzazione dell’impresa nel suo complesso, non sarà ammessa in
detrazione dal reddito tassabile […] quella quota che, in linea estimativa, debba
attribuirsi ai redditi suddetti”.
Dall’osservazione retrospettiva di tale norma, è stato possibile scorgere -
sebbene in nuce - un duplice architrave del sistema che avrebbe caratterizzato
il trattamento del costo del debito nella legislazione successiva:
- in primis, il requisito richiesto per la deducibilità degli interessi passivi
della riferibilità all’attività commerciale (“organizzazione
dell’impresa nel suo complesso”), piuttosto che alle singole tipologie
di reddito da questa realizzato;
- in secundis, l’archetipo del meccanismo di deducibilità degli interessi
passivi proporzionalmente correlata alla presenza di proventi a vario
titolo non soggetti ad imposta (così detto “pro rata di
deducibilità”)
63.
Le successive modifiche della normativa sull’Imposta di Ricchezza Mobile
contribuirono ad un ulteriore avvicinamento verso l’assimilazione degli
interessi passivi sul debito alle ordinarie spese di produzione.
Ciò si verificò dapprima mediante quanto disposto nella legge 5 gennaio
riforma tributaria nei lavori preparatori: validità e limiti nella situazione attuale, in “La crisi
dell’imposizione progressiva sul reddito” a cura di E.GERELLI E R.VALIANI, Milano, 1984, p. 47. Tuttavia, non mancavano visioni (seppure in parte) difformi, cfr. L. EINAUDI, Il mito dei doppi d’imposta, in “Miti e paradossi della giustizia tributaria”, Torino, 1938, p. 49 ss.
63 Cfr. S.LA ROSA, Interessi passivi, interessi del debito pubblico e disciplina fiscale dei redditi
1956, n. 1
64, in cui si affermò ancora più espressamente (anche sotto il
profilo terminologico)
65che “gli interessi passivi potessero essere dedotti dai redditi
dei soggetti tassabili in base a bilancio […] per la parte corrispondente al rapporto tra
l’ammontare dei ricavi lordi che entrano a comporre il reddito assoggettabile a imposta di
ricchezza mobile e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi lordi”.
66In seguito, con l’introduzione del testo unico delle leggi sulle imposte
dirette, contenuto nel D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, l’assimilazione degli
interessi passivi alle altre spese di produzione nell’ambito delle attività
commerciali fu completata, prevedendone la deduzione all’interno del
procedimento di determinazione dell’ammontare netto del reddito
67- inteso
quale “differenza tra l’ammontare dei ricavi lordi che compongono il reddito soggetto
all’imposta e l’ammontare delle spese e passività inerenti
68alla produzione di tale
reddito”
69– e mantenendo fermo al contempo il meccanismo pro rata di
64 Cfr. in particolare l’articolo 23 della legge supra citata.
65 In specie escludendo per il contribuente la facoltà di valutazione (come era desunta dall’inciso “in linea estimativa”) nel determinare la quota attribuibile agli interessi esenti mediante l’adozione di un criterio proporzionale maggiormente oggettivo.
66 La ratio sottesa a tale intervento fu efficacemente spiegata nella Relazione governativa di accompagnamento della citata legge - riportata nell’analisi di V. MESIANO – L. CECCARELLI – I. PISCITELLI, Commento teorico pratico alle norme integrative della legge sulla
perequazione tributaria, Roma, 1956, p. 417 ss. – in cui si specificava come la precedente
disposizione contenuta nell’art. 15 della legge n. 1231/1956 avesse determinato una
“inammissibile parziale doppia esenzione, in quanto alla esenzione delle cedole (dei titoli pubblici,
n.d.r.) si aggiunge la detrazione, dagli altri redditi, di spese o passività che sono inerenti ai redditi
esenti, e non alla produzione dei redditi assoggettabili ad imposta”, precisando altresì che con il nuovo sistema proporzionale di deducibilità degli interessi passivi si intendesse stabilire “un criterio di semplice ed obiettiva applicazione”, avente valore di “presunzione assoluta”, rispondente “alle situazioni obiettive ed a esigenze di equità”, nonché volto ad eliminare o, quantomeno, contenere “difficili accertamenti e numerose contestazioni”.
67 Sebbene limitatamente alle categorie di redditi B e C/1.
68 Proprio con riguardo all’uso del riferimento all’inerenza rispetto alla produzione del reddito venne osservato come il precedente “concetto “annualità passiva” come aggravio del
reddito vada attualmente modificato con inerenza alla produzione del reddito, intesa questa nel più ampio moderno concetto di attinenza alla produzione del reddito”; cfr. O.POLI, Spese, passività e
perdite nella determinazione del reddito industriale e commerciale nell’imposta di ricchezza mobile,
Bollettino Tributario, 1966, p. 384 ss. Nello stesso senso, venne altresì affermato che
“la precedente distinzione tra le spese e le passività […] non aveva alcun fondamento economico, perché tra le spese di produzione dovevano includersi anche quelle relative agli interessi corrisposti sulle somme prese a prestito”, pertanto, sarebbe stato “preferibile adottare anche nel testo unico la voce costi per entrambe quelle componenti”; cfr. A.DUS, Le “spese e passività” deducibili ai fini del calcolo del
reddito mobiliare nel nuovo testo unico delle imposte dirette, Rivista di diritto finanziario e scienza
delle finanze, I, 1958, p. 333.
rilevanza degli stessi interessi nella misura proporzionale ai proventi
assoggettabili all’imposta sul reddito
70.
Con l’introduzione di tale novellato impianto normativo si sviluppò una
riflessione, destinata ad accrescersi nel corso del tempo anche in seguito alla
riforma tributaria, in merito al rapporto tra i principi contenuti nelle norme
sopra citate (articoli 91 e 110 del suddetto Testo Unico): in specie, per un
verso, pareva rilevare il principio generale dell’inerenza degli interessi
passivi, operante, così come per ogni altra spesa della produzione, in
relazione al reddito prodotto, al fine di stabilirne la deducibilità rispetto ai
relativi proventi; per altro verso, invece, il criterio di deducibilità
proporzionale – applicabile al tempo esclusivamente ai soggetti tassati in
base a bilancio – sembrava introdurre un principio del tutto autonomo in
ordine al concorso dei medesimi interessi passivi nella determinazione della
base imponibile dell’imposta.
Ciò ha portato ad interrogarsi anzitutto sulla legittimità costituzionale del
suddetto sistema, sotto il duplice profilo degli articoli 3 e 53 della
Costituzione, posto che, sotto un primo profilo, ci si chiedeva se fosse
giustificata la differenza di trattamento tra i soggetti tassati in base a bilancio
e coloro che non erano tassati in base alle scritture contabili, assunto che per
i primi la presunzione effettuata sulla base del calcolo proporzionale di
deducibilità degli interessi passivi assumeva i tratti di presunzione iuris et de
iure, tale da non consentire né al contribuente né all’Amministrazione
finanziaria di dimostrare una “inerenza in misura maggiore” (o inferiore) di
quella risultante dalla proporzione rispetto al reddito tassabile.
Sotto un secondo profilo, veniva posta in dubbio l’effettiva idoneità di tale
sistema a individuare e (conseguentemente) ad assoggettare a imposizione la
reale capacità contributiva dei soggetti tassati in base a bilancio, sacrificando
procedure maggiormente analitiche a beneficio della semplicità
dell’accertamento
71.
70 Mediante trasfusione della precedente disposizione contenuta nel secondo comma dell’articolo 23 della legge n. 1/1956 nel dettato dell’articolo 110 del Testo Unico.
A tale dibattito ha fatto seguito l’intervento della Corte Costituzionale, la
quale ha, per un verso, confermato la legittimità della differenza di
trattamento dei soggetti tassati in base al bilancio rispetto ai soggetti non
tassati secondo le risultanze delle scritture contabili nella logica delle “diverse
condizioni di diritto e di fatto in cui si trovano i primi rispetto ai secondi”; per altro
verso, ha ritenuto giustificato il criterio di deducibilità proporzionale degli
interessi passivi rispetto alla quota di proventi imponibili, che, “così congegnato
[…] non vulnera il principio della capacità contributiva”, sancendo quindi la
coerenza di tale sistema con i richiamati principi costituzionali
72.
Alla luce di quanto parve consolidarsi nel regime dell’Imposta di Ricchezza
Mobile, il trattamento fiscale dell’indebitamento nell’imposizione diretta nel
periodo immediatamente precedente alla riforma tributaria degli anni ’70,
dunque, se da un lato aveva visto il riconoscimento degli interessi passivi
quale componente negativa del reddito in tutto assimilata agli altri costi di
produzione, dall’altra vide l’affermazione di un criterio di determinazione
dell’inerenza rispetto al reddito di tipo formale, equitativo e sintetico, quale
quello risultante dal computo della quota deducibile stabilita in proporzione
all’ammontare dei soli redditi assoggettabili alla suddetta imposta.
Tale criterio proporzionale - analogamente a quello del più recente pro rata
da esso derivato - già risultava vieppiù dettato da ragioni cautelative
dell’interesse fiscale, una volta appresa la difficoltà di appurare con certezza
la destinazione del denaro in presenza di attività o beni produttivi sia di
redditi ordinariamente imponibili sia di redditi non assoggettati all’imposta.
Può così affermarsi come la regola limitativa della deducibilità degli interessi
passivi sia sempre stata mirata ad evitare che, laddove vi fosse una possibile
A.BERLIRI, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, Milano, 1977, p. 293; L.ZAPPALÀ –F. LANZA, L’imposta sui redditi mobiliari, Napoli, 1964, p. 680; E. GIANNETTA – G. SCANDALE –M.SESSA, Teoria e tecnica nell’accertamento del reddito mobiliare, Roma, 1966, p. 605. Si esprimevano, invece, in senso opposto, L. MONTUORI, La determinazione dei
redditi nell’imposta di ricchezza mobile, Torino, 1963, p. 279; G.AMADIO, Appunti sulla
detraibilità delle spese generali e degli interessi passivi nella determinazione del reddito mobiliare,
Imposte dirette erariali, 1970, p. 447, nonché quanto affermato dalla Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza 4 dicembre 1971, n. 3521, secondo cui la regola della deducibilità proporzionale avrebbe comunque dovuto ammettere la prova contraria.