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Costruzione di relazioni e educazione interculturale

E’ aprile dello scorso anno e inizio un laboratorio di educazione interculturale in una quinta elementare di un Comune in provincia di Ferrara

In sinergia col Corso di formazione che stiamo facendo il laboratorio punta a stimolare la classe sul tema della differenza supportando i percorsi di didattica interculturale e il processo di integrazione dei bambini stranieri

Come sempre mi chiedo chi ci sarà oltre quella porta e come sempre loro staranno chiedendosi chi entrerà dalla porta

La maestra mi accoglie e come d’accordo lascia sia io a impostare il rapporto con la classe Non dico nulla e li guardo mentre loro mi guardano

E’ un inizio tranquillo, oggi raro nelle classi spesso segnate da ben altre dinamiche. Lascio che il tempo della pausa permetta di scrutarci, di far emergere qualche emozione Vedo visi curiosi, sento qualche risata, noto qualche sguardo sperso

Impossibile non soffermarsi sulle due bambine con la pelle un po’ scura vestite in modo molto colorato, immobili che mi scrutano attente e sul bambino di pelle nera che tiene il mento appoggiato alle braccia sul banco

Due occhi che mi fissano, immobili

Lascio che il suo sguardo mi entri dentro e con esso le domande che sottende, domande che gli occhi esprimono come se fossero trasparenti

Cerco la modalità opportuna per centrami su quel gruppo, narro la storia del mio avere casa in un villaggio Africano, sposto verso il “normale” ciò che appare di solito “strano”, mi connoto come “figura ponte”, io Italiano bianco narro di amicizia con Africani neri e mostro immagini che rappresentano quei mondi lontani che i bambini di altri paesi sovente ben conoscono, provenendo da là.

Ne parlo con rispetto, curiosità, affetto e racconto che la mia casa al villaggio fu costruita per invitarmi a tornare, segno e simbolo del legame che ci univa

La mia casa, là, è una capanna che abito sentendomi onorato del gesto che mi è stato fatto a testimoniarmi amicizia

Gli occhi del bambino nero chiedono meno e si collocano di più

Quando giro tra i banchi per dare a tutti la mano mi tende subito la sua e ci sorridiamo Termino le prime due ore e la maestra mi offre un caffè nell’intervallo

E’ contenta e stupita al contempo: “Mi spiega cosa è successo? John – il bambino nero – è arrivato due mesi fa e non ha mai aperto bocca rifiutandosi perfino di dire il suo nome. Oggi si è presentato, ha commentato le diapositive poi ho visto che prima è venuto da lei a offrirle un po’ della sua merenda con un sorriso grande così”

“Bè per avviare un processo di educazione interculturale occorre costruire clima, creare le condizioni affettive perchè il bambino come l'adulto si senta accettato e quindi riconosciuto nella sua specificità.

Per aprirsi all’altro occorre sentirsi sicuri, non temere di essere presi in giro, derisi, giudicati, svalutati, collocati in categorie precostituite”

Via Cà Bertacchi 9/3 - 42030 - Viano (RE) Tel/Fax 0522 858793 e – mail: teranga@tiscali.it

“Gli ho chiesto della sua famiglia, se ha visto cose che gli ricordano il suo paese e lui mi ha chiesto come mi sono trovato, cosa amo mangiare in Senegal, cosa mi piace fare.

Poi gli ho chiesto di dirmi quale è la lingua di sua madre, la lingua materna e di dirmi alcune parole in quella lingua, ho provato a ripeterle e gli ho detto di salutarmi la sua famiglia.” “Per lei che ha la sua esperienza in Africa è facile ma come posso fare io?”

“L’Africa non servirebbe a nulla se non sapessi connetterla ai ragazzi. Credo anche lei abbia vissuto qualche esperienza di accoglienza. Come si è sentita? Cosa la ha aiutata? Quali gesti? Riviva quello, lo accolga in lei e riuscirà a restituirlo. Molti adulti lo allontanano, lo dimenticano. I bambini hanno bisogno di sentirsi accolti sia che siano di Ferrara o provengano dal Ghana.

Se mettiamo la nostra persona nei protocolli di accoglienza li facciamo vivere se no restano percorsi burocratici, freddi che non creano calore, clima umano”

“Tutti i bambini sanno riconoscere il valore di un sorriso, di uno sguardo attento e non indagatore. Se è disorientata e non sa cosa fare glielo dica, si metta al loro livello … diventeranno i suoi migliori collaboratori. Noi abbiamo bisogno di loro come loro di noi e ogni bambino desidera aiutarci se ci sente vicini. Risolvere il problema dei bambini stranieri a scuola è risolvere il problema della relazione in classe tra adulti e bambini ed è soprattutto un problema di consensualità. Se partiamo dal problema risolviamo poco è meglio partire dalla persona. L’intercultura è costruzione di relazioni tra persone”

Intercultura

Mi occupo da molti anni della tematica interculturale e nella mia esperienza tanto sul territorio quanto nella scuola è consueto verificare come si ritenga che “fare intercultura” sia:

 Insegnare italiano come L2

 Attuare un protocollo di accoglienza  Allestire uno scaffale multietnico  Impiegare i mediatori

 Organizzare un serata di cucina multietnica  Organizzare una festa multiculturale ….

Secondo i paradigmi della pedagogia interculturale queste sono un insieme di importanti attività propedeutiche o di corredo ma non sono il cuore centrale dell’approccio interculturale

Se così fosse ci troveremmo davanti ad un interculturalismo senza culture cioè ad una interazione senza gli attori dell’ interagire

La pedagogia interculturale si propone come percorso, progettazione, tesa al facilitare la costruzione di relazioni tra persone per loro natura portatrici di differenze

Ma gli incontri accadono in un preciso momento e in un preciso luogo e I pregiudizi sono sempre in agguato

La storia segna gli incontri

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Nel 1986 mi trovavo nella Casamance Senegalese, sui confini con la Guinea Bissau Allora era buona norma avvisare quando si arrivava in un villaggio Guineiano.

Il recente ricordo del colonialismo Portoghese faceva sì che i ragazzini vedendo un bianco dessero dimostrazione della loro abilità nel centrare un bersaglio con le fionde.

Ricordo ancora quando girai la moto velocemente e mi detti ad una fuga precipitosa un pomeriggio in cui dimenticai di avvisare

Nei primi anni “90 arrivavano i primi “bambini di altri colori” nella scuola Fui chiamato con urgenza da una scuola per un problema di grande urgenza

In sala insegnanti arrivò una Prof.ssa tutta ansimante: “E’ arrivato un bambino Nigeriano nella mia classe. Non parla Italiano. Che devo fare?”

Tre anni fa fummo incaricati di avviare una ricerca sulla percezione dell’immigrato in un Comune del Modenese

L’allarmismo era così elevato da spingere le famiglie a recarsi dal Sindaco per dire che “Una famiglia Marocchina ha affittato un appartamento nel nostro quartiere. Come facciamo?” Come io non ebbi il tempo di dire a quei ragazzini che non ero Portoghese perché il colore della mia pelle era sufficiente a collocarmi in una categoria precostituita e molto sgradita così molti incontri tra autoctoni e migranti sono segnati dalla reciproca immagine precostituita e dagli stereotipi che la accompagnano.

Lo stigma della differenza può annullare la possibile costruzione di relazione con la persona Una attività che sovente facevamo nelle scuole elementari di Modena era quella del nuovo compagno di banco:

 Domani arriva un nuovo alunno. Chi lo vuole di fianco nel banco?  Da dove arriva?

 Dal Marocco  Qualcuno dice sì  Dall’Albania

 Quasi tutti dicono no  Dagli Stati Uniti  Tutti dicono di sì

 Perchè dite tutti di sì allo Statunitense?

 Perché è come noi. Perché non è extracomunitario. Non ne abbiamo paura

 Capisco, intanto un chiarimento: extracomunitario vuol dire che non è della Comunità economica Europea. Quindi anche uno Statunitense è extracomunitario

Ma parliamo della vostra paura

E da lì si iniziava a lavorare sui pregiudizi, riconoscendo la legittimità della paura Perché un’emozione non è né buona né cattiva

Semplicemente è e si è formata in una sua storia che la fa emergere dentro di noi

“Perché usate i confetti quando vi sposate?” mi chiedeva una mediatrice Africana a Cesena, o “Perché avete fatto così tante città e tutte sulla stessa strada qui in Emilia?” chiedevano mediatrici Marocchine a Reggio Emilia o ancora “Perché mettete i vostri padri anziani negli ospizi?” mi dicevano un gruppo di amici Senegalesi durante un incontro nel loro paese

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Ognuno è esotico agli occhi dell’altro

Queste domande sono occasioni di maggior riflessione e conoscenza della propria cultura, abitata da gesti, segni, abitudini, di cui sovente si è persa la radice, la ragione della sua presenza.

Si abita una modalità che si ritiene assoluta quando invece è relativa, storica. Una cultura è una storia, sono scelte fatte nel corso del tempo che hanno portato a connotare la nostra quotidianità così come oggi essa è

L’approccio interculturale si pone l’obiettivo di aumentare la consapevolezza verso la propria storia aumentando di conseguenza la flessibilità

Tante soluzioni avrebbero potuto portare a quel che ognuno di noi chiama “la propria identità” e tanti nuovi collegamenti possono rimodellarla come fossero fili che tessono nuove trame impreviste e contribuiscono a rompere il mutismo delle ovvietà.

Intercultura è quindi negoziare significati tenendo a riferimento il valore della condivisione (1)

Seyla Benhabib contesta l'uso che si è fatto del concetto di cultura come un insieme chiuso e immutabile. (2)

Al contrario, propone di concepire le identità culturali come negoziazione dinamica non solo nella sfera pubblica ma anche in quella privata. Per disinnescare lo scontro di civiltà, senza cadere nelle retoriche del multiculturalismo.

Il nostro sistema di vita è insidiato dal cosiddetto "paradosso della legittimità democratica": la democrazia si basa su norme universalistiche, che però valgono soltanto all'interno di una determinala comunità politica e di un territorio accuratamente circoscritto.

Che cosa sono, allora, e quale autorità possono avere quelle "norme cosmopolitiche di giustizia" che caratterizzano l'orizzonte della società civile globale?

Un tema di crescente rilievo, via via che le appartenenze tradizionali si fanno più labili e transitorie.

Benhabib chiama in causa il carattere "iterativo" della democrazia, che non è, come non è mai stata, un sistema rigido e definito una volta per tutte, ma il frutto continuamente rinnovato di negoziazioni e riformulazioni.

L’identità è sempre “l’identità dell’identità e della differenza”, in altre parole, l’identità è sempre una categoria dinamica che include la differenza, che include l’altro/a e l’alterità in sè. Questo principio è fondamentale anche per il modo in cui noi comprendiamo la cultura. La cultura giunge ad identificarsi solo passando attraverso narrative conflittuali e contraddittorie, che contengono sempre un riferimento agli “altri”.

Il “Noi” presuppone sempre un “Loro”: c’è sempre un modo in cui “Noi” facciamo le cose che è opposto al modo in cui “Loro” fanno le cose.

Molti altri autori hanno messo in luce i rischi di un eccesso di culture o di una ossessione identitaria. (3)