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Educazione e persona nella complessità Itinerari di pedagogia interculturale tra identità, alterità e riconoscimento.

Francesco Bossio – Università della Calabria

“Rientra in te stesso, è dentro l’uomo che abita la verità. [...] e se scopri la tua mutevole natura trascendi te stesso”,

Sant’Agostino, La vera religione

Il monito di Sant’Agostino all’introspezione per scoprire la verità interna a ciascuna persona è un invito a non distrarsi nelle cose futili ed esteriori, in quanto solo partendo da uno sguardo interiore autentico e disincantato possiamo ascendere alla conoscenza di noi stessi, fase propedeutica per conoscere l’altro, gli altri, il mondo esterno. Solo dopo essere riuscito a fare queste trasformazioni, secondo Sant’Agostino, l’uomo può scoprire una verità ulteriore che lo abita, ovvero la trascendenza di Dio.

L’identità, a cui ci richiama il Padre della Chiesa, connota in maniera particolare tutti quegli elementi che individuano una persona in quanto tale. Un elemento caratterizzante della persona, come vedremo più avanti, è la costante ricerca conoscitiva di questi nuclei profondi, identitari, che la segnano, anzitutto, nella direzione di zoon logon echon attraverso il logos raccogliendo il molteplice nell’unità del discorso. Questa apertura dialogica costitutiva della persona viene agita attraverso il logos in una apertura dialettica positiva di ricerca di senso, interiore anzitutto, e con gli altri in una feconda e inderogabile dimensione relazionale che, pedagogicamente definiamo cura.

Oggi molto più di ieri la società consumistica e globalizzata propone stili di comportamento ed orientamenti esistenziali che attraverso paradigmi onnicomprensivi cercano di obliare lo sforzo personale che la ricerca di se stessi, necessariamente, comporta proponendo come alternativa modelli fortemente performativi e competitivi. La cura di sé, è necessario precisare, può sussistere solo in presenza di una relazione. La cura di sé e la cura dell’altro, degli altri, possono essere esperite solo attraverso una relazione, una connessione profonda, un motus dialettico, una apertura costitutiva. Non possiamo pensare alla cura in situazioni di completa chiusura rispetto a se stessi, in condizioni di alienazione personale o di estraniazione, così, specularmente, rispetto agli altri la cura può essere offerta solo quando sussistano condizioni di relazione o di collegamento, di qualche tipo, tra sé e l’altro. E’ fondamentale il rapporto con la realtà, quella interiore, e quella esterna a sé, del mondo, degli altri e l’elemento che in primis caratterizza questa processualità è il legame profondo che la persona ha stabilito con se stessa e con gli altri. Pedagogicamente, infatti, non possiamo pensare al soggetto come capace di dare o restituire qualcosa che non ha, che non gli appartiene. Pensiamo, ad

esempio, al rapporto docente/discente, il docente può, concretamente insegnare ai suoi allievi solo ciò che conosce. Sarebbe paradossale chiedere ad un docente di insegnare argomenti che non possiede o che ignora. Allo stesso modo, la cura o la conoscenza dell’altro sarà direttamente proporzionale alla conoscenza che il soggetto avrà di se medesimo. Sarebbe irreale pensare ad un soggetto alieno a se stesso, alla sua dimensione interiore, alla sua identità, che riesca a conoscere l’altro nella sua autenticità. L’atto educativo esperito dal docente nei riguardi dei suoi allievi è un radicale processo educativo di cura che si connota, anzitutto, nella capacità del maestro di farsi carico, comprendere cǔm prehendere, prendere con sé, assumersi la responsabilità della cura dei suoi allievi, così da condurli in primis verso la conoscenza di se stessi e verso l’inculturazione.

Purtroppo, come abbiamo visto, il sociale oggi restituisce in maniera sempre più totalizzante e pervasiva l’imago atomistica del soggetto e della stessa realtà, come se solo la dimensione solipsistica e narcisistica della soggettività fosse il paradigma da adottare per vivere in sintonia con se stessi e con la società, negando, in maniera implicita la dimensione relazionale, fondamento cardine della cura. L’altro è visto sempre di più come problema da evitare, non come persona da incontrare, conoscere con cui stabilire feconde corrispondenze. Questa chiusura solipsistica porta in primis il soggetto a vivere una situazione di disagio, di estraniazione anzitutto rispetto a se stesso e poi nei confronti degli altri, della realtà circostante, del mondo intero. Negare l’altro in quanto tale e eludere le relazioni che l’esistenza continuamente restituisce è fonte di alienazione per il soggetto, di sofferenza interiore. Se questa chiusura egoica e questa dimensione di non accettazione dell’altro e della dialettica relazionale dovesse protrarsi nel tempo, ovvero essere vissuta molto a lungo, può diventare patologica e implicare anche disturbi della personalità e della mente. Copiosi gli studi e ricerche scientifiche1

indicano quale eziologia delle malattie mentali, anzitutto, disturbi di tipo relazionale2.

La relazione rappresenta un elemento costitutivo della persona, non possiamo pensare l’umano privato della galassia relazionale naturalmente collegata all’esistenza. Elemento cardine della relazione, come abbiamo visto, è la cura. Possiamo indicare due modalità principali dell’esplicarsi della cura. La prima modalità è il prendersi cura di sè, cura sui, è il passaggio, propedeutico e fondamentale, di svelamento del proprium personale, l’identità che caratterizza la persona umana come essere unico ed irripetibile. Il passaggio successivo riguarda la cura dell’altro, elemento fondamentale, come vedremo più avanti, della civile convivenza.

Pensando alla formazione umana - come processualità di crescita interiore e di acquisizione di consapevolezza di sé e degli altri, della realtà – che continuamente si

1 Vedi, D. Goldberg, I. Goodyer, Origine e sviluppo dei disturbi mentali, Centro Scientifico Editore,

Milano, 2009; D. Hales, R. Hales, La salute della mente. Riconoscere, prevenire e curare i disturbi mentali, Longanesi, Milano, 1998; F. Pellegrino, L’approccio integrato ai disturbi mentali. Linee guida e pratiche cliniche, Springer Verlag, Milano, 2011.

2 Cfr., G. Caprara, D. Cervone, Personalità. Determinanti, dinamiche, potenzialità, Cortina, Milano,

dispiega nel tempo delle stagioni della vita e nello spazio esistenziale segnato, in primis, dalle relazioni interpersonali, risulta evidente che l’educazione è anzitutto cura che consente di orientare la persona a realizzare se stessa in una direzione etica per quanto umanamente possibile.

L’incidenza dell’Altro, nel costituirsi dell’io, è quasi uno statuto dell’esistere umano, una norma dettata dalla sua stessa indole, per la quale, sottrarsi alla dimensione della relazionalità non solo significa andare incontro ad una aridità ontologica ed esistenziale ma, ancor più, morire all’ideale stesso di uomo, sottrarsi ad una di quelle componenti che rende tale l’essere umano, elevando la persona a quel mistero affascinante che egli stesso, dagli albori della sua esistenza, anela a conoscere e a rivelare più di qualsiasi altra cosa.

Emmanuel Lèvinas è il filosofo che, nella contemporaneità, ha, forse, più di tutti gli altri pensatori centrato il focus della sua speculazione su l’alterità, come elemento cardine di ogni autentica relazione umana. La reale manifestazione dell’assoluta alterità viene chiamata da Lèvinas “volto”. Noi chiamiamo “volto” il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me3. Attraverso il volto, seguendo Lévinas, l’Altro più radicale si presenta a me, entra con me in relazione ed intenziona la mia esistenza, la corrobora di senso e la investe di responsabilità. L’Altro annulla il dualismo, la dicotomia apparenza (forma)-contenuto (essenza), ma rimanda continuamente alla dimensione più autentica della persona, rivelando al tempo stesso la dimensione originaria del “medesimo”, ovvero il mio sé e quello dell’Altro, del mio interlocutore4. In altre parole, grazie all’incontro, al riconoscimento ed al confronto con

l’Altro, io posso autenticamente ascendere alla mia verità, l’essenza che mi caratterizza come persona unica ed irripetibile. Dobbiamo inoltre considerare che il contesto comunicativo in cui ci troviamo immersi ci propone incontri e relazioni sempre più fugaci ed inautentiche, problema già analizzato in precedenza, (si pensi alla rapidità delle nuove forme di telecomunicazione o al complesso mondo dei Social Network). Non è facile cercare di dipanare il bandolo della matassa, perché nel tempo della pluralità, della complessità, della globalizzazione il termine alterità spesso ci fa paura, ci spiazza, ci disorienta. E non è facile perché, quando si parla di rapporti umani, di relazioni, di incontri il rischio di rifugiarsi all’interno di luoghi comuni, di stereotipi e moralismi è sempre molto alto.

Tuttavia, c’è bisogno di parlare di relazioni, è assolutamente necessario fermarsi a riflettere sul significato che hanno i rapporti all’interno della nostra vita ed è opportuno farlo nella consapevolezza che, per quanto la modernità tenda ad esaltare il mito dell’indipendenza e dell’autosufficienza, nessuno di noi può fare a meno dell’altro da sé. Non è possibile pensare al singolo uomo senza situarlo nel contesto storico, culturale, interpersonale nel quale vive e fa esperienza del mondo; ogni forma di

3 Cfr. E. Lévinas, Totalità e infinito (1961), Jaca Book, Milano, 1996. 4 Ibidem.

chiusura agli altri non può che portare verso l’alienazione e l’impoverimento personale e sociale. “L’uomo – sostiene Martin Buber – diventa io a contatto con il tu”5. Il

riconoscimento e l’accettazione dell’altro rappresentano la prima tappa della socializzazione, dunque della formazione umana. L’incontro dell’uomo moderno con l’altro può essere storicamente ricondotto ai grandi viaggi intrapresi nel Cinquecento finalizzati a esplorare i confini del mondo, spesso però queste avventure verso l’ignoto hanno avuto come epilogo cruenti conquiste. Basti il richiamare alla memoria una data memorabile, il 1492, anno della scoperta e conquista dell’America, evento che nel volgere di pochi lustri si è trasformato in un atroce genocidio6. Partendo da questa

drammatica esperienza, l’incontro con l’altro uomo, frequentemente, è stato tragicamente segnato dalle sopraffazioni e dalle barbarie. Per la prima volta nella storia dell’umanità l’uomo si è trovato dinanzi l’altro uomo, il suo alter ego, ma purtroppo non lo ha riconosciuto nella sua alterità e lo ha combattuto ed annientato7. Il problema

che emerge, da questi eventi, ma si potrebbe ampliare il focus di osservazione a moltissimi esempi rispetto all’incontro, al dialogo, alle modalità di percepire, vedere e di interagire con l’altro, riguarda una dinamica educativa e pedagogica radicale, quella del riconoscimento. Possiamo indicare il bisogno del riconoscimento come esigenza fondamentale dell’esistenza, secondaria forse, solo all’istinto di autoconservazione. Da queste premesse possiamo affermare che pedagogicamente la scoperta dell’io, lo svelamento e l’ascesa verso la consapevolezza di sé e l’acquisizione del proprium, dell’identità unica e irripetibile della persona, così come le complesse ed articolate dinamiche del riconoscimento sono mediate dal tu, dalla relazione. Il “con” è l’elemento radicale e fondativo della relazione costitutiva dell’uomo continuamente in relazione “con” gli altri, il continuamente rimanda all’intera esistenza umana, a tutte le stagioni della vita dalla nascita fino alla vecchiaia avanzata, l’essere con gli altri, il Mitdasein heideggeriano8, struttura ontologica costitutiva, declina significativamente l’intero

processo educativo e formativo. In quanto struttura ontologica costitutiva l’essere-in- relazione appartiene, costitutivamente, all’intera esistenza con tutte le complesse dinamiche legate al riconoscimento. Attraverso questo originario e continuo essere in relazione con gli altri e attraverso il riconoscimento, fondamentale per la costituzione di me in quanto persona, che l’altro mi restituisce, possiamo facilmente dedurre che pedagogicamente è come se la relazionalità dell’altro, degli altri, autenticamente mi restituissero a me stesso, mi aiutassero a determinarmi come sé personale, nella mia identità e caratteristiche. E’ solo attraverso il tu, gli altri che ricevo i riconoscimenti che mi fanno essere, e riconoscere a me stesso, ciò che sono. Il riconoscimento o all’opposto il misconoscimento sono elementi fortemente interrelati a caratteristiche distintive della

5 M. Buber, Io e tu, in Id., Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Milano,

1993, p. 67.

6 Cfr. T. Todorov, La conquista dell’America, Einaudi, Torino, 2005. 7 Ibidem.

8 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), a cura di P. Chiodi, Utet, Torino, 19862 (1969), § 26, pp.

persona che, in misura più o meno rilevante, connotano il proprium identitario, o comunque qualità a questo interrelate. Identità e riconoscimento sono due elementi differenti che tuttavia divengono complementari, nel senso che il riconoscimento diviene una funzione simmetrica della stessa identità personale, nei termini che la stessa identità diviene concreta e reale solo attraverso il riconoscimento. Il monito socratico a conoscere se stessi non è da intendersi solo come una operazione di scavo archeologico nella propria interiorità per conoscere e quindi potersi appropriare dei nuclei più segreti e profondi di se stessi, ma è da intendere anche come la capacità di dialettizzare questo proprium identitario con gli altri al fine di mostrarlo nella sua interezza e renderlo così oggettivo, ovvero poterlo palesare agli altri e vederlo da questi riconosciuto. Il riconoscimento ha come prioritaria implicazione quella che l’identità della persona diventi, attraverso l’oggettivazione che gli altri mi conferiscono attraverso il riconoscimento, consapevolezza profonda, reale ed autentica di se stessi. Questa oggettivazione di sé (autocoscienza9), della propria identità, è resa possibile dal

riconoscimento che l’altro mi restituisce riconoscendomi nelle mie peculiarità e caratteristiche. La persona non riuscirebbe ad ascendere alla piena consapevolezza di sé, oggettivata, senza l’opera di riconoscimento dell’altro, degli altri che continuamente riconoscendomi conferiscono realtà e autenticità al mio essere e alle mie azioni. Io riesco a riconoscermi nel mio proprium, nella mia identità, in quanto l’altro mi ha riconosciuto come tale. L’altro diventa così consustanziale a me stesso, elemento fondante e costitutivo della mia identità. Così l’identità personale si ibrida con quella dell’altro, diventa intersoggettiva, così come è intersoggettiva la costituzione dell’autocoscienza. Il riconoscimento apre la soggettività all’alterità fino alla condivisione profonda dell’autocoscienza, riconoscere l’altro implica anche l’accoglierlo e rispettarlo nelle sue peculiarità e caratteristiche, conferendogli la dignità di soggetto e lo stesso statuto morale che grazie a lui riesco ad attribuire a me stesso. Il riconoscimento è quindi un processo che nasce nell’etica del rispetto dell’altro, degli altri, come di me stesso, fondamento stesso della civile convivenza.

Il problema fondamentale oggi è che pensando all’incontro, all’ibridazione tra due culture completamente diverse “il contatto non si traduce in uno scambio equilibrato – come afferma Serge Latouche – ma in un flusso continuo a senso unico, la cultura ricettiva è invasa, minacciata nella sua propria essenza e può essere considerata vittima di una vera e propria aggressione.”10 La globalizzazione dell’economia ha innescato

profondi processi di deculturazione, che come effetto principale hanno determinato una omogeneizzazione di ampie regioni del mondo rispetto alla logica dell’economia capitalistica e al suo sistema di valori socialmente condivisi. La logica di mercato e quella del profitto hanno completamente curvato la società sugli interessi economici, gli effetti dirompenti della crisi economica occidentale hanno stravolto completamente le

9 Cfr. L’autocoscienza, in G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, Bompiani, Milano, 2000. 10 S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti

economie dei singoli paesi che sono stati risucchiati nel vortice della crisi globale.11

L’aspetto più paradossale è che l’economia di mercato si fonda esclusivamente sulla produttività, restando sostanzialmente indifferente rispetto a istanze tipicamente umane come la comunicazione e la relazionalità intersoggettiva, i legami profondi, l’affettività, lo spirito di servizio, la vita stessa dell’uomo. Le esigenze reali sono quelle delle persone che continuamente si incontrano, parlano, entrano in relazione anche se sono state educate e formate in culture diverse e per questo hanno modalità differenti di vedere il mondo e di interagire con esso. “Come potrebbe prendere forma il progetto di una educazione alla cittadinanza del mondo nel programma di un’università odierna? – si chiede Martha Nussbaum – [...] Questa educazione deve essere multiculturale, deve cioè far conoscere agli studenti le caratteristiche principali della cultura tipica di altri gruppi [...] La consapevolezza della differenza culturale è essenziale per favorire il rispetto reciproco, che è a sua volta il necessario presupposto per l’instaurarsi di un dialogo produttivo. Le cause principali del rifiuto di chi è diverso sono infatti l’ignoranza e il ritenere le proprie abitudini valide per natura.”12 Se il presente ci restituisce un modello di economia globale, planetaria, perché non possiamo pensare una educazione multiculturale che ci faccia interagire, relazionare in maniera feconda e positiva, riconoscendo tutte le soggettività come persone indipendentemente dalla loro cultura di origine, ceto sociale o convincimento politico e religioso? Dalla chiusura solipsistica del soggetto, dalle sue insicurezze interiori legate ad atteggiamenti di assolutizzazione della propria imago, di matrice tipicamente infantile e adolescenziale, nasce la mancanza di conoscenza di sé, della personale identità con le peculiarità proprie, le potenzialità ma anche i limiti, e discende da questi atteggiamenti la mancanza di riconoscimento che solo la relazionalità autentica riesce a dare. Se il soggetto non riesce a conoscere se stesso, a scoprire la sua identità, non riuscirà mai a riconoscere l’identità altrui, così vedrà l’altro sempre come una potenziale minaccia alla sua integrità. Questo discorso generale trova maggiori conferme se l’altro appartiene a una cultura diversa dalla propria, proviene da paesi lontani e vive seguendo modalità esistenziali differenti da quelle soggettive, in questo caso la chiusura sarà ancora più forte, così come la barriera edificata per escludere l’altro sarà ulteriormente rafforzata. Potrebbe sembrare un discorso semplicistico oppure superficiale ma si impone per il suo realismo, il soggetto nega, disconosce l’altro, rifiuta qualsiasi contato o dialogo, perché anzitutto non conosce se stesso, la sua identità di persona unica ed irripetibile che ignora, rifiuta e disconosce. “Nel rifiuto affascinato che suscita in noi lo straniero – scrive Julia Kristeva – c’è una parte di inquietante estraneità nel senso della depersonalizzazione che Freud ha scoperto e che si ricollega ai nostri desideri e alle

11 Cfr. A. M. Baggio, P. Coda, L. Bruni, La crisi economica. Appello a una nuova responsabilità, Città

Nuova, Roma, 2009; L. Napoleoni, Il contagio. Perché la crisi economica rivoluzionerà le nostre democrazie, Rizzoli, Milano, 2012; G. Sapelli, La crisi economica mondiale. Dieci considerazioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

12 M. C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea

nostre paure infantili dell’altro [...] Lo straniero è dentro di noi. E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo «improprio» del nostro impossibile «proprio». Delicatamente, analiticamente, Freud non parla degli stranieri: egli ci insegna a scoprire l’estraneità dentro di noi. E questo è forse il solo modo per non perseguitarla fuori.”13 Pedagogicamente la relazionalità interno esterno è ineludibile in quanto è originaria e costitutiva dell’essere umano; non possiamo pensare, ad esempio, di dialogare con l’altro se non riusciamo a farlo con noi stessi, parimenti non possiamo conoscere l’altro se non conosciamo, realmente, noi stessi. Il disconoscimento, la chiusura, il rifiuto dell’altro sono l’effetto speculare della chiusura, della mancanza di conoscenza verso noi stessi. Il monito socratico, mediato dal motto delfico, “conosci te stesso”, riproposto con spiegazioni e in contesti diversi da Sigmund Freud agli inizi del Novecento, arriva fino a noi, figli della postmodernità e della globalizzazione, come un grande bisogno per sconfiggere i mali più profondi del nostro presente come la mancanza di senso, il vuoto e il nichilismo esistenziale, la reificazione e la dilagante indifferenza verso gli altri e verso i mali del mondo. Il conoscere se stessi non è un processo deterministico precostituito ma è una ricerca che dura per tutta la vita, anche se è opportuno precisare che nessuna persona riuscirà completamente a conoscere se stessa, ad ascendere pienamente alla consapevolezza della personale identità. La persona è anzitutto in contatto con se stessa, con la sua verità, ovvero con l’identità, che abbiamo indicato come verità personale, proprio partendo da se stessa intenziona la sua esistenza in una dimensione etica e valoriale che la pone in una condizione di apertura costitutiva verso l’altro, gli altri, ha una progettualità esistenziale che continuamente declina le sue azioni, operando continuamente nel totale rispetto degli altri e delle regole della civile convivenza. Da questi presupposti, l’autonomia del soggetto si esprime, anzitutto, nell’affermazione delle proprie peculiari caratteristiche che lo rendono persona tra persone. La conquista, l’ascesa, lo svelamento dell’identità portano il soggetto a interagire in maniera differente, anzitutto, con se stesso e poi con gli altri da cui viene riconosciuto nelle sue peculiarità e caratteristiche e che a sua volta riconosce. In altre parole, nel momento in cui la persona scopre la sua identità e inizia a