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1 6 Creazione come trasformazione

In nova fert animus mutata dicere formas corpora

Ovidio, Metamorfosi

A quale forma di conoscenza schiude allora la ricerca poetica, se la materia con cui ha a che fare è sempre e soltanto forma, potenzialmente distaccata dal “mondo delle idee”? Per tentare di rispondere a questa domanda, è necessario passare attraverso la definizione che Amelia Rosselli ha offerto come “formula” per la sua stessa poesia, l’espressione “post-neorealista o, meglio, post-realista”1, motivata dall’idea che il suo

lavoro di poeta fosse quello di “interpretare la realtà, non solo l’esperienza personale”2,

lasciandoci di fronte alla domanda: quale realtà? o ancora, più profondamente, che cos’è la realtà?

Questa definizione di “post-realismo” è certamente calata nel suo particolare tempo, riferendosi, evidentemente, al neorealismo italiano degli anni Cinquanta; tuttavia, riesce a evocare quella ampia e variegata costellazione di riflessioni sulla scrittura e sulla rappresentazione artistica, cui abbiamo già accennato, che sembra radicare la poesia di Rosselli nell’humus delle esperienze creative – letterarie, ma anche figurative e pittoriche – del modernismo europeo del primo Novecento. Nella definizione “poesia post- realista”, infatti, si consuma una sorta di cortocircuito, lo stesso conosciuto dal romanzo e dalle teorie sul romanzo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo (ma anche dalla pittura, se pensiamo anche soltanto all’impressionismo e al cubismo), perché si tratta di un’affermazione di realismo quale disposizione estetica ed eticadella propria poesia3, che è effettivamente valida fintantoché è “realista l’opera che l’autore

in questione pone come verisimile”4, ma che convive, tuttavia, con il riconoscimento

1 Intervista a cura di Gabriella Sica, p. 15. 2 Intervista a cura di Silvio Perrella, p. 97.

3 “Avrei voluto o vorrei definirla [la poesia, ndr] realista, se non riconoscessi in alcune delle mie ultime poesie (…)

un linguaggio ermetico” dovuto “al venire meno, contro ogni mia volontà, del mio programma.” Intervista a cura di Elio Pecora, p. 22. Si deduce che programmaticamente Amelia Rosselli intendeva fare del realismo, ma si è scoperta inevitabilmente “post-”.

4 Roman Jakobson, Il realismo nell'arte, in Tristant Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico (Torino, Einaudi, 1978), p. 98.

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di una non-coincidenza tra la propria scrittura e “i tratti tipici di una determinata corrente”5, quella neorealista appunto, del cui spirito, comunque, Rosselli si sente

intrinsecamente erede. Questo essere ‘posteriore’ al realismo, in senso non esclusivamente cronologico, questo venire dopo e oltrepassarlo non vuol dire dunque sconfessarlo, negarlo nei suoi presupposti, tantomeno implica ammettere la chiusura della letteratura in una sfera autoreferenziale da esibire o, nel migliore dei casi, lacerare, per riaprire quella via da e verso il reale avvertita come bloccata6. Sperimentare con la

parola, infatti, è di per sé un’operazione realista, che mantiene un forte valore gnoseologico, ontologico, politico e metafisico, perché coincide con un impegno formale totalizzante, in cui si incontrano la dimensione sonora e quella visuale: le stesse che danno forma all’esperienza quotidiana del vivere. Se la visualità, come abbiamo visto, è legata all’interpretazione delle parole come ideogrammi, quelli della poesia cinese, che sono in sé per sé elementi pittorici, rimanere all’interno delle lingue occidentali implica avere a che fare, prima di tutto, con il suono: ogni sperimentazione con la parola è, come abbiamo visto, uno spostamento sonoro-grafico-visuale, e sono gli scivolamenti linguistici a, nella metamorfosi potenzialmente infinita della forma, proiettare e agitare le immagini del testo.

Se, come affermava Amelia Rosselli, la parola è “mezza sommersa nell’inconscio”, sottoposta dunque a “chissà quali movimenti, quali associazioni”, perché lì stanno l’immagine e il trauma, ovvero i segni vivi dell’esperienza, mentre per metà sconfina nel conscio, dove corrisponde a “quello che mi è stato insegnato e che so io, o voglio sapere”7, esprimere la verità dell’esperienza interiore – che non è mai meramente

individuale, ma esperienza fondamentale, comune a tutti gli uomini – implica necessariamente un ri-attraversamento della forma della parola, che passi al vaglio l’intero cammino dei suoi usi nel corso del tempo, dei suoi mutamenti semantici, così come le sue relazioni con il non-detto che muove l’essere umano. Prendendo in prestito un’immagine usata da Antonio Porta, il poeta è allora un “palombaro” della lingua, ne percorre le stratificazioni e riemerge per il lettore, seguendo “l’irresistibile vocazione a

5 Ivi.

6 Questa, invece, è la prospettiva dei Novissimi e, per certi versi, anche quella pasoliniana.

7 Ancora: “La parola esiste in parte conscia, in parte no. La parola non è nell’inconscio, l’immagine lo è, il sogno

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rendere conto di queste sue discese-ascese”8. È così che, nella scrittura rosselliana,

diventa preponderante quella “competenza associativa” che, “scandalosamente”, fa convivere nel testo, in praesentia, la molteplicità di associazioni foniche, semantiche, morfologiche9 che si irradia a partire da una parola, molteplicità che viene da “chissà

quali movimenti” dell’inconscio, e, allo stesso tempo, questa parola, nel suo percorso verso l’immagine da evocare, incontra i “vari momenti della sua vita nella coscienza e nella nominazione” soggettiva e collettiva10, cioè letteraria, culturale, sociale.

Concepire la parola come forma-idea vuol dire, dunque, per il poeta, riaffermare energicamente la priorità creativa e conoscitiva della lingua, andando al di là del pensiero dello scollamento tra parola e cosa, perché scrivere presuppone lavorare con le immagini che effettivamente costituiscono la vita dell’uomo, la sua esperienza del mondo, tanto soggettiva quanto collettiva. Il problema non sta direttamente nella poesia: molto più verosimilmente, sta nella realtà – che è sempre phantasma – o nel poeta stesso, se rimane invischiato nel suo personale mondo di visioni e spettri. Dall’altro versante, per il critico che si trova di fronte ai testi rosselliani, vuol dire dimenticare la vecchia antitesi tra stile e contenuto, perché qualsiasi modificazione linguistica viene da (e coincide con) uno spostamento di idee: è essa stessa trasformazione mentale.

Amelia Rosselli costringe difatti il lettore a incontrare la poesia non già come un’affermazione dell’autore riguardo al mondo, su cui questi impone deliberatamente uno stile piuttosto che l’altro, ma, prima di tutto, come esperienza11. Le parole, dunque,

non si ammantano né vestono di uno stile, ma, in quanto forma e idea assieme, vengono scandagliate internamente, sviscerate, capovolte, ritorte, distorte, fino a mutarsi, fino ad assumere una nuova forma in cui pure perpetuano i riverberi dell’originaria – o delle

8 Antonio Porta, Nel fare poesia (1958-1985) (Firenze, Sansoni, 1985), p. 5. Ma l’immagine è già di Corrado Govoni,

nella poesia visiva intitolata appunto Il palombaro, e, poi, soprattutto, di Giuseppe Ungaretti, implicita in Il porto

sepolto (“Vi arriva il poeta | e poi torna alla luce con i suoi canti | e li disperde”). Cfr. C. Govoni, Rarefazioni e parole in libertà (Milano, Poesie, 1915), tavola 17; G. Ungaretti, L’allegria, ora in Vita d’un uomo. Tutte le poesie (Milano,

Mondadori, 2009), p. 61.

9 Stefano Agosti, La competenza associativa di Amelia Rosselli, in Id., Poesia italiana contemporanea. Saggi e interventi

(Milano, Bompiani, 1995), pp. 133-51.

10 Si tratta di una definizione fornitaci da Michail Bachtin di cui ci serviamo piuttosto impunemente per descrivere

la parola rosselliana, dal momento che Bachtin così descrive la parola romanzesca, distinguendola – proprio in virtù della sua plurivocità – dalla parola poetica, la quale incontrerebbe, nel suo percorso verso l’immagine, soltanto la resistenza dell’oggetto da esprimere, ma non quella di tutte le sfumature acquisite nel tempo dalla parola stessa, a seconda del momento e del contesto ideologico-sociale. Michail Bachtin, La parola nel romanzo, in Id., Estetica e romanzo (Torino, Einaudi, 2001), p. 85.

11 La riflessione evocata è quella di Susan Sontag, On style, in Id., Against Interpretation and other essays (London,

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originarie, in caso di fusione: metamorfosi necessaria all’instancabile ricerca del vero che è la poesia. La manipolazione della lingua implica e comporta sempre una rielaborazione del pensiero, di quelle idee e di quelle immagini che costruiscono la rete di significato in cui si muove l’uomo, nel tentativo – forse impossibile – di trovare la visione esatta, autentica del mondo, della vita, del proprio sé.

La scrittura di Amelia Rosselli si colloca, dunque, oltre il principio realista della rappresentazione, se lo intendiamo come corrispondente alla specifica scuola che storicamente ne ha acquisito il nome, nel senso che lo eccede, per risalire a quella modalità della creazione che la rivela, anzitutto, come esagerazione o raffinazione, deformazione, metamorfosi della realtà stessa: “ripetere la vita” difatti “non ha senso”, le “cose vissute” devono essere “distillate”, perché il “lavoro creativo di valore è quello che ha qualcosa di nuovo, di inatteso”12. Ed è nell’esperienza della lingua, nella sua pratica

creativa, dal momento che è sempre la lingua a evocare e a proiettare le immagini della mente nella poesia (e viceversa), che la scrittura di Rosselli rimette in gioco fino in fondo il potere trasformativo dell’espressione poetica, potere di trasfigurare la vita mediante il potere, anzitutto, di ‘variare’ – e non solo ripetere – le forme che la esprimono. In questo serissimo gioco metamorfico, diventa allora possibile vedere qualcosa che ordinariamente rimane per noi invisibile, sia anche, in definitiva, la verità fantasmatica del vivere quotidiano.

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I. 2. Lingua e memoria

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