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Poi nella cera si scarica l’utero e l’utero è poi quel cavallo, bisbetico fa sempre a modo suo e poi cavalca molto gaio e poi un’altra scossa fino a sentirsi fatto.

(…)

Poi nella gamba si chiude l’uscio e l’uscio sbarazza

i resti e il gorgo interno chiama chiama. Amelia Rosselli, Serie Ospedaliera

Il contatto tra realtà interiore e realtà esteriore, dunque, genera continuamente immagini. Inserendo la madeleine tra le ‘visioncelle’ avute in Sardegna, Rosselli ci rammenta, infatti, che ogni memoria vive dentro di noi come “ricordo visivo”, come immagine che palpita in fondo all’essere, e cerca di risalire evocata dalla casualità di una circostanza, sia essa data da un odore o un sapore, come Proust dice in Du côté de chez Swann1, o, ancora, da un suono, da una forma. Ogni esperienza vissuta si trasforma cioè

in un’immagine e, così, può depositarsi in un luogo remoto della psiche: disporsi all’esperienza del flusso del vivere consente a queste immagini di riaffiorare, per rendersi visibili. L’esperienza si rivela allora, sempre, un circuito vorticoso di impressioni e memorie riemerse, dov’è difficile discernere tra ciò che risale al pensiero dall’interiorità e ciò che, invece, effettivamente, pertiene alla realtà esterna. Come abbiamo visto, infatti, la stessa percezione è un’attività autopoietica: anche quel che proviene dal mondo subisce l’effetto metamorfico di una interiorizzazione tra corpo e mente, che è una vera e propria trasfigurazione.

1 “A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l’immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza

di seguirlo fino a me. Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento l’inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta. (…) le forme – compresa quella della piccola conchiglia di pasticceria, così grassamente sensuale sotto la sua pieghettatura severa e devota – erano scomparse, oppure, addormentate, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe permesso loro di raggiungere la coscienza.” La traduzione è di Giovanni Raboni, per Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto (Milano, Mondadori, 1983), vol. 1, pp. 57-8. I corsivi sono miei e sottolineano delle parole particolarmente importanti nelle riflessioni di Rosselli, e che possono dunque averla colpita nella lettura. Nel fondo di Viterbo si trovano infatti quattro dei volumi de la Recherche, tutti in edizione Gallimard: a mancare sono, purtroppo, Albertine disparue, Le Temps retrouvé e proprio Du côté de chez Swann. Sebbene i segni sui libri facciano pensare che Rosselli ha abbandonato la lettura a un certo punto, è comunque difficile che non avesse iniziato dal primo volume: è molto più probabile che sia andato perso.

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È, in definitiva, molto difficile rendere conto in maniera ordinata del pensiero che Rosselli coagula intorno all’immagine: vi integra il suo personale concetto di idea platonica con lo studio della percezione, intesa come processo generatore di forme, mescolando selvaticamente filosofia classica e Gestaltpsychologie, per osservarle poi attraverso la lente della psicoanalisi e della linguistica, finché ogni forma dell’esperienza va a coincidere con un’immagine psichica interiore, che è punto di incontro tra percezione (penetrazione delle cose dall’esterno all’interno) e sintomo (emersione delle immagini dall’interno all’esterno) che si reifica nella parola, intesa come ideogramma, nel senso di forma che, a sua volta, sia suono-immagine. Un pensiero eterogeneo e complesso che non ha – e non deve avere – necessariamente coerenza metodologica, perché è la scrittura poetica che, nascendo dal contatto diretto con l’esperienza, rielaborando simili spunti scientifici o pseudo-tali, crea infine un universo testuale che si rapporta direttamente alla vita, facendosene depositaria. Difatti, la letteratura, in quanto regno plasmato dall’immaginario, è da sempre il luogo in cui interrogare la realtà come esperienza al limite tra il sogno e la veglia, dove metterne in discussione la verità, e provarne la conoscibilità.

Quel che conta, più delle fonti e degli studi, è proprio la realtà di cui ci parla la sua poesia rosselliana, parimenti fatta di immagini, popolata da fantasmi, continuamente trasfigurata dalla mente. Infatti, se le forme-idee, le immagini mentali, stratificate e molteplici, che si generano incontrando il mondo, sono la sostanza dell’esperienza quotidiana, le domande che si poneva Amelia Rosselli – e che pone a noi, con la sua poesia – riguardano proprio la consistenza del nostro vivere: è dunque vero quel che viviamo ogni giorno? dove accade la realtà, dentro o fuori di noi? che cosa è natura, e che cosa è creazione della mente? 2 Come distinguere, in sostanza, la percezione da ciò

che è, invece, proiezione, ammesso e non concesso che ci sia una differenza? “Esiste molta gente, e non è tutta in me vana, o oleografica” dicono i primi due versi di una poesia di Serie Ospedaliera3. Il problema è esattamente capire di che materia sia fatto il

vivere: e potremmo rispondere, con il Prospero shakespeariano, che si tratta, forse, della stessa sostanza dei sogni. Il sospetto che attraversa la poesia è, infatti, che la mente

2 Ripropongo qui le domande che sovvengono a Massimo Stella, passando proprio attraverso la lettura di Proust,

nel suo Madreparola. Risorgenze della musa tra modernismo europeo e antichità classica (Milano-Udine, Mimesis, 2017), p. 30.

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si comporti come una lanterna magica, e che finisca per proiettare più ombre di quanta sia la luce che riceve: che l’essere umano, in definitiva, si muova in un mondo di spettri. Sono queste domande che stanno, dunque, al cuore della poesia, rappresentando sia il punto prospettico da cui il poeta guarda il mondo e parla, sia, spesso, il motivo centrale dei testi, come avviene, per esempio, nella seguente delle Variazioni Belliche, poesia che, peraltro, ci consente di aggiungere un tassello ulteriore nella comprensione dell’universo esistenziale e psicologico in cui vive l’essere umano:

Nel mondo delle idee non vi era nessun pianto, ma nella vita tutto era rosicchiato dal logorante pianto dei pipistrelli che sbattevano di qua e di là: fantasia rotta ai muri e i cantoni della casa umida di desideri inconvocabili. Se nella gigante pretesa di sapere più degli altri io mi perdevo non era per il vuoto che lussureggiava fuori della finestra ma per la pienezza che non ammetteva intralci. Convocata a battere le mani essa rialzava le barriere del vuoto e cadeva nel largo tranello del suo cuore buono. Cadevano insieme alle sue fantasie le ultime rapaci volpi del deserto. Per una perdita di fiato essa digiunava molto comodamente in una casa bislacca fatta di tranelli, vuoti d’aria, incastri e libertà: permessi al vuoto. Con il vuoto rapiva la banca il partner degli oblii.4

La poesia immette improvvisamente il lettore “nel mondo delle idee”, annunciando il tema platonico al di fuori del quale non è possibile comprendere il testo. E, infatti, là, nel mondo delle idee, dove stava l’anima prima di entrare nella vita e non esisteva corpo né desiderio, “non vi era nessun pianto”, mentre nella vita tutto si logora, tutto si piange: la poesia strappa così, violentemente, il lettore dal mondo ideale in cui l’aveva inizialmente immesso, per scaraventarlo, con l’apparizione dei “pipistrelli” che volando sbatacchiano “di qua e di là”, direttamente nella caverna del mito narrato da Platone nella Repubblica. È dunque qui che si vive l’esistenza, qui che ci troviamo, come prigionieri, circondati da ombre che si spezzano sulle pareti rocciose (“fantasia rotta ai muri”). Tuttavia, non ci sono custodi né carcerieri a muovere i burattini da cui queste ombre provengono: i fantasmi sono generati dai “desideri inconvocabili” del soggetto stesso. Infatti, da un lato il corpo esiste e si consuma, con il desiderio che continua a provocarlo e trascinarlo – a sbatacchiarlo di qua e di là, come fa il nugolo di pipistrelli

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–, dall’altro il soggetto si imbatte sempre in quel “largo tranello” che è la sua stessa ambizione a superare il contingente e il terreno in nome dell’assoluto, della verità, del bene: aspirazione alla pienezza dell’essere e, soprattutto, all’ideale che, vedremo anche in Sleep, è destinata a rimanere puntualmente frustrata. Tanto paradossalmente quanto inevitabilmente – giacché si tratta sempre di “incastri e libertà” – la vocazione al tutto si rovescia in vocazione al vuoto. Così, il soggetto non può che digiunare nell’umidità della sua casa-caverna, per vivere di “vuoti d’aria” e “oblii”5: quasi una reificazione di

quella condizione cui la psicoanalisi lacaniana ha dato il nome di manque6.

Tanto l’immagine dei “pipistrelli” quanto quella della “casa umida” sembrano, oltretutto, derivare da uno Spleen di Baudelaire.

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis, Et que de l'horizon embrassant tout le cercle Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits; Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l'Espérance, comme une chauve-souris, S'en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds pourris; Quand la pluie étalant ses immenses traînées D'une vaste prison imite les barreaux, Et qu'un peuple muet d'infâmes araignées Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux, Des cloches tout à coup sautent avec furie Et lancent vers le ciel un affreux hurlement, Ainsi que des esprits errants et sans patrie Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

- Et de longs corbillards, sans tambours ni musique, Défilent lentement dans mon âme; l'Espoir,

Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.7

5 La chiusa, “Con il vuoto rapiva la banca il partner degli oblii”, sembra alludere all'esistenza di un amante il quale

tuttavia non può compensare il vuoto, anzi, il vuoto è la consistenza stessa del suo amore e del suo ‘ratto’: difatti, dimentica ed è dimenticato.

6 Ci riferiamo in particolare alla mancanza di cui Lacan parlava in Il desiderio, la vita e la morte: “Nella prospettiva

classica, teorica, tra soggetto e oggetto c’è coattazione (…). Il soggetto deve adeguarsi alla cosa in un rapporto da essere a essere – rapporto di un essere soggettivo, ma ben reale, di un essere che sa di essere con un essere che sa di essere. Il campo dell’esperienza freudiana è in tutt’altro registro di relazioni che si stabilisce. Il desiderio è un rapporto da essere a mancanza. Questa mancanza è mancanza di essere, nel senso proprio della parola. Non è mancanza di questo o di quello, ma mancanza di essere grazie a cui l’essere esiste.” Cfr. Jacques Lacan, Il seminario.

Libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi (Torino, Giulio Einaudi, 1991), p. 283.

7 Traduzione di Luciana Frezza: “Quando il cielo basso pesa come un coperchio | sullo spirito che geme, preda

d’un tedio ininterrotto, | quando all’orizzonte abbracciando tutto il cerchio | dispensa un giorno nero più triste della notte; || quando la terra si muta in un’umida cella, | e la Speranza, come un pipistrello maldestro, | va urtando i muri con la sua ala timida | e ai soffitti marciti cozzando con la testa; || quando la pioggia svolgendo

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L’incipit di questo testo descrive lo stesso “cielo basso e pesante” che, pur assente in Nel mondo delle idee, come vedremo, è scenario ricorrente nella poesia rosselliana. Incombendo come un greve “coperchio”, gonfia di pioggia, la cappa celeste trasforma quindi la “terra” in un’“umida segreta”, dove inutilmente si dibatte la Speranza: anziché volare in alto, come un uccello, questa cozza come un pipistrello contro i “soffitti marciti” del mondo, che, infine, diventano i confini del cranio del soggetto stesso. Ritroveremo tutti questi motivi ripresi e sviluppati nella poesia in inglese di Rosselli: per ora è importante notare come la vicinanza al testo baudelairiano risieda nella comune concezione dell’esperienza terrena come clausura all’interno di uno spazio oscuro e ctonio. La “clachot humide” dello Spleen precorre, infatti, la più ricorrente ambientazione della poesia rosselliana. Lontana dal luminoso “mondo delle idee”, popolata da “fantasia rotta ai muri”, la stessa “casa umida” che ospita il soggetto diventa esplicitamente una “cella umida” in un’altra Variazione8. Il confronto con la poesia di

Baudelaire consente, perciò, di comprendere un passaggio fondamentale del discorso poetico rosselliano, perché è proprio l’offuscarsi del cielo – immagine che reifica il distacco del soggetto dal divino così come dal “mondo delle idee” – a rendere l’intera realtà umana una “cachot humide”, una cella sotterranea che è, per altro, bagnata dalle ‘strisce’ della pioggia e dal pianto dalla Speranza nel testo di Baudelaire, “rosicchiata” dal “pianto dei pipistrelli” in quello di Rosselli.

Così, la poesia non soltanto ci dice qualcosa sull’esperienza personale, di sofferenza e solitudine, del poeta. Certamente il portato biografico conta, ma non è mai tutto. La forza del testo sta soprattutto nella capacità di schiuderci una condizione che è propria

le strisce sterminate | imita le sbarre di una prigione immensa, | e accorre un popolo muto di ragni infami | che appende le sue reti dentro i nostri cervelli; || campane all’improvviso saltano su con una furia | e scagliano verso il cielo un atroce lamento, | come spiriti erranti inquieti e senza patria | che si mettano a gemere ostinatamente. || - E i carri funebri, senza tamburi né musica, | mi sfilano nell’anima in lungo e lento corteo; | la Speranza, vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica, | mi pianta nel cranio reclino il suo vessillo nero.” Cfr. Charles Baudelaire,

I fiori del male (Milano, Rizzoli, 2004), pp. 152-3.

8 “Dentro della ripida cella del Signore cantavano inni | e inni dentro della cella umida del vegliardo riposavano | i

santi. (…) Entro delle ripide celle di Dio suonava un’altra canzone” (Ibidem, p. 103). In generale, l’ambientazione interna alla “cella” ha un’altissima diffusione nelle Variazioni. Per esempio, il tema “Nella cella” si ripete due volte in Ma in me coinvenivano montagne (p. 69); ancora, “Entro della cella” si trova più volte ripreso e variato in Entro della

cella di tutte le bontà, già a partire del verso-titolo (p. 129): “Entro della cella di tutte le bontà rimava splendidamente

| un acceso vocabolario: la mia noia. (…) Entro | della cella vergine di tutte le bontà cadevano gli preti | e le donzelle coi fiori arricciuti in testa: candelabro | dei patiti di vanità. Splendida vergine!”; nella già citata Nell’elefantiasi della

giornata (p. 154) troviamo invece i seguenti giri di frase “La somministrazione | di ogni bene avveniva dentro e fuori la cella. La cellula | di tutte le freschezze si appartava desolata | nel suo vecchiume”, mentre le “occhiaie” di

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dell’essere umano: sparito il Bene, ideale e divino, che si è allontano oltre l’orizzonte terreno, questi non può che vivere in una cavità vuota9. E se la presenza di Dio è

impossibile ed è destinata a rimanere inconoscibile, se il mondo che circonda il soggetto ha la consistenza di un’ombra perché è soltanto in quanto forma che gli si può manifestare, anche l’altro, il simile, l’amato, è irraggiungibile. Difatti, in questo spazio vacante, nell’antro profondo da cui nasce il desiderio e che dal desiderio stesso è scavato, appaiono i fantasmi:

la sua solitudine è popolata di spettri, e gli spettri la popolano di solitudine. E il suo amore rumina e non può uscire dalla casa. E la sua luce vibra pertanto fra le mura, con la luce, con gli spettri, con l’amore che non esce di casa. Con lo spettro solo dell’amore, con lo rispecchiamento dell’amore, con il disincanto, l’incanto e la frenesia.10

Non sembra un caso che i fantasmi si palesino di fronte all’impossibilità dell’amore, il quale, quasi personificato, per effetto del suo desiderio inconoscibile e insaziabile, “rumina” (e rimugina) in solitudine evocando attorno a sé presenze fantasmatiche, gli “spettri” appunto, diano essi forma a memorie del soggetto o a pure fantasie. Questi ultimi versi appartengono, del resto, alla ‘variazione’ che, ne La Libellula, Rosselli esegue su H di Rimbaud, variazione in cui il tema della masturbazione e della solitudine del desiderio (“Trovate Ortensia: la sua meccanica è la solitudine eiaculatoria”) si intreccia apertamente a quello della pietas del soggetto (“ed a tutti solleva il cappellino estivo, col gesto inusitato della pietà”) in cui sta la sua aspirazione fallita alla ‘comunione’ con l’Altro. Inoltre, anche la caverna platonica di Nel mondo delle idee è ambigua, come spesso avviene in Rosselli, celando una possibile allusione all’antro, al buco, al vuoto del corpo femminile, che mai può riempirsi – l’utero, o gorgo, della poesia in esergo a questo stesso paragrafo11. Sembra dunque la mente stessa a proiettare le ombre che circondano

9 Come afferma esplicitamente l’inizio di Diaro Ottuso (p. 833): “non capì bene la vita, se no avrebbe avuto paura

della vita, invece di sfidarla, come fosse un pozzo da riempirsi. La vita è un pozzo vuoto e va rispettato il suo vuoto.”

10 La Libellula, p. 207

11 Un altro esempio, tratto dalla seconda strofa di un testo di Serie Ospedaliera, in cui confluiscono il tema del

desiderio, quello degli amanti come presenze/assenze sfuggenti e ingannevoli, e quello del mondo letterario, autoreferenziale, ipocrita, marchiato per altro da un infantile machismo – il tutto tra angoscia e ironia: “Attorno a questo corpo dalle | mille paludi, attorno a questa | miniera irrequieta, attorno | a questo vaso di tenerezze | mal esaudite, mai vidi altro | che pesci ingrandire, divenire | altro che se stessi, altro | che una incontrollabile angoscia | di divenire, altro che se | stessi nell’arcadia di un | mondo letterario che si forniva | formaggi da sé;

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il soggetto, ma solo se per mente intendiamo psiche, ovvero, quell’esperienza in cui coesistono e si confondono intelligenza, sentimento, pulsione: come mente inscindibile dal corpo, punto in cui le attività di “brain”, “heart” e “belly” convergono12.

Chi scrive poesia, allora, s’imbatte e combatte sempre con l’irriducibilità della conoscenza, che vorrebbe essere conoscenza di sé, del proprio desiderio, dell’Altro, del mondo, del bene autentico, sia esso umano, sociale, storico o metafisico. E com’è possibile anche soltanto accostarsi a una tale conoscenza, se il vivere è sempre una proiezione, se la realtà sfila intorno al soggetto come le ombre disegnate sulle pareti da una lanterna magica?

Quest’ultima non soltanto è evocata indirettamente nel mito della caverna, ma, in effetti, è presente negli scritti giovanili, quelli in francese, dov’è probabile che arrivi filtrata, anch’essa, dal testo proustiano – la lanterna magica compare infatti in diversi occasioni ne La recherche: in particolare, sia nel primo capitolo de Du côté de chez Swann, dove il gioco di ombre è usato come diversivo e calmante per il piccolo Marcel, benché abbia già un effetto inquietante, rendendo straniante e unheimlich lo spazio familiare della stanza di Combray, sia nell’episodio del ‘bal des têtes’ ne Le temps retrouvé, quando la visione della metamorfosi indotta dalla vecchiaia porta Marcel a pensare il corpo come ciò su cui il tempo diventa visibile, proiettandovi appunto la sua lanterna magica13.

Come se il gioco d’ombre diventasse, pian piano, il paradigma attraverso cui esperire un reale che è sempre metamorfosi, trasfigurazione, deformazione, di fronte al quale, più che la conoscenza, rimane un perenne tentativo di riconoscimento, o ‘ri-cognizione’ – parola che incontreremo nei prossimi capitoli. Ancora, pur mettendo da parte l’eventuale influenza di Proust, il teatro d’ombre è un’antichissima forma d’arte cinese e, arrivati a questo punto, sappiamo quanto la cultura orientale sia stata d’ispirazione per la giovane Rosselli.

Amelia Rosselli fa dunque riferimento alla lanterna magica soprattutto in due luoghi, entrambi contenuti nei Primi Scritti: in Diario in tre lingue, dove la “Lanterne Magique” fa una fulminea apparizione, per rimanere senza espliciti sviluppi – se non che, sappiamo

sentendosi | combattere, nelle vacue cene | da incontrollabili istinti | di predominio: logori fanciulli | che stiravano altre membra | pulite come il sonno, in vacue | miniere.” Serie Ospedaliera, p. 303.

12 Si tratta dei temi intorno a cui ruota la poesia della seconda parte di Sleep, di cui parleremo nella terza sezione

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