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Crisi dell’impresa, trasferimento d’azienda e rapporti di lavoro

1. La disciplina

La disciplina nazionale in tema di trasferimento d’azienda delle imprese in crisi delineata all’art. 47 della legge n. 428 del 1990326 sottolinea la volontà del legislatore di costituire un quadro di regole differente rispetto a quello, preliminarmente descritto, applicabile nelle generali ipotesi circolatorie delle aziende in situazione di solidità economica e relativamente ai rapporti di lavoro327.

La citata disciplina ha colmato un quadro legislativo scarno costituito prevalentemente da interventi sporadici e regolamentazioni specifiche e particolari328.

È un microsistema normativo, dotato di consistenza propria, nato per soddisfare scopi differenti rispetto a quelli delineati dall’art. 2112 c.c.329 ovvero, come un “sotto-sistema”, governato da regole difformi

da quelle del codice civile.

La scelta iniziale di disciplinare in maniera compatta tutte le ipotesi circolatorie dell’impresa in situazione patologica è stata ritenuta, in dottrina, utile per il fatto di raccogliere in maniera organica la disciplina del diritto c.d. “dell’emergenza”.

326 Applicabile alle imprese in cui sono complessivamente occupati più di quindici

dipendenti.

327 A. Boscati, Il trasferimento di aziende in crisi al vaglio della Corte di Giustizia,

in Lav. Giur., 1996, p. 455.

328 Es: legge n. 215 del 1978 prevedeva la legittimità della riassunzione, anche solo

parziale, dei lavoratori da parte dell’acquirente.

329 R. Romei, Il rapporto di lavoro, op.cit., p. 216; P. Lambertucci, La disciplina del

trasferimento dell’azienda in crisi al vaglio della Corte di Giustizia, in Riv. It. Dir. Lav., 1996, p. 261.

La specialità si intravede nel fatto che l’insieme di regole altamente protettivo degli interessi dei lavoratori applicabile in ipotesi di trasferimento d’azienda e delineato all’art. 2112 c.c. è derogabile da parte della contrattazione collettiva nelle ipotesi in cui siano ravvisabili gli estremi della crisi d’impresa e la vendita dell’azienda consenta la salvaguardia (almeno parziale) dei livelli occupazionali. Per cui, quando il trasferimento riguarda aziende decotte, il legislatore interno, in linea con quello comunitario, permette, a specifiche condizioni, di poter derogare alla disciplina lavoristica delineata dal codice civile.

Il costante adeguamento della legislazione nazionale al diritto dell’Unione Europea ha portato a differenziare la regolamentazione del trasferimento d’azienda in base alla specificità in cui versa l’impresa, cioè lo stato di crisi330.

Il sacrificio subìto, sul piano delle garanzie individuali, da parte lavoratori subordinati coinvolti è superabile grazie al prioritario beneficio collettivo individuato nella possibilità di mantenere, anche parzialmente, i livelli occupazionali.

Il legislatore ha cercato di agevolare la commerciabilità dell’imprese invogliando gli acquirenti ad acquistare l’azienda in stato di dissesto “libera” dagli obblighi relativi al mantenimento dei rapporti di lavoro che nella disciplina “generale” si trasferirebbero automaticamente con la cessione.

Emerge la dicotomia tra gli interessi tutelati nel trasferimento d’azienda in buona salute rispetto a quelli protetti nel caso di azienda in stato di dissesto.

Nella prima ipotesi, è chiaro che la disciplina persegue la tutela dei diritti individuali dei lavoratori ceduti, mentre nella seconda fattispecie, quella ora in analisi, il fine ultimo è quello di agevolare il

salvataggio dell’azienda e tutelare l’occupazione non più sotto un profilo individuale, ma in vista di un interesse collettivo.

Al fine di agevolare l’acquisto e il salvataggio dell’azienda, l’art. 47 della legge n. 428 del 1990 (commi 4° bis, 5° e 6°) prevede alcune deroghe alle garanzie in favore dei lavoratori descritte nel capitolo precedente.

Deroghe che consistono in un affievolimento dello statuto protettivo dei lavoratori pur sempre subordinate al raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali331 a favore quindi di una gestione contrattata della crisi aziendale.

2. Evoluzione della normativa alla luce delle Direttive comunitarie

Al silenzio iniziale del legislatore italiano si è affiancato, per lungo tempo, il silenzio del legislatore comunitario.

La direttiva 77/187/CEE che, come noto, ha regolamentato il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, o ramo di essa, non disciplinava gli effetti che le vicende traslative, aventi ad oggetto imprese in situazione di difficoltà economica e finanziaria, potessero avere sui rapporti di lavoro.

Pertanto, in ambito comunitario ebbe fondamentale valore l’opera interpretativa della Corte di Giustizia per verificare se ed in quali termini la Direttiva medesima fosse applicabile anche a tali fattispecie. Nel corso degli anni ‘80 la Corte di Lussemburgo emanò una serie di sentenze fondamentali tra le quali si ricorda sicuramente la sentenza

Abels332 con la quale ha ritenuto non applicabile l’art. 1, n. 1 della

331 M. Marazza-D. Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore,

Giappichelli Editore, 2015, p. 46.

Direttiva alle vicende traslative di un’impresa in una situazione in cui il cedente sia stato dichiarato fallito333.

In questo modo la Corte ha stabilito che, nell’ambito delle imprese sottoposte a procedure concorsuali che perseguono finalità esclusivamente liquidatoria, fosse possibile derogare totalmente alle tutele previste per i singoli lavoratori dalla Direttiva334.

Conseguentemente invece, ha incluso nella protezione della Direttiva i casi in cui i trasferimenti siano effettuati nell’ambito di imprese sottoposte a procedure concorsuali che non abbiano una finalità liquidatoria, ma che, al contrario, consentano la prosecuzione dell’attività d’impresa.

La Corte è pervenuta a tale conclusione non solo sulla base di una interpretazione letterale della norma che non menziona le procedure concorsuali, ma soprattutto in base alla ratio stessa della Direttiva: impedire che la ristrutturazione del mercato venga effettuata a danno dei lavoratori delle imprese coinvolte.

Conclusione giustificata dalla specificità del diritto fallimentare, che proprio per la particolarità dei suoi obiettivi, spesso deroga alle previsioni normative poste a tutela dei lavoratori producendo un passaggio dalla protezione del posto di lavoro alla tutela, anche parziale, dei livelli occupazionali335.

In un’altra rilevante pronuncia, la sentenza D’Urso336, la Corte di

Giustizia ha affermato l’applicabilità delle norme della Direttiva qualora, nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, sia disposta la continuazione dell’attività produttiva.

333 Quindi solamente nel caso in cui “nell’ambito di un provvedimento fallimentare

mirante, sotto il controllo della competente autorità giudiziaria, alla liquidazione dei beni del cedente”.

334 P. Lambertucci, Il trasferimento di azienda in crisi, in Lav. Giur. 2010 speciale,

p. 67.

335 G. Gaudio, Trasferimento d’azienda e crisi d’impresa: una eterogenesi dei fini

da parte del legislatore italiano, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, 347-

2017.

Il punto che discrimina l’applicabilità o meno della Direttiva nelle vicende circolatorie d’azienda o rami d’azienda di imprese colpite da dissesto economico è l’obiettivo perseguito dalla procedura concorsuale stessa.

Se la procedura concorsuale ha una finalità strettamente liquidatoria e non sia stata disposta o sia cessata la continuazione dell’attività d’impresa, allora la Corte esclude l’applicazione della Direttiva. Al contrario, nei casi in cui il dissesto abbia aperto una procedura concorsuale nella quale sia stata disposta la prosecuzione dell’attività imprenditoriale con l’obiettivo del risanamento e del riequilibrio dello stato patrimoniale in vista della futura ripresa la fattispecie non potrà che essere collocata nell’ambito di applicazione della Direttiva. Nella sua originaria formulazione l’art. 47, comma 5°, prevedeva che il raggiungimento di un accordo sindacale finalizzato al mantenimento, anche parziale, del livello occupazionale aprisse le porte alla disapplicazione dell’art. 2112 c.c. (per i lavoratori che continuassero il proprio rapporto di lavoro con l’acquirente) per le ipotesi in cui si avesse trasferimento d’imprese in relazione alle quali il Ministero del lavoro337 avesse dichiarato lo stato di crisi aziendale secondo quanto disposto dall’art. 2, comma 5°, lett. c) della legge 12 agosto 1977 n. 675; ovvero nelle ipotesi in cui il trasferimento riguardasse imprese nei confronti delle quali vi fosse stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo (consistente nella cessione dei beni), emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero sottoposizione ad amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi nel caso in cui la continuazione dell’attività non fosse disposta o fosse cessata.

337 A seguito della soppressione del CIPI (Comitato interministeriale per il

coordinamento della politica industriale) sono state attribuite al Ministro del lavoro e della previdenza sociale le competenze in materia di trattamento straordinario di integrazione salariale.

È necessario sottolineare come la disposizione assimilasse le procedure concorsuali con finalità liquidatorie alle ipotesi di “crisi d’impresa”.

Per questo motivo più di un autore338 ha dubitato, fin da subito dopo l’entrata in vigore della legge n. 428 del 1990, della compatibilità di quest’ultima con la disciplina comunitaria la quale utilizzava come criterio utile da seguire per la applicazione o meno delle tutele previste a favore dei lavoratori, la finalità stessa della procedura concorsuale.

Inoltre, tali autori sottolineavano la minore gravità della situazione di crisi aziendale rispetto a quella di insolvenza, pacificamente irreversibile e che per questo mal si conciliava con la predisposizione di una ugual disciplina.

Nonostante una parte minoritaria della dottrina cercasse di salvare la normativa interna evidenziando quale fosse lo “spirito” della Direttiva339, la giurisprudenza comunitaria tendeva a sottolineare la difformità delle discipline.

L’assimilazione delle due situazioni di dissesto fu il motivo per cui la Corte di Giustizia con la sentenza Spano340 ritenne che l’art. 47 fosse

incompatibile con la Direttiva comunitaria 77/187/CEE che consente di non applicare le regole delineate per la protezione dei lavoratori a seguito del trasferimento d’azienda(ed in particolare la tutela del diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con il cessionario) solo in caso di procedure concorsuali con scopo liquidativo del patrimonio del cedente, non contemplando le ipotesi di crisi dichiarate da un

338 M. De Luca, Salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento

d’azienda: “funzione” del diritto comunitario e della giurisprudenza della Corte di Giustizia nella interpretazione ed applicazione della nuova disciplina nazionale, in Foro.it 1991, p. 299; R. Foglia, Trasferimenti di azienda ed effetti sui rapporti di

lavoro, in Mass. Giur. Lav. 1991 p. 337.

339 R. Romei, Il rapporto di lavoro, op.cit., p. 216.

340 Con ordinanza del 2 dicembre 1993 il Pretore di Lecce ha sollevato la questione

pregiudiziale in relazione alla conformità o meno delle disposizioni contenute nei commi 5° e 6° dell’art. 47 rispetto alla direttiva 77/187. In risposta: Corte Giust.,7 dicembre 1995, C-472/93, in Mass. Giur. Lav., 1996, p. 225.

provvedimento amministrativo che consentissero il proseguimento dell’attività d’impresa (con il conseguente e prioritario interesse al mantenimento dell’occupazione). La Corte in quest’ultimo caso, considerava imprescindibile l’applicazione della Direttiva.

In particolare, la fattispecie sottoposta al vaglio del Giudice comunitario vedeva un’impresa che aveva ottenuto l’ammissione alla CIGS. In tale caso la Corte non ritenne ammissibile alcuna deroga rispetto alla Direttiva del 2001 perché in tale situazione di crisi aziendale il procedimento “lungi dal tendere alla liquidazione

dell’impresa, mira al contrario a favorire la prosecuzione della sua attività nella prospettiva di una futura ripresa”.

La Corte, inoltre, sottolineò che in tale situazione non è previsto alcun controllo continuo da parte dell’autorità competente, né alcun provvedimento con il quale venisse disposta l’amministrazione controllata, né tantomeno una sospensione dei pagamenti.

Il contrasto tra la normativa italiana e quella comunitaria ha dato avvio ad un dibattito dottrinale e giurisprudenziale soprattutto tra coloro341 che evidenziavano la necessità di interpretare la normativa italiana alla luce dei chiarimenti forniti dalla Corte di Giustizia ed altri che, come è stato poi recepito anche dalla Cassazione342, invece

propendevano per l’efficacia solamente verticale delle Direttive comunitarie e quindi la piena applicazione della disciplina interna (seppur contrastante).

Contrasto poi mitigato dall’introduzione della Direttiva di seconda generazione 98/50/CE (poi interamente trasfusa nella successiva 2001/23/CE) che ha cercato di recepire gli esiti della giurisprudenza comunitaria in tema di individuazione della fattispecie del trasferimento d’azienda.

341 C. Cosio, La Corte di Giustizia censura la normativa nazionale in materia di

trasferimento d'impresa in crisi, in, Lav. Giur. 2009 p. 113.

342 Cass.21 marzo 2001, n.4073, in Riv. It. Dir. Lav., 2002, p. 114; Cass.26 maggio

2006, n. 12573, in Riv. It. Dir. Lav., 2007, p. 179, con nota di F. Notaro,

Trasferimento dell’azienda in crisi e derogabilità all’art. 2112 c.c. in sede collettiva.

Per alcuni343 questa seconda Direttiva ha medio tempore “sanato” il

contrasto della normativa italiana344 attraverso l’introduzione di un

articolo ad hoc, l’art. 4 bis, divenuto poi art. 5 della Direttiva del 2001, in cui il Legislatore comunitario ha distinto tre ipotesi riconnettendovi conseguenze diverse in ordine al mantenimento delle garanzie individuali345.

La prima ipotesi è quella in cui il trasferimento d’azienda riguarda imprese soggette a procedura fallimentare o a procedura di insolvenza analogamente aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente. In tal caso, come precedentemente delineato, si prevede che siano disapplicabili integralmente tutte le tutele individuali previste, generalmente, in caso di trasferimento d’azienda, salvo la possibilità per gli Stati membri di prevedere una disciplina più favorevole.

Pertanto, la Direttiva comunitaria facilita la circolazione sul mercato ammettendo la disapplicazione integrale della tutela delineata dall’art. 2112 c.c., soprattutto quella delineata a favore della prosecuzione automatica dei rapporti di lavoro al cessionario. È una disciplina simile a quella prevista dall’art. 47, comma 5°, della legge n. 428 del 1990, ma, a differenza della prima, quest’ultima contempla una protezione ulteriore che consiste nel subordinare la derogabilità delle tutele al raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali346.

La seconda fattispecie integrata dalla Direttiva del 1998 riguarda le ipotesi in cui la procedura di insolvenza sia aperta nei confronti del cedente sotto il controllo di un’autorità pubblica competente347,

343 L. Menghini, L’attenuazione delle tutele individuali dei lavoratori in caso di

trasferimento d’azienda in crisi o soggetta a procedure concorsuali dopo la direttiva 50/98 e il d.lgs. 270/99, in Riv. Giur. Lav., 2000, p. 229.

344 G. Santoro Passarelli, Il rapporto di lavoro, op.cit., p. 82; A. Pizzoferrato, La

disciplina lavoristica del trasferimento d’azienda in crisi nel nuovo scenario interpretativo, Lav. Giur., 2002, p. 257.

345 M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione, op.cit. p. 222; P. Lambertucci, Il

trasferimento di azienda, op.cit., p. 68.

346 M. Marazza-D. Garofalo, op. cit., p. 48. 347 Ad esempio il curatore fallimentare.

indipendentemente dalla sua natura liquidatoria e consente agli Stati membri di decidere di non trasferire al cessionario gli obblighi che il cedente aveva prima della cessione e che sono previsti dall’art. 3, par.1, della Direttiva del 2001, purché sia assicurata una tutela equivalente a quella prevista alla direttiva 80/98/CEE (che concerne la tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, in virtù della legislazione dello stato membro)348.

La terza categoria di ipotesi si delinea, per la Direttiva, in tutti i trasferimenti d’azienda che riguardino imprese soggette a procedure concorsuali non liquidatorie, ma conservative.

In questo caso la Direttiva consente agli Stati di affidare alla contrattazione tra le parti e le rappresentanze sindacali, l’identificazione di deroghe alla disciplina protettiva, ammettendo “modifiche alle condizioni di lavoro per i lavoratori coinvolti, volte a

salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa o di una sua parte”349.

La Direttiva al 3° comma dell’art. 5 ammette che la possibilità di pattuire convenzionalmente modifiche alle condizioni di lavoro in deroga all’art. 2112 c.c. sia possibile non solo in presenza di trasferimenti di imprese soggette a procedure concorsuali (a prescindere dalla finalità liquidatoria), ma anche nei casi in cui l’impresa versi in una “…situazione di grave crisi economica quale

definita nel diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da una Autorità Pubblica e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni fossero vigenti nel diritto nazionale il 17 luglio 1998”350.

Nonostante, come anticipato, parte della dottrina sostenesse che la Direttiva in questione abbia in qualche modo avvicinato la disciplina italiana a quella comunitaria, dubbi rimasero sulla conformità del

348 Art. 5 n.2 lett. a). 349 Art.5, n. 2, lett. b). 350 Art.5, n. 3.

nostro ordinamento rispetto ai profili già evidenziati dalla Corte di Lussemburgo nel 1995 perché il comma 5° dell’art. 47 (prima delle modifiche introdotte nel 2009) prevedeva che nelle ipotesi in cui il trasferimento avesse ad oggetto un’impresa sottoposta a procedura concorsuale non liquidatoria o coinvolta in una situazione dichiarata di crisi aziendale, con un accordo sindacale, le parti potessero deliberare la totale disapplicazione dei diritti delineati all’art. 2112 c.c. quando, invece, la Direttiva ammette sole “modifiche alle condizioni

di lavoro”351.

L’art. 47, comma 5°, nella sua precedente formulazione non si limitava a prevedere la deroga al principio di conservazione dei diritti, ma permetteva la disapplicazione della tutela principale, ovvero del principio di continuità dei rapporti di lavoro.

Nonostante un apparente avvicinamento, quindi, la dottrina352 continuava ad evidenziare incompatibilità evidenti nella mantenuta assimilazione dell’ipotesi della crisi d’impresa a quella delle procedure concorsuali non conservative. Una siffatta ricostruzione finiva per accomunare tra loro situazioni assolutamente non assimilabili e cioè fattispecie irreversibili volte alla liquidazione dei beni con fattispecie reversibili di semplice crisi finalizzate al risanamento dell’impresa.

Infatti, le pur significative innovazioni contenute nella Direttiva comunitaria non appaiono di agevole lettura.

2.1. La sentenza di condanna della Corte di Giustizia In linea con tale orientamento, essendo rimasta invariata la disciplina interna, la Corte di Giustizia nel 2009353 ha condannato l’Italia

351 Ammettendo una totale disapplicazione solo nelle ipotesi di imprese soggette a

procedure concorsuali che abbiano lo scopo della liquidazione dei beni.

352 U. Carabelli- B. Veneziani, Il trasferimento d’azienda, op.cit., p. 354.

353 Corte Giust. 11 giugno 2009, C-561/07, Commissione vs. Repubblica Italiana in

Lav. Giur., 2009 p. 1125 con nota di R. Cosio, La Corte di Giustizia censura la normativa nazionale in materia di trasferimento d’impresa in crisi.

ritenendo che le disposizioni dell’art. 47, 5° e 6° comma contrastassero con la Direttiva del 2001 ed ha ricordato che quest’ultima prevede la disapplicazione delle garanzie previste in caso di cessione d’azienda solo quando il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o similare aperta in vista della liquidazione dei beni. In questo modo la Corte ha sancito che “la Repubblica italiana è

venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tale direttiva”354.

A fronte delle argomentazioni difensive con cui lo Stato italiano aveva sostenuto la legittimità della disapplicazione della Direttiva del 2001, la Corte ha osservato come il Legislatore comunitario non abbia mancato di prevedere espressamente casi in cui “ha voluto escludere

l’applicazione degli artt. 3 e 4 della Direttiva 2001/23” ed in

particolare che la disapplicazione dell’art. 2112 c.c. portata dall’art. 47, commi 5° e 6°, della legge n. 428 del 1990, non potesse trovare fondamento nella disposizione di cui all’art. 5 della Direttiva355. In sostanza ha ribadito che la circolazione dell’azienda deve essere incentivata grazie alla derogabilità delle garanzie concesse ai lavoratori, ma solamente quando l’azienda si trovi in una situazione tale per cui l’unica alternativa al trasferimento è l’estinzione della stessa.

Inoltre, statuisce che tali procedure devono svolgersi sotto il controllo dell’autorità pubblica competente.

Continua precisando che il comma 5° dell’art. 47, così formulato, ha l’effetto di privare i lavoratori delle garanzie loro offerte dalla Direttiva, per questo non può essere considerata una disposizione più favorevole per i lavoratori.

Infine, precisa che la modifica delle condizioni di lavoro autorizzata dalla Direttiva nelle ipotesi di apertura di procedure concorsuali

354 Punto 51, Corte Giust. 11 giugno 2009, ibidem.

355 L. Lama, Il trasferimento di azienda in crisi tra ordinamento comunitario e

conservative o in relazione alla cessione di aziende in imprese destinatarie del provvedimento di ammissione alla CIGS per crisi aziendale, presuppone in ogni caso che il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro abbia già avuto luogo.

Può ritenersi pienamente conforme al dettato comunitario, quanto delineato dal nostro ordinamento in relazione al fallimento ed alle altre procedure concorsuali con finalità liquidative in cui non sia stata disposta o sia cessata la continuazione dell’attività d’impresa; al contrario non si ritiene corretta la totale disapplicazione delle garanzie individuali ammessa per le procedure conservative e per le situazioni di crisi aziendale.

Si parte anche dal presupposto che la “crisi aziendale di particolare rilevanza sociale” non può equipararsi alle procedure di insolvenza disciplinate dal diritto interno, anche per il fatto che, come ha sottolineato la giurisprudenza comunitaria, il provvedimento di ammissione alla CIGS non implica alcun controllo giudiziario da parte dell’autorità competente356.

La Corte infine, esclude che lo stato di crisi aziendale legittimi una

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