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I rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda

1 Disciplina

1.1. Premessa

Se in un paese il tasso di disoccupazione è alto, il dibattito sulle problematiche scaturenti dal trasferimento d’azienda, è destinato a riaccendersi. L’istituto del trasferimento, per gli interessi coinvolti, finisce per essere il risultato della “variabilità normativa”, tanto che le numerose modifiche apportate nel tempo al testo della disposizione codicistica art. 2112 c.c. risultano espressione della stretta relazione tra la normativa statuale e quella comunitaria.

Il compito del legislatore è quello di trovare una giusta collocazione a valori di analoga importanza, ma contrastanti. E tale collisione di valori spesso si verifica in materia giuslavoristica in quanto l’attività lavorativa non può prescindere dall’esistenza dell’impresa, dovendosi in essa dispiegarsi necessariamente.

Da qui l’importanza di un contemperamento tra un diritto che, da un lato, rispetti e tuteli la dignità del lavoratore e, dall’altro, garantisca la libera iniziativa economica privata dell’imprenditore nel gestire la propria azienda, con proprie modalità di organizzazione produttiva. Il che porta a comprendere le difficoltà interpretative che hanno caratterizzato, in sede dottrinaria e giurisprudenziale, la lettura di tale istituto.

Le modifiche della titolarità di un complesso aziendale portano a numerose conseguenze giuridiche che coinvolgono non soltanto cedente e cessionario, ma anche i rapporti individuali di lavoro, e

quindi, i lavoratori. Intatti, per questi ultimi non è irrilevante chi sia il datore di lavoro, in quanto il passaggio automatico dei rapporti di lavoro che si realizza ope legis a seguito del trasferimento in capo al cessionario, può comportare un peggioramento delle condizioni di lavoro sia sotto un profilo fattuale, sia giuridico.149

Proprio per questo il legislatore ha predisposto una disciplina che è volta a tutelare i lavoratori e che ha subito nel tempo diverse modifiche anche per influsso del diritto comunitario150.

1.2 Evoluzione storica della normativa interna e comunitaria La normativa che regola il trasferimento d’azienda è regolata all’art. 2112 c.c. e all’art. 47 legge n. 428 del 1990 sui quali hanno inciso sensibilmente il d.lgs. n. 18 del 2001 e l’art.32 del d.lgs. n. 276 del 2003 (quest’ultimo corretto dall’art. 9 del d.lgs. n. 251 del 2004). Un itinerario normativo che è stato fortemente influenzato dall’intervento delle direttive comunitarie (Direttiva 77/187/CEE e direttiva 98/50/CE, trasfuse nella direttiva 2001/23/CE che non ha apportato modifiche sostanziali, ma solo riorganizzato la disciplina in materia).

La risposta dell’ordinamento italiano alle sollecitazioni provenienti dalle norme comunitarie è giunta, con ritardo, grazie all’art. 47 della legge n. 428 del 1990 che ha sostituito i primi tre commi dell’originaria versione dell’art. 2112 c.c. introducendo un procedimento volto al coinvolgimento delle rappresentanze sindacali nella vicenda circolatoria.

149 G. Vidiri, Il trasferimento d’azienda: un istituto sempre in bilico tra libertà

d’impresa (art. 41 Cost.) e diritto del lavoro (artt. 1 e 4 Cost.), in Il corriere giuridico 7/2018.

150 M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro, somministrazione, appalto, distacco, trasferimento d’azienda, Giappichelli, Torino,

Un altro pregio della novella del 1990 fu quello di stabilire che il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé un giustificato motivo oggettivo che può essere addotto a fondamento del licenziamento; in secondo luogo, si è visto un incremento della protezione creditoria dei lavoratori attraverso la costituzione di un regime di responsabilità solidale tra cedente e cessionario per i crediti dei dipendenti a prescindere dalla conoscenza che di questi il cessionario poteva avere grazie alle scritture contabili e ai libretti di lavoro.

Come vedremo, altre sono state le garanzie introdotte dalla riforma del 1990, ma si dovette aspettare il d.lgs. n. 18 del 2001 per ottenere una ricostruzione legislativa della definizione di trasferimento d’azienda (e di ramo d’azienda).

Sull’impostazione delineata dal legislatore del 2001 si è poi inserito l’ulteriore intervento normativo delineato dall’art. 32 d.lgs. n. 276 del 2003 che fu uno strumento con il quale l’ordinamento si è adeguato ad esigenze di flessibilizzazione provenienti dal mercato imprenditoriale. Tale ultima novella ha inciso sulla nozione di trasferimento d’azienda, ma soprattutto ha apportato modifiche apparentemente rilevanti all’art. 2112 c.c. in relazione alla cessione di un segmento aziendale.

In particolare, la “Riforma Biagi” ha eliminato ogni riferimento esplicito ai requisiti della preesistenza e della conservazione dell’identità del ramo ceduto nell’operazione traslativa.

In questa sede sono state segnalate le tappe fondamentali dell’evoluzione normativa in materia di trasferimento d’azienda, nel prosieguo della tesi saranno singolarmente trattate e approfondite le questioni qui solo accennate.

1.3 Eterogenesi dei fini del nuovo art. 2112 c.c.

L’art. 2112 c.c. disciplina la sorte dei rapporti di lavoro nel caso in cui l’azienda, o un segmento di essa, sia trasferita a un nuovo imprenditore. Il legislatore appronta una tutela finalizzata a rendere il rapporto di lavoro impermeabile, insensibile alle vicende circolatorie dell’azienda. In tale ottica l’art. 2112 c.c. prevede che “in caso di

trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”

assicurando, cosi, il passaggio automatico dei lavoratori al nuovo titolare.

Il nuovo imprenditore cessionario, quindi, subentra nella titolarità dei rapporti di lavoro ope legis senza che possa assumere rilevanza la diversa volontà del lavoratore ceduto (infra).

Ne consegue, come vedremo, che l’unica garanzia posta per il lavoratore è quella di recedere con preavviso.

Alla continuità del rapporto si aggiunge la previsione per cui il lavoratore conserva tutti i diritti maturati presso il cedente e tali diritti trovano una tutela rafforzata nel fatto che di essi rispondono in solido cedente e cessionario.

Prima di analizzare nel dettaglio il campo di applicazione della disciplina codicistica e le ricadute che l’istituto del trasferimento ha nella sfera dei rapporti di lavoro, si evidenzia il mutamento della ratio ispiratrice dell’art. 2112 c.c. rispetto alla vocazione originaria che prevedeva il legislatore del ‘42.

Dopo tre interventi novellatori, l’art. 2112 c.c. continua ad essere il cuore della disciplina, ma con una ratio ispiratrice fortemente mutata. Nella sua originaria formulazione la norma si limitava a fissare il principio in base al quale, in deroga a quanto stabilito nell’art. 1406 c.c., in caso di trasferimento d’azienda i rapporti di lavoro transitavano in capo al cessionario insieme al complesso aziendale

senza alcun dovere di passare attraverso una procedura di consultazione sindacale. Questo significava andare a tutelare meramente l’interesse del datore di lavoro alla prosecuzione della funzionalità dell’azienda e lasciare ai lavoratori l’unica garanzia consistente nel regime di solidarietà previsto tra cedente e cessionario per i crediti lavorativi già maturati e che risultassero evidenti dalle scritture contabili o dal libretto di lavoro. 151

Fino agli anni ‘60, la disciplina non bilanciava gli interessi in gioco, anzi, proteggeva solo quello imprenditoriale a scapito del lavoratore. Il primo mutamento di aspetto si ebbe con l’entrata in vigore della legge n. 604 del 1966 che introdusse il principio della necessaria giustificazione del licenziamento. Questo portò un cambiamento radicale nella disciplina.

Con la giurisprudenza che ben presto sottolineò come la cessione d’impresa non potesse costituire, di per sé, giustificato motivo di licenziamento152 (principio affermato dall’art. 47 della legge n. 428 del 1990), si cominciò effettivamente a tutelare la posizione soggettiva del lavoratore, impedendo che modificazioni soggettive nel potere imprenditoriale potessero essere poste a fondamento dei licenziamenti e garantendo la continuazione del contratto di lavoro e dei diritti che ne derivavano.

Un altro elemento che ha contribuito a rafforzare la ratio protettrice dei diritti dei lavoratori, per quanto concerne i profili collettivi, è stato l’intervento comunitario che con le sue direttive ha indirizzato il nostro ordinamento verso il cambiamento di prospettiva. Lo notiamo dal fatto che con la legge del 1990, la rubrica della disposizione codicistica ha cambiato veste: da “il trasferimento d’azienda” a “il

151 V. Luciani, Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori: il bilanciamento di

interessi nell’evoluzione dell’art 2112 c.c. in Mercato del lavoro, riforma e vincoli di sistema (a cura di) R. De Luca Tamajo, M. Rusciano e L. Zoppoli Editoriale

Scientifica, 2004, p. 563.

mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda” (art. 2112 c.c., 4° comma).

Le successive novelle legislative hanno provocato un ulteriore

restyling nella ratio della disciplina. A seguito dell’entrata in vigore

del d.lgs. n. 18 del 2001 prima, e del d.lgs. n. 276 del 2003 poi, si è espressamente previsto per l’imprenditore cedente di trasferire al cessionario anche solo una parte dell’azienda, andando a convalidare un orientamento giurisprudenziale da sempre chiaro sul punto. Così, se l’articolo inizialmente considerava l’azienda come un’unità economica unitaria di cui la forza lavoro costituiva un bene aziendale imprescindibile, oggi il nucleo della disposizione contiene valenze di flessibilità organizzativa153.

È una disciplina che oggi si è trasformata in strumento che agevola processi di riorganizzazione, scomposizione ed esternalizzazione d’impresa.

Si può affermare che il testo finale dell’art. 2112 c.c. presenta elementi di tutela sia degli interessi dei singoli lavoratori al mantenimento in vita del rapporto di lavoro e alla conservazione dei diritti, ma anche di tutela degli interessi aziendali che realizzano nel trasferimento la possibilità di esternalizzare segmenti produttivi d’impresa prescindendo dal consenso dei lavoratori.

Da qui la crisi d’identità dell’art. 2112 c.c.

Come vedremo, il trasferimento di ramo d’azienda oggi rappresenta un rischioso strumento che permette l’automatica uscita dei lavoratori addetti al ramo ceduto, cosi da avere un ridimensionamento dei dipendenti del cedente. Tale ridimensionamento è dato grazie al principio per cui il trasferimento comporta che i rapporti di lavoro continuino automaticamente con il cessionario a prescindere da

153 R. De Luca Tamajo, La disciplina del trasferimento di ramo di azienda dal

codice civile al decreto legislativo N. 276 del 10 settembre 2003, in Mercato del lavoro, op. cit., p. 570.

procedure di riduzione del personale154 e dal consenso dei lavoratori

stessi.

Questa opportunità per il datore di lavoro è il motivo per cui alcuni autori hanno intravisto nell’evoluzione dell’art. 2112 c.c. un’eterogenesi dei fini. Se la disciplina era nata per tutelare i lavoratori, oggi è divenuta lo strumento volto ad agevolare fenomeni di esternalizzazione e liberazione di personale eccedente in frode alle norme imperative.

Ecco perché diviene sempre più importante l’individuazione del campo di applicazione della disciplina e lo studio attento della stessa per capire se, nonostante il mutamento di ratio, essa contenga sempre al suo interno degli anticorpi in grado di contrastare tali operazioni.

1.4 Campo d’applicazione della disciplina: nozione di trasferimento d’azienda e di azienda

La nozione di trasferimento d’azienda da sempre costituisce lo snodo cruciale della disciplina. Esigenze di delimitazione del campo d’applicazione della fattispecie impongono di affrontare l’analisi di due nozioni, quella di trasferimento e quella di azienda, intese come “oggetto della vicenda circolatoria”.

I significati di tali termini sono da determinare in base alla prospettiva che essi assumono in relazione all’art 2112 c.c., quindi in chiave giuslavoristica.

Una dottrina autorevole, ma meno recente, sosteneva, in via di approssimazione, che per trasferimento potesse intendersi quel “particolare effetto giuridico che si concreta nell’attribuzione di un

determinato diritto da un soggetto ad un altro”155. Un concetto di trasferimento che rimandava, da un lato, a quello della successione

154 Cass. 27 maggio 2014, n. 11832, inedita a quanto consta.

155 R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’impresa, in Commentario al

nella titolarità di un diritto da un soggetto ad un altro, e dall’altro lato, era correlato alla nozione di acquisto a titolo derivativo.

Un tempo si riconducevano alla nozione di trasferimento d’azienda esclusivamente i casi di trasferimento volontario con modificazione soggettiva nell’esercizio dell’attività d’impresa, non includendovi i trasferimenti mortis causa nonché quelli attuati con provvedimento amministrativo o giudiziario156.

Gli interventi novellatori (del 2001 e del 2003), nell’incidere sull’art. 2112 c.c. hanno ampliato il concetto di trasferimento in conformità con la giurisprudenza italiana157 e comunitaria158.

Nell’attuale formulazione della normativa per “trasferimento d’azienda” s’intende “qualsiasi operazione che, in seguito a cessione

contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità”. Inoltre, si aggiunge “a prescindere della tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato” (5° comma art. 2112 c.c.).

Si ritiene che la fattispecie del trasferimento d’azienda sia configurabile anche quando non ricorra un unico atto di cessione, ma si realizzi con una pluralità di contratti nel tempo.

Quello che rileva è la successione nella titolarità di una pluralità di elementi produttivi, considerati nella loro funzione unitaria e strumentale.

Per cui l’attuale formulazione della norma fa rientrare nella fattispecie qualsiasi modificazione soggettiva di titolarità di elementi aziendali,

156 U. Carabelli -B. Veneziani, Il trasferimento d’azienda in Italia, in La trasmisiòn

de empresas en Europa, Cacucci, Bari, 1999, p. 104; Cass. 17 dicembre 1994 n.

10828 inedita a quanto consta.

157 Cass. 8 luglio 2011 n. 15094 inedita a quanto consta, Cass. 7 aprile 2010 n. 8262

inedita a quanto consta.

158 Corte Giust. 6 marzo 2014 n. C-458/12 cit. e Corte Giust. 12 febbraio 2009 n. C-

qualsiasi sia lo strumento giudico utilizzato per il trasferimento (cessione, fusione societaria, usufrutto, affitto, acquisizione)159.

Lo strumento tecnico utilizzato per la vicenda circolatoria è irrilevante, quello che conta è l’effetto sostitutivo160.

La giurisprudenza, oggi, è altresì orientata nel senso di configurare come trasferimento d’azienda anche i casi di cessione avvenuti sulla base, non di un atto negoziale, bensì di un atto dell’autorità amministrativa161. Infatti, per quanto concerne i trasferimenti “coattivi”, fino alla novella del 2001 la giurisprudenza di legittimità e la dottrina maggioritaria escludevano l’applicabilità dell’art. 2112 c.c. laddove il trasferimento non avesse origine negoziale162.

Oggi, invece, sono ricompresi anche i trasferimenti non volontari, purché accompagnati dal passaggio dell’organizzazione d’impresa. Ciò emerge anche dall’eliminazione dei riferimenti soggettivi ad “alienante” e “acquirente”, sostituiti da quelli di “cedente” e “cessionario”, andando così ad allontanare ogni riferimento agli atti di cessione unicamente volontaria163.

Anche la giurisprudenza164 sottolinea tale cambiamento che porta l’applicazione della disciplina anche in ipotesi di trasferimento coattivo, tra cui rientra sicuramente l’oggetto della nostra tesi, ovvero la vicenda circolatoria in ambito di imprese in crisi (infra).

Sicuramente la disciplina di cui all’art. 2112 c.c. si applica ai trasferimenti temporanei, come l’usufrutto e l’affitto d’azienda,

159 Trib. Milano 10 febbraio 2015 in Riv. Giur. Lav., 2016, p. 427; Trib. Perugia 12

febbraio 2013 inedita a quanto consta.

160 Cass. 1 ottobre 2012, n. 16641, cit.

161 Cass.25 novembre 2014 n. 25021, inedita a quanto consta.

162 Cass. 25 gennaio 1999 n. 672 stabiliva che non fossero conciliabili gli interessi di

natura pubblicistica con gli obblighi posti a carico del cessionario di continuazione del rapporto e di mantenimento del trattamento economico e normativo dei lavoratori; E. Barraco, La tutela dei rapporti di lavoro nel trasferimento d’azienda, in Lav. Giur. 12/2005, p. 1120.

163 R. Romei, Il campo di applicazione della disciplina sul trasferimento d’azienda,

in Il mercato del lavoro, 2004, p.583.

nonché ai casi di retrocessione d’azienda che si realizza con conclusione dei contratti precedentemente detti.

Rimane invece esclusa la configurabilità di trasferimento d’azienda nelle ipotesi di cessioni mortis causa e di trasferimenti di pacchetti azionari.

Per concludere, affinché possa aversi trasferimento di azienda non appare necessario che il cessionario intenda esercitare un’attività imprenditoriale, né tanto meno che intenda proseguire la medesima attività esercitata dal cedente.

Vedremo meglio in seguito, i negozi e i provvedimenti alla base dei quali può ritenersi integrato l’istituto del trasferimento.

Per quanto riguarda invece l’altro elemento di cui si compone la fattispecie, l’azienda, sappiamo che prima dell’emanazione del d.lgs. n. 18 del 2001 non esisteva una specifica nozione.

È stato necessario un costante impegno della dottrina e della giurisprudenza per delinearne il significato. Queste facevano riferimento alla nozione contenuta nell’art 2555 c.c. per cui “l’azienda

è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, così come interpretata dalla dottrina commercialistica

che attribuiva un ruolo significativo alla presenza di elementi materiali e strutturali dell’impresa165. Per aversi trasferimento d’azienda, quindi,

era necessario che i “beni” passassero da un soggetto ad un altro. Ricostruzione poi abbandonata perché ritenuta incompatibile con la definizione determinata dal legislatore comunitario che, nella direttiva 98/50/CE parla di “entità economica intesa come insieme di mezzi

organizzati al fine di svolgere un’attività economica”.

Dopo l’emanazione del d.lgs. n. 18 del 2001, attuativo della prima Direttiva, si è introdotta nel nostro ordinamento per la prima volta una nozione di azienda.

Nozione lavoristica che trova il suo fondamento nel concetto di impresa dettato dall’art. 2082 c.c. e non più nella restrittiva nozione di azienda interpretata in senso commercialistico166.

Si sottolinea che il decreto accoglie una nozione di azienda simile, ma non identica a quella delineata dal legislatore comunitario, infatti la normativa interna parla di “attività economica organizzata”.

Alcuni autori hanno sostenuto che la scelta del legislatore italiano di non utilizzare l’espressione “entità economica” fosse il frutto della precisa volontà di escludere la rilevanza di un “insieme di mezzi” che caratterizza la nozione di entità. Mentre un altro filone dottrinale non attribuisce particolare importanza alla differenza di termini, presupponendo che l’art. 2112 c.c. si integri comunque con il passaggio di un complesso di beni organizzati, andando cosi ad escludere che possa perfezionarsi la fattispecie in ipotesi di trasferimento di un insieme di rapporti di lavoro funzionalmente collegati senza che vi sia un passaggio di beni materiali d’impresa. Occorre evidenziare quanto delineato sul punto dalla giurisprudenza comunitaria.

Dapprima il giudice comunitario, con la sentenza Spijkers167 ha

affermato che deve essere preso in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione di cui trattasi, occorrendo individuare il tipo d’impresa o di stabilimento, il fatto che vengano, o meno, ceduti beni materiali, il valore dei beni immateriali ecc.

Una grande apertura verso la smaterializzazione del concetto di impresa si è avuto con la sentenza Schmidt 168 per la quale l’assenza di

elementi materiali non è sufficiente per escludere l’applicabilità della Direttiva, bensì ad essere necessario è il mantenimento dell’attività economica.

166 E. Barraco, Il trasferimento d’azienda in Lav. Giur., 2013, p. 628. 167 Corte Giust. 18 marzo 1986 C-24/85 in Foro.it, 1989, p. 11.

Secondo la sentenza Süzen169 è ipotizzabile il trasferimento d’azienda

anche laddove l’entità trasferita sia di natura tale da non richiedere un substrato materiale rilevante. In determinate ipotesi, dice la Corte, un gruppo di lavoratori subordinati, organizzati funzionalmente per esercitare una determinata attività, può senza dubbio costituire un’entità economica suscettibile di trasferimento a prescindere dal passaggio di elementi materiali in capo al cessionario. Si deve, per la Corte, prendere in considerazione le circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione traslativa.

Lo stesso ribadito da sentenze successive170 per cui è sufficiente ai fini dell’applicabilità della disciplina del trasferimento anche la semplice traslazione di un’attività organizzata mediante l’impiego di lavoratori organizzati, senza il necessario supporto di un apparato strumentale171. Per cui “l’assenza di tali elementi (materiali) non esclude

necessariamente l’esistenza del trasferimento stesso”.

Interpretando la norma nazionale alla luce dell’evoluzione comunitaria, si può dire che oggi non si possa ritenere significativa la differente terminologia utilizzata dall’art. 2112 c.c. dal momento che entrambe le discipline sembrano accogliere una nozione dematerializzata di azienda. Cosi da considerare quale “attività economica” anche solo i lavoratori che siano capaci di svolgere autonomamente le proprie funzioni presso il nuovo datore di lavoro172.

Si è riusciti in questo modo a sganciare la nozione di azienda dalla zavorra della materialità dei beni, prendendo atto che oggi i processi organizzativi sono spesso costituiti da entità non supportate, o non in maniera rilevante, da alcuna materialità.

169 Corte Giust. 11 marzo 1997 C-13/95, in Riv It. Dir. Lav., 1998, p. 650.

170 Corte Giust. 24 gennaio 2002 C-51/00 Foro.it., 2002; Corte Giust., 9 settembre

2015 C-160/14 inedita a quanto consta.

171 M.T. Carinci, R. De Luca Tamajo, Tosi, Treu, Diritto del lavoro 2. Il rapporto di

lavoro subordinato Utet, 2016, p. 174 ss.

172Corte Giust. 6 settembre 2011 n. C-108/10; Cass. 9 novembre 2011 n.23341

Per questo si ha trasferimento d’azienda quando si verifichi il passaggio di beni materiali, ma anche nel caso di successione di beni immateriali, inclusi rapporti di lavoro (o solo di essi).

Questa è la interpretazione accolta dalla giurisprudenza italiana173 che ammette che il trasferimento d’azienda possa configurarsi non solo in caso di cessione di beni in senso stretto, ma anche di rapporti giuridici, in particolare di rapporti di lavoro174, con la necessità, però, che si mantenga un’organizzazione tale da consentire l’esercizio funzionale dell’attività d’impresa.

È il requisito dell’organizzazione e non dei beni che caratterizza

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