• Non ci sono risultati.

1.   L’infinito nel continuum Nome-Verbo

1.1. Le categorie lessicali N e V: criteri definitori

1.1.1. Il criterio morfologico

Il criterio morfologico si fonda sui diversi tipi di morfemi flessivi con cui una forma si può combinare: secondo questo approccio si definisce N una forma declinata per caso, numero e genere, e si definisce V una forma coniugata per persona, tempo, modo, e così via. È questo, ad esempio, il criterio utilizzato da Dionisio Trace nella sua Ars

5 Nello specifico, le lingue Nootka (Pacifico Nord-Occidentale) e Tagalog (Filippine).

6 Un problema simile è osservato anche da Baker (2003: 4-6) a proposito delle categorie Verbo e Aggettivo nella   lingua   Mohawk,   del   gruppo   irochese.   Sul   problema   dell’universalità   delle   categorie   lessicali,   cfr.   anche  Robins  (1952)  e,  in  tempi  recenti,  l’importante  articolo  di  Evans  &  Levinson  (2009).

7 Secondo Gaeta (2002: 20) proprio per questo tali categorie si profilerebbero come definitorie, in un certo senso,  del  concetto  stesso  di  “lingua  naturale”.

8 Il carattere   universale   della   categoria   dell’aggettivo   è   più   controverso,   anche   se   generalmente   accettato   (cfr. Thompson 1988, Comrie 1991, Baker 2003). Ma cfr. Evans & Levinson (2009) che mostrano l’esistenza   di   lingue   che   non   presentano   la   distinzione   nome-verbo, come lo Strait Salish (Canada sud- occidentale), in cui tutti i lessemi che appartengono alle classi lessicali principali (N, V, A) funzionano semplicemente   come   predicati   (del   tipo   di   “correre”,   “essere_grande”,   “essere_uomo”:   434),   anche   occupando slot sintattici differenti.

34

Grammatica, fatto non sorprendente data la ricchezza morfologica della lingua greca oggetto  di  studio  dell’opera.9

Come si è sottolineato nella sezione precedente, un criterio di tipo morfologico non  è  efficace  nell’individuazione delle categorie lessicali, poiché le lingue del mondo si possono differenziare enormemente in termini di articolazione morfologica (si pensi alle lingue isolanti, in cui la morfologia è praticamente assente).

1.1.2. Il criterio semantico

Il criterio semantico, invece, associa determinate nozioni alle categorie lessicali: persone, cose e luoghi al N; eventi, processi e simili al V (Schachter 1985: 7-9). Questo criterio era già proprio della tradizione antica: Dionisio Trace lo aveva impiegato come integrazione di quello morfologico (cfr. Hopper & Thompson 1984: 704-705) e infatti, come ricordato da Schachter (1985: 3-5),  di  per  sé  non  è  sufficiente  a  determinare  l’appartenenza  di  una   parola ad una categoria lessicale. Inoltre è un criterio che può profilarsi come soggettivo o influenzato da nozioni proprie di un particolare sistema linguistico (Robins 1952: 295), senza   contare   l’assenza   di   una   totale   commensurabilità   tra   le   lingue   rispetto   all’assegnazione  delle  nozioni  alle  categorie  lessicali (Hopper & Thompson 1984: 705).

Tuttavia,   dall’applicazione   del   criterio   semantico   provengono   alcune   categorizzazioni importanti: Lyons (1977: 442-447), ad esempio, individua diversi ordini di  categorie  ontologiche  o  “entità”,  distinguendo  tra  quelle  di  primo e di secondo e terzo ordine. Le entità di primo ordine esistono nel tempo, denotano persone, luoghi o cose concrete e sono rappresentate dai N; quelle di secondo e terzo ordine, invece, accadono nel tempo e denotano eventi, processi ed azioni, venendo rappresentate dai V.

Il tempo è alla base anche della distinzione che in ambito funzionalista ha elaborato Givón (1979) tra N e V. Givón individua, alla base dei processi di categorizzazione   dell’esperienza   umana,   un   parametro   di   temporalità,   o   meglio   di time- stability,10 proprietà di qualsiasi entità x che sia identica a se stessa, e solo a se stessa, in un punto a nel tempo ed anche in un punto b che segue direttamente a (Givón 1979: 320). In  base  a  questo  parametro,  esistono  alcune  entità  che  l’uomo  percepisce come stabili nel

9 L’Ars Grammatica di  Dionisio  Trace  (II  secolo  a.C./II  secolo  d.C.,  a  seconda  dell’attribuzione)  è  inoltre   la più antica opera grammaticale ad individuare le otto méros lógou “parti  del  discorso”  della  lingua  greca. 10 Tempo e spazio rappresentano, secondo Givón (1979: 314-320), le due dimensioni ontologiche fondamentali   sulle   quali   l’uomo   “costruisce   universi”,   ovvero   categorizza   la   sua   esperienza.   Tra   le   due,   però, è quella temporale che viene considerata la prima, in quanto le entità temporali esistono al di fuori dello spazio, mentre quelle spaziali non possono esistere al di fuori del tempo (cfr. la gerarchia implicazionale exist in space > exist in time > exist : 314).

35 tempo e che tendono ad essere codificate dalle lingue come N, mentre le entità che vengono percepite come prive di time-stability tendono ad essere codificate come V.

Un’opposizione   simile   si   trova   in   Croft   (1991:   63-64) nei termini però di “statività”  e  “persistenza”  nel  tempo,  alla  base  della  distinzione  tra  stati  e  processi  e  che   caratterizza  anche  i  N  prototipici,  in  opposizione  alla  “transitorietà”  nel  tempo,  proprietà   dei V prototipici.11

Il criterio semantico, al di là dei limiti che abbiamo già ricordato riguardo alla validità interlinguistica e alla difficoltà nella definizione delle nozioni pertinenti, ha il merito di introdurre nella riflessione linguistica sulle classi di parole una dimensione extra-linguistica che costituisce  un’integrazione  fondamentale  a  criteri  puramente  formali.   Hopper & Thompson (1984, 1985) sostituiranno alle basi semantiche proposte da Lyons e Givón, che considerano insufficienti, basi funzionali di tipo pragmatico-discorsivo per la categorizzazione linguistica (cfr. infra 1.1.4.).

1.1.3. Il criterio sintattico

Esistono infine approcci alle categorie lessicali basati su un criterio esclusivamente o prevalentemente di tipo sintattico, soprattutto in relazione a lingue (si pensi al cinese) che non si caratterizzano per una morfologia particolarmente articolata e in cui il criterio morfologico non è in grado di individuare le distinzioni tra classi di parole. Il criterio sintattico si focalizza quindi sulle possibilità che le parole di una lingua hanno di riempire determinate posizioni sintattiche.12

Dal punto di vista strutturale, dunque, i N sono le parole che funzionano come argomenti o come testa di sintagmi che costituiscono argomenti, mentre i V sono le parole che funzionano come predicati. A partire   dall’individuazione   di   queste   due   principali classi di parole, sarebbe possibile, almeno in parte, definire le altre sulla base delle relazioni sintattiche che presentano con esse. Come osserva Robins (1952: 294), un’analisi   formale   di   questo   tipo   porta spesso a osservare forti somiglianze delle altre classi di parole con le due categorie principali del N e del V: in greco e in latino gli aggettivi presentano somiglianze con il N, mentre in una lingua come il giapponese esistono aggettivi assimilabili al V, anche se formalmente distinti (cfr. Lombardi Vallauri 2000).

11 Sul concetto di prototipo, v. infra 1.1.4.

12 Già in Bally (1944: 145-147; cf. Tesnière 1959) il valore delle categorie lessicali era stato considerato anche in base alla loro funzione sintattica: per esempio, un aggettivo serve da epiteto al nome e un nome può essere modificato solamente da un aggettivo; il carattere complementare delle relazioni fra categorie corrisponde  ai  rapporti  sintagmatici  che  le  parole  hanno  all’interno  del  discorso.

36

Il criterio sintattico è alla base degli studi di ambito generativista, che considerano N e V come due categorie completamente distinte e polarmente opposte e che al limite possono essere  trasformate  l’una  nell’altra  attraverso  processi  di  ricategorizzazione  (cfr. Chomsky 1970). Tale posizione teoretica, però, non riesce a dare conto della diversità che caratterizza, in termini di sistemi di classi di parole, le lingue naturali.

Integrando   nel   paradigma   generativo   un’analisi   interlinguistica   di   impronta   tipologica, Baker (2003) ha tentato una definizione di carattere universale delle principali categorie lessicali, arrivando a riformulare le definizioni chomskyane di Nome, Verbo, Aggettivo e Preposizione, come riportiamo qui di seguito (adattato da Baker 2003: 21):

Chomsky Baker

Nome +N,  −V Nome +N  =  “ha  indice  referenziale” Verbo +V, –N Verbo +V  =  “ha  uno  specificatore” Aggettivo +N, +V Aggettivo –N,  −V

Preposizione –N,  −V Preposizione è parte di un sistema differente (funzionale)

Limitandoci a osservare la definizione delle due principali categorie lessicali N e V, lo studio di Baker (2003) arriva a definire il V come la categoria che presenta uno specificatore (23) e che assegna agente e ruoli tematici (26), mentre la categoria N è quella dotata di un indice referenziale (95).13

Il   criterio   sintattico   è   stato   utilizzato   anche   all’interno   di   altri   filoni   teorici:   in   ambito funzionalista, ricordiamo alcuni dei lavori di Hengeveld (1992a e 1992b; cfr. Hengeveld & Rijkoff & Siewerska 2004: 530) che, su basi tipologiche, ha classificato i sistemi di classi di parole a partire dagli slots sintattici che queste possono occupare: nello specifico, i ruoli di testa o di modificatore di sintagmi referenziali o predicativi (Hengeveld 1992a: 37, 1992b: 57-58). Secondo questa distinzione, dunque, le principali classi di parole vengono così definite:14

13 Baker (2003: 96) riconosce di condividere la posizione già di Hopper & Thompson (1984; cfr. infra

1.1.4.) e di Croft (1991) riguardo alla funzione referenziale inerentemente associata al N.

14 Tale distinzione è basata sui quattro tipi di predicazione individuati: nominale (testa di sintagma), verbale (solo uso predicativo), aggettivale (modificatore di testa nominale) e avverbiale (modificatore di testa non- nominale), v. Hengeveld (1992a e 1992b).

37 (i) Nome = lessema che può essere impiegato solo come testa di un sintagma referenziale; (ii) Verbo = lessema che può essere impiegato solo come testa di un sintagma predicativo;

(iii) Aggettivo = lessema che può essere impiegato come modificatore di un sintagma referenziale;

(iv) Avverbio = lessema che può essere impiegato come modificatore di un sintagma predicativo.15

La funzione sintattica di testa, inoltre, si caratterizza per obbligatorietà   all’interno  della   frase, mentre i modificatori sono opzionali: N e V, quindi, ancora una volta emergono come  le  categorie  lessicali  fondamentali  all’interno  delle  lingue.  

Veniamo ora ad un ulteriore criterio per la definizione delle categorie lessicali che si affianca ai tre tradizionali che abbiamo illustrato finora e che prende le mosse proprio a partire dalla constatazione della fallibilità di questi: il criterio funzionale. Ci soffermeremo più estesamente su  quest’ultimo  criterio  poiché è quello che riteniamo più valido e che utilizzeremo principalmente in questo lavoro.

1.1.4. Il criterio funzionale

I criteri che la tradizione grammaticale e linguistica occidentale avevano adottato per l’individuazione  delle  classi  di  parole  delle  lingue  indoeuropee iniziano a mostrare la loro inadeguatezza   con   lo   svilupparsi   della   ricerca   su   lingue   “altre”,   a   partire   dagli   studi   di   Sapir  e  Whorf  sulle  lingue  amerindiane  all’inizio  del  XX  secolo.  

Sapir (1921) individua come base della distinzione tra le due categorie lessicali N e V, fondamentali nelle lingue del mondo, le loro rispettive funzioni altrettanto fondamentali:

“There must be something to talk about and something must be said about this subject of discourse [...] No language wholly fails to distinguish noun and verb, though in particular cases the nature of the distinction may be an elusive one. It is different with the other parts of speech. No  one  of  these  is  imperatively  required  for  the  life  of  language.”  (Sapir 1921: 126)

In una qualsiasi lingua, quindi, esistono due necessità: (i) differenziare le entità di cui parlare e (ii) predicare cose riguardo a tali entità. Alle due funzioni fondamentali della lingua, referenza e predicazione, corrispondono quindi le categorie di N e V.

15 Hengeveld  considera  in  questi  lavori  solamente  l’avverbio  di  modo  (manner adverb),  in  quanto  l’unico   che svolge funzione di modificatore della testa del sintagma predicativo: avverbi di spazio e di tempo, infatti, modificano la frase nel suo complesso.

38

Anche Jespersen (1924: 56-57)   nota   l’inadeguatezza   dei   criteri   adottati   dalla   tradizione linguistica precedente, osservando la complementarità di criteri formali, sintattici ma anche funzionali per la definizione delle classi lessicali: il parlante utilizza infatti la  lingua  “piegandola”  alle  sue  esigenze  comunicative  (“the speaker [...] inserts the words that fit in that particular situation”:  19).16

In tempi più recenti, ma con presupposti simili, Hopper & Thompson (1984, 1985) hanno individuato basi pragmatico-discorsive per le categorie lessicali N e V. In questa proposta, tali categorie non sono considerate arbitrarie, ma “iconiche”,   sulla   base   di   un   principio   di   iconicità   tra   forma   linguistica   e   funzione   all’interno   del   discorso.17 La definizione delle due categorie lessicali di N e V è fondata sulla loro caratterizzazione in termini prototipici:   il   concetto   di   “prototipo”,   infatti,   è   considerato   come   uno   dei   fondamenti dei processi della categorizzazione umana.18 Quindi, N e V come categorie lessicali rappresentano dei prototipi: il N o il V prototipico è quel lessema che presenta tutte le caratteristiche proprie della categoria, della quale possono far parte, però, anche lessemi più periferici che non possiedono tutte le caratteristiche del prototipo.

Hopper & Thompson (1984, 1985) riconoscono una qualche validità al criterio semantico che associa cose concrete e stabili al N e azioni dinamiche al V, ma aggiungono che per la definizione dei due prototipi di tali categorie è necessario considerare anche il parametro della   loro   funzione   all’interno   del   discorso,   ovvero   del   loro   ruolo   all’interno   del   contesto   in   cui   vengono   impiegati   i   lessemi   (Hopper   &   Thompson 1984: 708). Se pensiamo al lessema fox “volpe”,   che   secondo   il   criterio   semantico  è  un  N  prototipico  (un’entità di primo ordine nei termini di Lyons 1977), e al lessema throw “lanciare”,   che   semanticamente   è   un   V   prototipico,   si   può   facilmente   osservare che il loro status di nome o di verbo è alterato a seconda della funzione che possono  ricoprire  all’interno  del discorso. Riportiamo gli esempi presentati da Hopper & Thompson (1984: 708-709):

16 Questo è uno dei presupposti teoretici alla base della Grammatica di Categorie e Costruzioni elaborata da Simone (2006a, 2006b; cfr. 2008), a cui faremo più volte riferimento.

17 Sul concetto di iconicità linguistica, si rimandano ai lavori di Haiman (1983, 1985, 2000).

18 La nozione di prototipicalità come base dei processi cognitivi umani fu elaborata e si sviluppò a partire dai notori studi di Eleanor Rosch (1973, ad esempio) sulle modalità di categorizzazione della realtà, operazione che procederebbe non in modo arbitrario, bensì a partire dai rappresentanti centrali e più salienti di una categoria (i prototipi) in direzione dei rappresentanti periferici. Hopper & Thompson (1980), per esempio, hanno adottato questa prospettiva come base per la definizione delle proprietà prototipiche della Transitività nelle lingue del mondo.

39 [4] a. Foxes are cunning.

Le volpi sono furbe.

b. We went fox-hunting in the Berkshires.

Andammo a fare caccia alla volpe nel Berkshires.

c. Early in the chase the hounds started up an old red fox, and we hunted him all morning. All’inizio  della  caccia  i  cani  fecero  partire  una  vecchia  volpe  rossa,  e  la  cacciammo  tutta   la mattina.

[5] a. To throw a log that size takes a great deal of strength.

Lanciare un tronco di quelle dimensioni richiede una grande quantità di forza. b. We watched the log-throwing contest.

Guardammo la gara di lancio del tronco. c. The man throwing the log slipped and fell.

L’uomo  che  stava  lanciando  il  tronco  scivolò  e  cadde. d. After the break, McTavish threw the log.

Dopo la pausa, McTavish lanciò il tronco.

Come si osserva, nel contesto discorsivo rappresentato da [4] a. il lessema fox presenta la funzione sintattica tipica del nome, ma si sta parlando di tutte le volpi in generale; in [4] b. fox è   utilizzato   per   specificare   semanticamente   il   predicato   “cacciare”.   Ciò   significa   che in entrambi i contesti fox non rappresenta il prototipo della categoria N, in quanto non viene   utilizzato   per   denotare   un’entità   concreta e percepibile nella realtà, come invece avviene nel contesto [4] c. La funzione prototipica del N è infatti quella di introdurre dei partecipanti nel discorso.

Similmente, gli usi del lessema throw nei contesti [5] a.-c. si allontanano dalla funzione prototipica del V, che è quella di asserire  nel   discorso  l’occorrenza  di   eventi: l’unico  evento  rappresentato  da  throw ad avere effettivamente luogo è quello in [5] d., in quanto  in  [5]  a.  si  tratta  dell’azione  del  “lanciare”  dal  punto  di  vista  generico,  che viene espressa attraverso una nominalizzazione (Nome di Processo Indefinito nei termini di Simone 2003, 2004),19 e   in   [5]   b.   e   c.   il   lessema   è   utilizzato   all’interno   di   sintagmi   modificatori, non come predicato della frase.

N e V prototipici, dunque, sono due entità ontologiche massimamente distinte: l’uno   presenta   tutte   le   proprietà   nominali   prototipiche,   l’altro   tutte   le   proprietà   verbali   prototipiche. In questo modo, si apre la possibilità di immaginare un continuum di

19 Con Nome di Processo Indefinito Simone (2003, 2004) identifica quel tipo di infinito nominale ([−telico] e [+processuale]) utilizzato per esprimere il processo verbale in modo generico, senza ulteriori specificazioni, v. infra).

40

Nominalità/Verbalità compreso tra i  due  poli  di  N  e  V  prototipici  e  all’interno  del  quale  si   possono collocare tutti i lessemi di una lingua su basi morfologiche, sintattiche ma anche funzionali o pragmatico-discorsive.

L’idea  di   un   continuum N-V era già stata introdotta nel notorio articolo di Ross (1972),   in   cui   veniva   avanzata   l’ipotesi   che   le   categorie   lessicali   N,   V   e   A   non   costituissero insiemi discreti, bensì raggruppamenti ordinati, in base alle loro proprietà, lungo un gradiente ai cui estremi si collocano N e V e in cui gli A rappresentano la classe intermedia.20

Hagège (1984, 1985) rappresenta tale continuum attraverso una metafora in cui N e   V   rappresentano   i   due   poli   di   un   campo   magnetico   all’interno   del   quale   le   altre   categorie   oscillano   subendo   l’attrazione   dell’uno   e   dell’altro: in opposizione ad una concezione  discreta  delle  due  categorie,  ne  propone  una  di  tipo  scalare,  “fluida”  (Hagège   1984: 28).

Altre proposte postulano che sia possibile individuare, in modo più articolato, un continuum di nominalità (nouniness) ed uno di verbalità (verbiness) come suddivisioni interne di quello N-V, più ampio. Ad esempio Sasse (2001: 498) individua tra N e V delle categorie intermedie che egli chiama vouns (forme verbali che presentano tratti di nouniness) e nerbs (forme nominali che presentano tratti di verbiness).

Simone (2008) ha analizzato, in lingue tipologicamente differenti, forme nominali su   cui   si   possono   distaccare   quelli   che   lui   chiama   “coefficienti   verbali”,   ovvero   tratti   tipicamente verbali come specificazioni TAM (ex-ministro, futuro presidente, mancato marito),  diatesi  (come  l’infinito  nominalizzato  in  greco  antico,  che  può  presentare  diatesi   attiva, passiva o media), struttura argomentale (la presa del potere da parte di Luigi XIV), e così via. Anche questo studio su forme nominali che possono o non possono ricevere tali coefficienti verbali si fonda sul concetto che il continuum N-V racchiude al suo interno i continua di  nominalità  e  di  verbalità  polarmente  opposti:  con  l’acquisizione  di   tratti di verbalità il lessema perde   tratti   di   nominalità   “spostandosi”   idealmente   in   direzione del polo V, e viceversa.

La prospettiva secondo la quale esiste continuità tra N e V, al di là degli elementi di discontinuità rappresentati dalle loro funzioni pragmatico-discorsive prototipiche, è ormai comunemente accettata in linguistica ed è quella che meglio riesce a dare conto della molteplicità di categorie intermedie tra N e V (come  l’infinito,  che  abbiamo  definito  

41 “ibrido”:   cfr.   il   concetto   di   mixed category “categoria   mista”   in   Malouf 2006) e dei processi di transcategorizzazione presenti nelle lingue del mondo.

In  realtà,  importanti  osservazioni  sulla  mobilità  categoriale  dei  lessemi  all’interno   di   una   lingua   erano   già   state   fatte   nell’ambito   dello   strutturalismo   europeo   a   partire   da Bally (1944), che aveva mostrato che le parole di una lingua possono appartenere a più classi,   attraverso   meccanismi   da   lui   denominati   di   “trasposizione”   (così   anche   in   Benveniste  1969;;   “traslazione”  invece  in   Tesnière  1959):21 attraverso la trasposizione il segno linguistico, pur conservando il suo valore semantico, cambia il suo valore grammaticale per assumere la funzione di una categoria lessicale a cui non appartiene, come nel caso degli infiniti nominali che abbiamo esemplificato in [1].

Un altro tipo di trasposizione è quella che Pustejovsky (1995: 105-110) definisce type coercion “forzatura  di  tipo”,  attraverso  cui  il  significato  di  un  lemma  è  trasferito  da   un tipo semantico a un altro: nella frase rompere due bottiglie di vino, bottiglie è un nome, mentre in bere due bottiglie di vino la stessa parola è utilizzata come quantificatore. A partire da questa nozione, Simone (2000, 2006a, 2006b, 2008) elabora il concetto  di  “forzatura  di  formato”,  che  si  fonda  su  un  meccanismo  metonimico  per  cui  un   significato può espandersi da un lessema ad un altro in virtù di una qualche contiguità semantica.   All’interno   della   sua   Grammatica   di   Categorie   e   Costruzioni,   ribadendo   l’importanza  del  fattore  pragmatico-discorsivo  nell’analisi  sulle  classi  di  parole,  Simone   (2006a e 2006b) individua in questi meccanismi di trasposizione (che distingue in trasposizioni  di  vario  tipo,  tra  i  quali  quella  da  una  categoria  lessicale  ad  un’altra)  delle   vere  e  proprie  “operazioni  discorsive”22 attraverso  le  quali  i  parlanti  “piegano” le risorse sistemiche a loro disposizione secondo i loro scopi comunicativi.23

Infine, dobbiamo precisare che esistono differenze significative tra le lingue rispetto al grado di flessibilità delle categorie N e V, e quindi anche rispetto alla configurazione del continuum:24 questo fatto è particolarmente evidente nella zona

21 Cfr. anche il concetto di  “trasposizione  di  livello”   illustrato  in  Simone  (2006a,  2006b  e  2008)  con  una   prima elaborazione già in Benveniste (1969).

22 Cfr.  il  concetto  di  operazioni  “enunciative”  in  Culioli  (1968),  che  si  fonda  sull’enunciazione  intesa  come   luogo di mediazione tra gli aspetti grammaticali e pragmatici del linguaggio. A partire da questa posizione teoretica Simone (2006a, 2006b) elabora la distinzione tra le due nozioni di sistema e discorso alla base della sua Grammatica di Categorie e Costruzioni.

23 Dalla dimensione del discorso, inoltre, questi fenomeni di ricategorizzazione possono fissarsi nel sistema, con modalità che Simone (2000, sui nomina actionis dal latino alle lingue romanze) ha definito cicliche: certi tipi di slittamento categoriale tenderebbero, all’interno  delle   lingue,  a   seguire   percorsi  predefiniti  da   una  categoria  all’altra  in  virtù  di  proprietà  semantiche  e  pragmatiche.

24 Gaeta  (2002:  35)  parla  di  “gradualità  della  forza  di  nominalizzazione” a livello interlinguistico: le lingue stesse si potrebbero disporre lungo un continuum compreso tra i poli (prototipici) della massima e della minima distinzione tra le categorie N e V.

42

centrale del gradiente, dove i confini tra nominalità e verbalità si fanno meno netti e compaiono le categorie miste. Si pensi ad esempio al participio in latino e nelle lingue romanze, forma verbale che presenta lo stesso tipo di flessione e di funzione dell’aggettivo,25 o ai nomina actionis, forme nominali con tratti tipicamente verbali come struttura argomentale e aspettualità.26

Documenti correlati