1. L’infinito nel continuum Nome-Verbo
1.1. Le categorie lessicali N e V: criteri definitori
1.1.1. Il criterio morfologico
Il criterio morfologico si fonda sui diversi tipi di morfemi flessivi con cui una forma si può combinare: secondo questo approccio si definisce N una forma declinata per caso, numero e genere, e si definisce V una forma coniugata per persona, tempo, modo, e così via. È questo, ad esempio, il criterio utilizzato da Dionisio Trace nella sua Ars
5 Nello specifico, le lingue Nootka (Pacifico Nord-Occidentale) e Tagalog (Filippine).
6 Un problema simile è osservato anche da Baker (2003: 4-6) a proposito delle categorie Verbo e Aggettivo nella lingua Mohawk, del gruppo irochese. Sul problema dell’universalità delle categorie lessicali, cfr. anche Robins (1952) e, in tempi recenti, l’importante articolo di Evans & Levinson (2009).
7 Secondo Gaeta (2002: 20) proprio per questo tali categorie si profilerebbero come definitorie, in un certo senso, del concetto stesso di “lingua naturale”.
8 Il carattere universale della categoria dell’aggettivo è più controverso, anche se generalmente accettato (cfr. Thompson 1988, Comrie 1991, Baker 2003). Ma cfr. Evans & Levinson (2009) che mostrano l’esistenza di lingue che non presentano la distinzione nome-verbo, come lo Strait Salish (Canada sud- occidentale), in cui tutti i lessemi che appartengono alle classi lessicali principali (N, V, A) funzionano semplicemente come predicati (del tipo di “correre”, “essere_grande”, “essere_uomo”: 434), anche occupando slot sintattici differenti.
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Grammatica, fatto non sorprendente data la ricchezza morfologica della lingua greca oggetto di studio dell’opera.9
Come si è sottolineato nella sezione precedente, un criterio di tipo morfologico non è efficace nell’individuazione delle categorie lessicali, poiché le lingue del mondo si possono differenziare enormemente in termini di articolazione morfologica (si pensi alle lingue isolanti, in cui la morfologia è praticamente assente).
1.1.2. Il criterio semantico
Il criterio semantico, invece, associa determinate nozioni alle categorie lessicali: persone, cose e luoghi al N; eventi, processi e simili al V (Schachter 1985: 7-9). Questo criterio era già proprio della tradizione antica: Dionisio Trace lo aveva impiegato come integrazione di quello morfologico (cfr. Hopper & Thompson 1984: 704-705) e infatti, come ricordato da Schachter (1985: 3-5), di per sé non è sufficiente a determinare l’appartenenza di una parola ad una categoria lessicale. Inoltre è un criterio che può profilarsi come soggettivo o influenzato da nozioni proprie di un particolare sistema linguistico (Robins 1952: 295), senza contare l’assenza di una totale commensurabilità tra le lingue rispetto all’assegnazione delle nozioni alle categorie lessicali (Hopper & Thompson 1984: 705).
Tuttavia, dall’applicazione del criterio semantico provengono alcune categorizzazioni importanti: Lyons (1977: 442-447), ad esempio, individua diversi ordini di categorie ontologiche o “entità”, distinguendo tra quelle di primo e di secondo e terzo ordine. Le entità di primo ordine esistono nel tempo, denotano persone, luoghi o cose concrete e sono rappresentate dai N; quelle di secondo e terzo ordine, invece, accadono nel tempo e denotano eventi, processi ed azioni, venendo rappresentate dai V.
Il tempo è alla base anche della distinzione che in ambito funzionalista ha elaborato Givón (1979) tra N e V. Givón individua, alla base dei processi di categorizzazione dell’esperienza umana, un parametro di temporalità, o meglio di time- stability,10 proprietà di qualsiasi entità x che sia identica a se stessa, e solo a se stessa, in un punto a nel tempo ed anche in un punto b che segue direttamente a (Givón 1979: 320). In base a questo parametro, esistono alcune entità che l’uomo percepisce come stabili nel
9 L’Ars Grammatica di Dionisio Trace (II secolo a.C./II secolo d.C., a seconda dell’attribuzione) è inoltre la più antica opera grammaticale ad individuare le otto méros lógou “parti del discorso” della lingua greca. 10 Tempo e spazio rappresentano, secondo Givón (1979: 314-320), le due dimensioni ontologiche fondamentali sulle quali l’uomo “costruisce universi”, ovvero categorizza la sua esperienza. Tra le due, però, è quella temporale che viene considerata la prima, in quanto le entità temporali esistono al di fuori dello spazio, mentre quelle spaziali non possono esistere al di fuori del tempo (cfr. la gerarchia implicazionale exist in space > exist in time > exist : 314).
35 tempo e che tendono ad essere codificate dalle lingue come N, mentre le entità che vengono percepite come prive di time-stability tendono ad essere codificate come V.
Un’opposizione simile si trova in Croft (1991: 63-64) nei termini però di “statività” e “persistenza” nel tempo, alla base della distinzione tra stati e processi e che caratterizza anche i N prototipici, in opposizione alla “transitorietà” nel tempo, proprietà dei V prototipici.11
Il criterio semantico, al di là dei limiti che abbiamo già ricordato riguardo alla validità interlinguistica e alla difficoltà nella definizione delle nozioni pertinenti, ha il merito di introdurre nella riflessione linguistica sulle classi di parole una dimensione extra-linguistica che costituisce un’integrazione fondamentale a criteri puramente formali. Hopper & Thompson (1984, 1985) sostituiranno alle basi semantiche proposte da Lyons e Givón, che considerano insufficienti, basi funzionali di tipo pragmatico-discorsivo per la categorizzazione linguistica (cfr. infra 1.1.4.).
1.1.3. Il criterio sintattico
Esistono infine approcci alle categorie lessicali basati su un criterio esclusivamente o prevalentemente di tipo sintattico, soprattutto in relazione a lingue (si pensi al cinese) che non si caratterizzano per una morfologia particolarmente articolata e in cui il criterio morfologico non è in grado di individuare le distinzioni tra classi di parole. Il criterio sintattico si focalizza quindi sulle possibilità che le parole di una lingua hanno di riempire determinate posizioni sintattiche.12
Dal punto di vista strutturale, dunque, i N sono le parole che funzionano come argomenti o come testa di sintagmi che costituiscono argomenti, mentre i V sono le parole che funzionano come predicati. A partire dall’individuazione di queste due principali classi di parole, sarebbe possibile, almeno in parte, definire le altre sulla base delle relazioni sintattiche che presentano con esse. Come osserva Robins (1952: 294), un’analisi formale di questo tipo porta spesso a osservare forti somiglianze delle altre classi di parole con le due categorie principali del N e del V: in greco e in latino gli aggettivi presentano somiglianze con il N, mentre in una lingua come il giapponese esistono aggettivi assimilabili al V, anche se formalmente distinti (cfr. Lombardi Vallauri 2000).
11 Sul concetto di prototipo, v. infra 1.1.4.
12 Già in Bally (1944: 145-147; cf. Tesnière 1959) il valore delle categorie lessicali era stato considerato anche in base alla loro funzione sintattica: per esempio, un aggettivo serve da epiteto al nome e un nome può essere modificato solamente da un aggettivo; il carattere complementare delle relazioni fra categorie corrisponde ai rapporti sintagmatici che le parole hanno all’interno del discorso.
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Il criterio sintattico è alla base degli studi di ambito generativista, che considerano N e V come due categorie completamente distinte e polarmente opposte e che al limite possono essere trasformate l’una nell’altra attraverso processi di ricategorizzazione (cfr. Chomsky 1970). Tale posizione teoretica, però, non riesce a dare conto della diversità che caratterizza, in termini di sistemi di classi di parole, le lingue naturali.
Integrando nel paradigma generativo un’analisi interlinguistica di impronta tipologica, Baker (2003) ha tentato una definizione di carattere universale delle principali categorie lessicali, arrivando a riformulare le definizioni chomskyane di Nome, Verbo, Aggettivo e Preposizione, come riportiamo qui di seguito (adattato da Baker 2003: 21):
Chomsky Baker
Nome +N, −V Nome +N = “ha indice referenziale” Verbo +V, –N Verbo +V = “ha uno specificatore” Aggettivo +N, +V Aggettivo –N, −V
Preposizione –N, −V Preposizione è parte di un sistema differente (funzionale)
Limitandoci a osservare la definizione delle due principali categorie lessicali N e V, lo studio di Baker (2003) arriva a definire il V come la categoria che presenta uno specificatore (23) e che assegna agente e ruoli tematici (26), mentre la categoria N è quella dotata di un indice referenziale (95).13
Il criterio sintattico è stato utilizzato anche all’interno di altri filoni teorici: in ambito funzionalista, ricordiamo alcuni dei lavori di Hengeveld (1992a e 1992b; cfr. Hengeveld & Rijkoff & Siewerska 2004: 530) che, su basi tipologiche, ha classificato i sistemi di classi di parole a partire dagli slots sintattici che queste possono occupare: nello specifico, i ruoli di testa o di modificatore di sintagmi referenziali o predicativi (Hengeveld 1992a: 37, 1992b: 57-58). Secondo questa distinzione, dunque, le principali classi di parole vengono così definite:14
13 Baker (2003: 96) riconosce di condividere la posizione già di Hopper & Thompson (1984; cfr. infra
1.1.4.) e di Croft (1991) riguardo alla funzione referenziale inerentemente associata al N.
14 Tale distinzione è basata sui quattro tipi di predicazione individuati: nominale (testa di sintagma), verbale (solo uso predicativo), aggettivale (modificatore di testa nominale) e avverbiale (modificatore di testa non- nominale), v. Hengeveld (1992a e 1992b).
37 (i) Nome = lessema che può essere impiegato solo come testa di un sintagma referenziale; (ii) Verbo = lessema che può essere impiegato solo come testa di un sintagma predicativo;
(iii) Aggettivo = lessema che può essere impiegato come modificatore di un sintagma referenziale;
(iv) Avverbio = lessema che può essere impiegato come modificatore di un sintagma predicativo.15
La funzione sintattica di testa, inoltre, si caratterizza per obbligatorietà all’interno della frase, mentre i modificatori sono opzionali: N e V, quindi, ancora una volta emergono come le categorie lessicali fondamentali all’interno delle lingue.
Veniamo ora ad un ulteriore criterio per la definizione delle categorie lessicali che si affianca ai tre tradizionali che abbiamo illustrato finora e che prende le mosse proprio a partire dalla constatazione della fallibilità di questi: il criterio funzionale. Ci soffermeremo più estesamente su quest’ultimo criterio poiché è quello che riteniamo più valido e che utilizzeremo principalmente in questo lavoro.
1.1.4. Il criterio funzionale
I criteri che la tradizione grammaticale e linguistica occidentale avevano adottato per l’individuazione delle classi di parole delle lingue indoeuropee iniziano a mostrare la loro inadeguatezza con lo svilupparsi della ricerca su lingue “altre”, a partire dagli studi di Sapir e Whorf sulle lingue amerindiane all’inizio del XX secolo.
Sapir (1921) individua come base della distinzione tra le due categorie lessicali N e V, fondamentali nelle lingue del mondo, le loro rispettive funzioni altrettanto fondamentali:
“There must be something to talk about and something must be said about this subject of discourse [...] No language wholly fails to distinguish noun and verb, though in particular cases the nature of the distinction may be an elusive one. It is different with the other parts of speech. No one of these is imperatively required for the life of language.” (Sapir 1921: 126)
In una qualsiasi lingua, quindi, esistono due necessità: (i) differenziare le entità di cui parlare e (ii) predicare cose riguardo a tali entità. Alle due funzioni fondamentali della lingua, referenza e predicazione, corrispondono quindi le categorie di N e V.
15 Hengeveld considera in questi lavori solamente l’avverbio di modo (manner adverb), in quanto l’unico che svolge funzione di modificatore della testa del sintagma predicativo: avverbi di spazio e di tempo, infatti, modificano la frase nel suo complesso.
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Anche Jespersen (1924: 56-57) nota l’inadeguatezza dei criteri adottati dalla tradizione linguistica precedente, osservando la complementarità di criteri formali, sintattici ma anche funzionali per la definizione delle classi lessicali: il parlante utilizza infatti la lingua “piegandola” alle sue esigenze comunicative (“the speaker [...] inserts the words that fit in that particular situation”: 19).16
In tempi più recenti, ma con presupposti simili, Hopper & Thompson (1984, 1985) hanno individuato basi pragmatico-discorsive per le categorie lessicali N e V. In questa proposta, tali categorie non sono considerate arbitrarie, ma “iconiche”, sulla base di un principio di iconicità tra forma linguistica e funzione all’interno del discorso.17 La definizione delle due categorie lessicali di N e V è fondata sulla loro caratterizzazione in termini prototipici: il concetto di “prototipo”, infatti, è considerato come uno dei fondamenti dei processi della categorizzazione umana.18 Quindi, N e V come categorie lessicali rappresentano dei prototipi: il N o il V prototipico è quel lessema che presenta tutte le caratteristiche proprie della categoria, della quale possono far parte, però, anche lessemi più periferici che non possiedono tutte le caratteristiche del prototipo.
Hopper & Thompson (1984, 1985) riconoscono una qualche validità al criterio semantico che associa cose concrete e stabili al N e azioni dinamiche al V, ma aggiungono che per la definizione dei due prototipi di tali categorie è necessario considerare anche il parametro della loro funzione all’interno del discorso, ovvero del loro ruolo all’interno del contesto in cui vengono impiegati i lessemi (Hopper & Thompson 1984: 708). Se pensiamo al lessema fox “volpe”, che secondo il criterio semantico è un N prototipico (un’entità di primo ordine nei termini di Lyons 1977), e al lessema throw “lanciare”, che semanticamente è un V prototipico, si può facilmente osservare che il loro status di nome o di verbo è alterato a seconda della funzione che possono ricoprire all’interno del discorso. Riportiamo gli esempi presentati da Hopper & Thompson (1984: 708-709):
16 Questo è uno dei presupposti teoretici alla base della Grammatica di Categorie e Costruzioni elaborata da Simone (2006a, 2006b; cfr. 2008), a cui faremo più volte riferimento.
17 Sul concetto di iconicità linguistica, si rimandano ai lavori di Haiman (1983, 1985, 2000).
18 La nozione di prototipicalità come base dei processi cognitivi umani fu elaborata e si sviluppò a partire dai notori studi di Eleanor Rosch (1973, ad esempio) sulle modalità di categorizzazione della realtà, operazione che procederebbe non in modo arbitrario, bensì a partire dai rappresentanti centrali e più salienti di una categoria (i prototipi) in direzione dei rappresentanti periferici. Hopper & Thompson (1980), per esempio, hanno adottato questa prospettiva come base per la definizione delle proprietà prototipiche della Transitività nelle lingue del mondo.
39 [4] a. Foxes are cunning.
Le volpi sono furbe.
b. We went fox-hunting in the Berkshires.
Andammo a fare caccia alla volpe nel Berkshires.
c. Early in the chase the hounds started up an old red fox, and we hunted him all morning. All’inizio della caccia i cani fecero partire una vecchia volpe rossa, e la cacciammo tutta la mattina.
[5] a. To throw a log that size takes a great deal of strength.
Lanciare un tronco di quelle dimensioni richiede una grande quantità di forza. b. We watched the log-throwing contest.
Guardammo la gara di lancio del tronco. c. The man throwing the log slipped and fell.
L’uomo che stava lanciando il tronco scivolò e cadde. d. After the break, McTavish threw the log.
Dopo la pausa, McTavish lanciò il tronco.
Come si osserva, nel contesto discorsivo rappresentato da [4] a. il lessema fox presenta la funzione sintattica tipica del nome, ma si sta parlando di tutte le volpi in generale; in [4] b. fox è utilizzato per specificare semanticamente il predicato “cacciare”. Ciò significa che in entrambi i contesti fox non rappresenta il prototipo della categoria N, in quanto non viene utilizzato per denotare un’entità concreta e percepibile nella realtà, come invece avviene nel contesto [4] c. La funzione prototipica del N è infatti quella di introdurre dei partecipanti nel discorso.
Similmente, gli usi del lessema throw nei contesti [5] a.-c. si allontanano dalla funzione prototipica del V, che è quella di asserire nel discorso l’occorrenza di eventi: l’unico evento rappresentato da throw ad avere effettivamente luogo è quello in [5] d., in quanto in [5] a. si tratta dell’azione del “lanciare” dal punto di vista generico, che viene espressa attraverso una nominalizzazione (Nome di Processo Indefinito nei termini di Simone 2003, 2004),19 e in [5] b. e c. il lessema è utilizzato all’interno di sintagmi modificatori, non come predicato della frase.
N e V prototipici, dunque, sono due entità ontologiche massimamente distinte: l’uno presenta tutte le proprietà nominali prototipiche, l’altro tutte le proprietà verbali prototipiche. In questo modo, si apre la possibilità di immaginare un continuum di
19 Con Nome di Processo Indefinito Simone (2003, 2004) identifica quel tipo di infinito nominale ([−telico] e [+processuale]) utilizzato per esprimere il processo verbale in modo generico, senza ulteriori specificazioni, v. infra).
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Nominalità/Verbalità compreso tra i due poli di N e V prototipici e all’interno del quale si possono collocare tutti i lessemi di una lingua su basi morfologiche, sintattiche ma anche funzionali o pragmatico-discorsive.
L’idea di un continuum N-V era già stata introdotta nel notorio articolo di Ross (1972), in cui veniva avanzata l’ipotesi che le categorie lessicali N, V e A non costituissero insiemi discreti, bensì raggruppamenti ordinati, in base alle loro proprietà, lungo un gradiente ai cui estremi si collocano N e V e in cui gli A rappresentano la classe intermedia.20
Hagège (1984, 1985) rappresenta tale continuum attraverso una metafora in cui N e V rappresentano i due poli di un campo magnetico all’interno del quale le altre categorie oscillano subendo l’attrazione dell’uno e dell’altro: in opposizione ad una concezione discreta delle due categorie, ne propone una di tipo scalare, “fluida” (Hagège 1984: 28).
Altre proposte postulano che sia possibile individuare, in modo più articolato, un continuum di nominalità (nouniness) ed uno di verbalità (verbiness) come suddivisioni interne di quello N-V, più ampio. Ad esempio Sasse (2001: 498) individua tra N e V delle categorie intermedie che egli chiama vouns (forme verbali che presentano tratti di nouniness) e nerbs (forme nominali che presentano tratti di verbiness).
Simone (2008) ha analizzato, in lingue tipologicamente differenti, forme nominali su cui si possono distaccare quelli che lui chiama “coefficienti verbali”, ovvero tratti tipicamente verbali come specificazioni TAM (ex-ministro, futuro presidente, mancato marito), diatesi (come l’infinito nominalizzato in greco antico, che può presentare diatesi attiva, passiva o media), struttura argomentale (la presa del potere da parte di Luigi XIV), e così via. Anche questo studio su forme nominali che possono o non possono ricevere tali coefficienti verbali si fonda sul concetto che il continuum N-V racchiude al suo interno i continua di nominalità e di verbalità polarmente opposti: con l’acquisizione di tratti di verbalità il lessema perde tratti di nominalità “spostandosi” idealmente in direzione del polo V, e viceversa.
La prospettiva secondo la quale esiste continuità tra N e V, al di là degli elementi di discontinuità rappresentati dalle loro funzioni pragmatico-discorsive prototipiche, è ormai comunemente accettata in linguistica ed è quella che meglio riesce a dare conto della molteplicità di categorie intermedie tra N e V (come l’infinito, che abbiamo definito
41 “ibrido”: cfr. il concetto di mixed category “categoria mista” in Malouf 2006) e dei processi di transcategorizzazione presenti nelle lingue del mondo.
In realtà, importanti osservazioni sulla mobilità categoriale dei lessemi all’interno di una lingua erano già state fatte nell’ambito dello strutturalismo europeo a partire da Bally (1944), che aveva mostrato che le parole di una lingua possono appartenere a più classi, attraverso meccanismi da lui denominati di “trasposizione” (così anche in Benveniste 1969;; “traslazione” invece in Tesnière 1959):21 attraverso la trasposizione il segno linguistico, pur conservando il suo valore semantico, cambia il suo valore grammaticale per assumere la funzione di una categoria lessicale a cui non appartiene, come nel caso degli infiniti nominali che abbiamo esemplificato in [1].
Un altro tipo di trasposizione è quella che Pustejovsky (1995: 105-110) definisce type coercion “forzatura di tipo”, attraverso cui il significato di un lemma è trasferito da un tipo semantico a un altro: nella frase rompere due bottiglie di vino, bottiglie è un nome, mentre in bere due bottiglie di vino la stessa parola è utilizzata come quantificatore. A partire da questa nozione, Simone (2000, 2006a, 2006b, 2008) elabora il concetto di “forzatura di formato”, che si fonda su un meccanismo metonimico per cui un significato può espandersi da un lessema ad un altro in virtù di una qualche contiguità semantica. All’interno della sua Grammatica di Categorie e Costruzioni, ribadendo l’importanza del fattore pragmatico-discorsivo nell’analisi sulle classi di parole, Simone (2006a e 2006b) individua in questi meccanismi di trasposizione (che distingue in trasposizioni di vario tipo, tra i quali quella da una categoria lessicale ad un’altra) delle vere e proprie “operazioni discorsive”22 attraverso le quali i parlanti “piegano” le risorse sistemiche a loro disposizione secondo i loro scopi comunicativi.23
Infine, dobbiamo precisare che esistono differenze significative tra le lingue rispetto al grado di flessibilità delle categorie N e V, e quindi anche rispetto alla configurazione del continuum:24 questo fatto è particolarmente evidente nella zona
21 Cfr. anche il concetto di “trasposizione di livello” illustrato in Simone (2006a, 2006b e 2008) con una prima elaborazione già in Benveniste (1969).
22 Cfr. il concetto di operazioni “enunciative” in Culioli (1968), che si fonda sull’enunciazione intesa come luogo di mediazione tra gli aspetti grammaticali e pragmatici del linguaggio. A partire da questa posizione teoretica Simone (2006a, 2006b) elabora la distinzione tra le due nozioni di sistema e discorso alla base della sua Grammatica di Categorie e Costruzioni.
23 Dalla dimensione del discorso, inoltre, questi fenomeni di ricategorizzazione possono fissarsi nel sistema, con modalità che Simone (2000, sui nomina actionis dal latino alle lingue romanze) ha definito cicliche: certi tipi di slittamento categoriale tenderebbero, all’interno delle lingue, a seguire percorsi predefiniti da una categoria all’altra in virtù di proprietà semantiche e pragmatiche.
24 Gaeta (2002: 35) parla di “gradualità della forza di nominalizzazione” a livello interlinguistico: le lingue stesse si potrebbero disporre lungo un continuum compreso tra i poli (prototipici) della massima e della minima distinzione tra le categorie N e V.
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centrale del gradiente, dove i confini tra nominalità e verbalità si fanno meno netti e compaiono le categorie miste. Si pensi ad esempio al participio in latino e nelle lingue romanze, forma verbale che presenta lo stesso tipo di flessione e di funzione dell’aggettivo,25 o ai nomina actionis, forme nominali con tratti tipicamente verbali come struttura argomentale e aspettualità.26