3. L’infinito come [+V]
3.1. Il concetto di finitezza e l’infinito verbale
Tradizionalmente, le grammatiche distinguono tra forme finite e non-finite del verbo in un modo tanto semplice quanto, in realtà, problematico: le forme finite (dal latino finitus “finito, limitato, determinato”) sono quelle “limitate”, appunto, da specificazioni di persona, numero, tempo, aspetto, modo, etc.; le forme non-finite, invece, sono quelle non marcate per tali categorie.
Questa distinzione è basata soprattutto sulle lingue europee, in cui oltre all’opposizione funzionale tra forme finite (frasi principali) e non-finite (frasi non principali) corrisponde anche una distinzione in termini morfologici.
In realtà, già all’interno delle lingue romanze esistono apparenti “eccezioni” a questa distinzione: in francese, per esempio, il congiuntivo può comparire solamente in frasi dipendenti, ma conserva tuttavia le specificazioni di tempo e persona, venendo considerato così una forma finita;; oppure in portoghese esiste l’infinito flesso, che è una forma non-finita specificata, però, per la persona.
Inoltre, la distinzione tra forme verbali che possono o non possono essere impiegate in modo indipendente non ha validità interlinguistica assoluta: nelle lingue isolanti, come il cinese, i verbi compaiono nella stessa identica forma sia in funzione indipendente che dipendente; ma anche in lingue morfologicamente più ricche tale distinzione può essere assente, come nel caso del lakhota (lingua sioux), che semplicemente pospone l’articolo determinativo alla forma flessa del verbo quando usato in contesto dipendente, o ancora delle lingue del gruppo algonchino in cui esiste una distinzione tra modi dipendenti e indipendenti, ma non esistono forme verbali che potrebbero essere considerate non-finite secondo criteri morfologici (Koptjevskaja-Tamm 1994: 1247-1248).
L’opposizione finito ~ non-finito è stata applicata anche alla frase, in base al tipo di verbo che costituisce la testa del predicato verbale. In ambito generativista, la frase finita è distinta da quella non-finita in base, rispettivamente, alla presenza e all’assenza di specificazione per (i) la categoria del Tempo (T) e (ii) accordo verbo-soggetto (Agr; presenza di marche esplicite di accordo con un soggetto in nominativo).42
Considerare la finitezza come correlata solo alla flessione, però, implicherebbe che lingue in cui la morfologia non è articolata o è quasi assente non dispongano di una distinzione strutturale equivalente tra finito e non-finito: la morfologia verbale non è
42 Per una trattazione più estesa e più specifica della nozione di finitezza negli ambiti teorici di tipo formale, si rimanda a Nikolaeva (2007, Capitoli 2 e 3).
52
quindi un criterio valido per stabilire la natura finita o non-finita della frase dipendente (Vincent 1998; cfr. Anderson 2001, 2007).43
Dunque, a partire dal presupposto che le proprietà coinvolte nella definizione della finitezza non hanno valore universale perché la finitezza possiede realizzazioni morfosintattiche differenti a livello interlinguistico, in ambito funzionalista esistono alcune proposte teoriche che cercano di dare conto anche del “contenuto”, o meglio della motivazione concettuale, di tale nozione.
Halliday (1985: 182-ss), sulla base dei verbi inglesi, definisce la finitezza in termini di specificazioni grammaticali per tempo e modalità sul verbo (indicativo, condizionale, e forme introdotte da vari ausiliari): tali specificazioni, però, non sono considerate come semplici mezzi flessivi che definiscono la finitezza, bensì come dispositivi che hanno la funzione di collocare lo state of affairs descritto rispetto all’atto linguistico in corso. In questo senso, la finitezza consiste nella presenza di tali mezzi sul verbo, con una specifica funzione pragmatico-discorsiva.
Similmente, nell’ambito della linguistica cognitiva, secondo Langacker (1987: 126-129) le frasi di modo finito hanno la funzione di designare un’entità dotata di uno sfondo (ground) di tipo processuale: il grounding è la funzione semantica attraverso cui un’entità cognitiva è collocata rispetto a un determinato ground, che può essere rappresentato dall’atto linguistico, dai suoi partecipanti, dalle sue immediate circostanze. Il ground rappresenta dunque il modo in cui il parlante “vede” la scena che codifica linguisticamente.
In ambito funzionalista, quindi, la finitezza è vista anche come strettamente correlata a parametri di tipo semantico-pragmatico che hanno a che vedere con la percezione degli eventi e degli states of affairs che a livello di codifica linguistica prendono una determinata configurazione.
Givón (2001a [1984]: 149-153, 2001b [1984]: 40-41; e similmente anche Dik 1997: 144-168) ha suggerito che eventi percepiti come dipendenti, ovvero privi di una prospettiva indipendente, vengono concettualizzati di preferenza come componenti di eventi principali: la dipendenza/integrazione semantica di un evento in un altro si rifletterebbe quindi anche nella dipendenza/integrazione sintattica rispetto alla principale della frase che rappresenta tale evento a livello linguistico (cfr. anche Lehmann 1988). In
43 Cfr. anche Noonan (1985: 56-57) che, a proposito della complementazione infinitiva (non flessa), tradizionalmente opposta a quella al congiuntivo (flessa per persona, tempo e numero), osserva che una simile distinzione non porta ad una classificazione particolarmente utile, e anzi dimostra che esiste invece una serie di somiglianze tra complementi infinitivi e al congiuntivo, in termini di specificazioni che possono codificare.
53 questa prospettiva, la finitezza è concepita quindi come “a systematic grammatical means used to express the degree of integration of a clause into its immediate clausal environment” (Givón 2001a [1984]: 149; cfr. Lehmann 1988: 200). Il concetto stesso di dipendenza sintattica della frase è quindi utilizzato per codificare la dipendenza tematica di un evento/stato nel suo contesto discorsivo: mentre alcuni tipi di dipendenza di frase possono essere espressi in termini di relazioni puramente sintattiche, la dipendenza tra frasi, così come l’integrazione tra eventi, si colloca anche sul piano della coerenza del discorso.
La finitezza, quindi, è una proprietà della frase, anche se è il predicato che può manifestarne morfologicamente dei tratti. Proprio nella dimensione della frase, Klein (1998) ha individuato il prototipo della finitezza nella modalità assertiva (cfr. Anderson 2007, per il quale il prototipo di frase finita è la dichiarativa), e, sempre nelle modalità di frase, in tempi più recenti Maas (2004: 361) oppone “finitezza morfologica” a “finitezza semantica”, distinguendo così i vari set morfologici che possono caratterizzare le forme finite del verbo dalla specificazione di tipo pragmatico della frase nella sua totalità. Per Givón, invece, il prototipo di frase finita è rappresentato dalla frase transitiva prototipica: tra le principali proprietà sintattiche di questa, ricordiamo (i) la presenza di specificazioni TAM, (ii) la presenza di marche di accordo morfologico verbo-soggetto, (iii) la presenza di marche morfologiche per soggetto e oggetto. A queste principali proprietà, Bisang (2007: 118) aggiunge (iv) la presenza di una marca per il topic, ovvero del soggetto della frase.
In ambito funzionalista, dunque, la nozione di finitezza è correlata con la vicinanza di una frase al prototipo di frase finita all’interno di una determinata lingua: una frase si configura dunque come [± finita] in base al numero di proprietà che mostrano di deviare da tale prototipo. Anche la finitezza, dunque, come la nominalità o la verbalità di un lessema, è una proprietà scalare e complessa, composta da molteplici proprietà: del predicato in termini di morfologia, ma anche della frase in termini di modalità, o di integrazione. Per dare conto dell’interazione di questa molteplicità di fattori coinvolti nella nozione di finitezza, Givón (2001b [1984]) la definisce, in modo molto efficace, un “meta-fenomeno”.
Come avevamo già mostrato per la nominalizzazione (v. il continuum di desentenzializzazione in Lehmann 1988 riportato in 2.1.1.), la riduzione strutturale di una frase coinvolge la perdita di proprietà verbali (specificazioni TAM e di accordo personale, per esempio) da parte del verbo che rappresenta il predicato dipendente:
54
quanto più il predicato dipendente è concepito come integrato in quello principale, tanto più la sua forma tenderà ad essere “ridotta” nei termini appena menzionati.44
Secondo l’approccio funzionalista, quindi, finitezza e non-finitezza costituiscono i due estremi del continuum di desentenzializzazione, sovrapponibile a quello V-N: quanto più una frase si configura come integrata alla principale dal punto di vista semantico- cognitivo, tanto più la forma del suo predicato tenderà verso il polo nominale/non-finito; viceversa, quanto più una frase codifica un evento percepito come autonomo/non integrato, tanto più il suo predicato tenderà alla verbalità/finitezza.
Questo approccio considera, inoltre, che il processo di riduzione (downgrading in Givón 2001b [1984], deranking in Cristofaro 2003 e Croft 2009 [1990]) avvenga sulla base di parametri language-specific, cosicché il grado e le modalità secondo cui la frase non-finita/nominalizzata differisce da quella principale sono soggetti a grande variabilità, a livello interlinguistico:45 Givón (2001b [1984]: 26-29) distingue infatti lingue che prediligono strutture di nominalizzazione (embedding) per codificare la dipendenza e lingue che prediligono invece strutture finite, comprese tra i due poli di quelle “massimamente nominalizzanti” (come l’uto-azteca Ute o le lingue della famiglia tibeto- birmana) e “massimamente finite” (come l’Irochese, o il Senufo, lingua della famiglia Niger-Congolese).
Alla luce di queste premesse, torniamo ora all’infinito [+ verbale]. In generale, all’interno delle lingue romanze, l’infinito può essere a pieno titolo considerato una forma non-finita del verbo: non è specificato per tempo (esiste l’infinito passato, ma non indica un tempo indipendente: cfr. il principio della dependent time reference: Dik & Hengeveld 1991 e Hengeveld 1998), non presenta accordo morfologico con il soggetto (anche se sappiamo che non è così per il portoghese).
Rispetto al latino, inoltre, l’infinito romanzo è forma ancora più ridotta, dal punto di vista delle specificazioni che può codificare: come mostrano Ferraresi & Goldbach
44 Una trattazione più estesa e approfondita del concetto di integrazione tra dipendente e principale si trova nel Capitolo 2, a proposito delle costruzioni causative e percettive del portoghese moderno.
45 Cristofaro (2003: 129) elabora, su basi tipologiche, una scala di deranking del predicato dipendente in base al tipo di contesto dipendente: cfr. Capitolo 2: 2.1.4. Anche Hengeveld (1998: 353-ss.), in base al raffronto tra più di 40 lingue tipologicamente differenti e fondandosi sul concetto di dipendenza, in linea con Givón (2001 a-b [1984]), individua varie gerarchie su cui si basa l’opposizione tra forme indipendenti ([+finite], usate in frase matrice) o dipendenti ([−finite], usate in frase subordinata): una gerarchia di dipendenza temporale (dipendent time reference per le forme dipendenti; indipendent time reference per quelle indipendenti); una gerarchia di fattualità che oppone forme dipendenti (factual) a forme indipendenti (non-factual) e una gerarchia di presupposizione, che oppone forme presupposte (dipendenti) a forme non presupposte (indipendenti). La posizione di Hengeveld (1998), però, presuppone l’esistenza di distinzioni morfologiche tra forme dipendenti e indipendenti del verbo: non può essere applicata a lingue in cui tale distinzione non si manifesti morfologicamente.
55 (2003: 242;; cfr. Cerbasi 2006), in latino l’infinito poteva essere morfologicamente specificato per tempo (passato amavisse, presente amare, futuro amaturus esse) e per diatesi (passiva amari, attiva amare). Inoltre, anche se non specificato morfologicamente per modo, aspetto e persona, l’infinito latino poteva essere utilizzato in determinate costruzioni analitiche ed assumere così specificazione modale e aspettuale: amaturus fuisse “essere stato sul punto di amare” (Irrealis), amatus fuisse “essere stato amato”, amatus fore “essere amato (nel futuro)”, amatum iri “essere amato (nel futuro)”.
Nel corso della diacronia, però, l’infinito latino perde questa “duttilità”, e l’infinito romanzo si configura come forma più ridotta non solo morfologicamente, ma anche funzionalmente, benché, come nota Cerabsi (2006), alcune lingue recuperino determinate funzioni verbali dell’infinito in altre direzioni, come è il caso dell’IF portoghese che sviluppa la flessione per persona e numero.
Una caratteristica [+verbale] dell’infinito romanzo è la possibilità di essere usato “personalmente”, ovvero di avere un soggetto in caso nominativo. Questa caratteristica è propria, oggi, solo del portoghese e in parte dello spagnolo, che però in fasi antiche della lingua ha conosciuto tale impiego in misura piuttosto estesa, anche in comparazione con altre lingue come l’italiano e il francese. Queste ultime due lingue, infatti, hanno conosciuto in misura minore l’uso dell’infinito con soggetto al nominativo, e solamente in fasi antiche (cfr. Mensching 2002, Cerbasi 2006). I contesti in cui compare il soggetto nominativo dell’infinito sono le subordinate avverbiali introdotte da preposizione (ant. sp. sin quedar herido el caballero “senza che il cavaliere rimanesse ferito”: dalle Novelas de Cervantes, 10; ant. port. por eu não ser dina “per non essere io degna, poiché non sono degna”: da Obras de Gil Vicente),46 innovazione romanza rispetto al latino in cui invece l’uso del nominativo con infinito era previsto solo in costruzioni personali (Homerus traditur caecus fuisse) e che altrimenti associava all’infinito un soggetto in caso accusativo (costruzioni AcI: Dico Homerum caecum fuisse).
La presenza del soggetto in nominativo, inoltre, è una delle caratteristiche sintattiche fondamentali delle forme finite del verbo, insieme alla presenza di marche che codificano specificazioni TAM (Givón 1995a: 34). L’infinito romanzo, quindi, acquisisce rispetto a quello latino questo tratto [+ verbale/finito].
Le subordinate avverbiali rappresentano, inoltre, un contesto sintattico dotato di più autonomia rispetto alla principale che non le completive: si ha dunque un tratto di
46 Esempi da Diez (1876: 234).
56
[+verbalità] dell’infinito (soggetto in nominativo), che si manifesta in un contesto di [−integrazione] (subordinata avverbiale).
L’infinito portoghese, in più, ha sviluppato un paradigma flessivo di accordo con il soggetto in caso nominativo: in questo senso si configura già, a livello morfologico, come l’infinito dotato del maggior grado di verbalità/finitezza all’interno delle lingue romanze (cfr. il continuum di verbalità dell’infinito di Cerbasi 2006 riportato in (A) al paragrafo 1.1.4.).
Quanto alle specificazioni TAM, altra fondamentale caratteristica delle forme [+verbali], abbiamo già osservato che l’infinito romanzo ha perso la funzionalità temporale/modale che possedeva invece in latino. Tuttavia, l’infinito conserva la specificazione aspettuale [+ processuale] (come abbiamo già visto anche per l’infinito nominale) e anche [+ telica] con l’infinito perfetto (mangiare ~ avere mangiato).
Nel corso di questo lavoro vedremo con maggiore precisione e specificità le caratteristiche dell’infinito portoghese, sia flesso che semplice. Con queste osservazioni preliminari sulla natura “ibrida” dell’infinito, che presenta caratteristiche nominali e verbali, abbiamo illustrato anche la sua natura “ibrida” in termini di finitezza e non- finitezza, correlati alle caratteristiche di verbalità e nominalità.
Sulla base di questi presupposti teorici, avremo modo di osservare in diversi comparti della lingua reale le possibilità dell’infinito portoghese di essere impiegato come strategia subordinativa, in virtù della sua natura morfologicamente più specificata, ma anche funzionalmente più varia rispetto all’infinito di altre lingue romanze.
59
Seconda Introduzione
L’INFINITO FLESSO PORTOGHESE
Morfologia e contesti d’uso
A completamento della sezione introduttiva, illustriamo in forma schematica la morfologia e i contesti d’uso dell’infinito flesso nel portoghese moderno. È opportuno, infatti, avere un’idea preliminare delle varie funzioni di questa forma verbale prima di passare all’analisi più dettagliata degli aspetti salienti di questa ricerca. Nella sezione 1. si dà conto della morfologia dell’infinito flesso per tutte e tre le coniugazioni del portoghese, mentre nelle sezioni 2./3. e 4. si mostrano, rispettivamente, i contesti in cui l’infinito flesso può e non può comparire. Nella sezione 5., infine, si illustra sinteticamente la struttura di questo lavoro.