(CAIRE Consorzio)
L’innovazione sociale è un modello di sviluppo di nuove forme di orga-nizzazione e di relazione tra soggetti diversi per dare risposta a problemi sociali o a grandi sfide trasformative. Nel primo caso si intende rispon-dere in maniera innovativa a bisogni sociali ben identificati e non ancora soddisfatti dall’azione pubblica o di mercato attraverso prodotti, servizi, modelli organizzativi e produttivi, attivando ibridazioni e collaborazioni tra il mondo della ricerca, delle imprese, della pubblica amministrazione e della società civile, nel contesto socio-ecologico di riferimento (Quin-tupla Elica). Nel secondo caso invece entrano in gioco le politiche e i processi di attuazione delle stesse che coinvolgono i cittadini attraverso azioni di co-design, sviluppo locale partecipativo e innovazione di comu-nità con l’obiettivo di affrontare le sfide sociali complesse e aumentare la resilienza dei territori.
L’innovazione sociale, in sostanza, ruota attorno a quattro elementi fon-damentali:
• l’innovazione capace di generare valore condiviso;
• la risposta a bisogni sociali insoddisfatti;
• la trasformazione delle relazioni sociali;
• la resilienza dei soggetti e dei territori coinvolti.
I modelli di intervento e le pratiche proprie dell’innovazione sociale ri-chiedono che si verifichino alcune condizioni fondanti: la produzione di innovazione centrata su bisogni specifici, e quindi l’analisi degli effetti di medio-lungo periodo; la strutturazione di processi collaborativi in for-ma reticolare e aperta, modificando anche la governance dei sistemi di innovazione; la distribuzione diffusa, equa e universale delle innovazioni prodotte; l’identificazione ex ante degli impatti sociali generabili e l’u-tilizzo della teoria del cambiamento per gestire e monitorare gli stessi.
La valutazione sull’appropriatezza dell’innovazione sociale si basa anche sulla reattività della cittadinanza e sulla vicinanza ai bisogni espressi: in aggiunta alle performance economiche e finanziarie è necessario dotarsi di strumenti di valutazione, misurazione e monitoraggio delle politiche e dei progetti che garantiscano apertura e trasparenza. In questi processi è anche fondamentale il ruolo delle organizzazioni dell’economia sociale e degli innovatori sociali come catalizzatori di processi e modelli terri-toriali, hub di competenze condivise e connettori tra industria, ricerca e settore pubblico nella definizione delle sfide e dei bisogni e
nell’attiva-INNOVAZIONE SOCIALE
zione dei territori.
Infine, la strutturazione di nuove forme di sostegno all’innovazione può aiutare la diffusione e la crescita delle innovazioni sociali. Tra queste figurano: appalti pre-commerciali, procurement per l’innovazione socia-le, clausole e criteri di valutazione sociale nel finanziamento a progetti di innovazione, finanza orientata al risultato e finanza di impatto, social outcome contracting, modelli di co-programmazione e co-progettazio-ne territoriale.
Le pratiche e i modelli di innovazione sociale per la rigenerazione urbana mettono le persone e le comunità al centro delle trasformazioni urbane, producendo impatto sia sulla forma della città che sulla qualità delle relazioni che si sviluppano nel contesto urbano (capitale relazionale e sociale). In particolare, l’utilizzo aperto e condiviso dei dati per il miglio-ramento della qualità degli spazi, la partecipazione della società civile e della cittadinanza nella definizione delle strategie per la trasformazione generativa degli spazi della città, lo sviluppo di servizi a supporto delle fasce più deboli della popolazione (welfare di comunità) e di coloro che vivono in condizione di povertà, anche energetica, possono supportare lo sviluppo di pratiche inclusive per la valorizzazione e riattivazione dei luoghi.
La creazione di valore non solo economico ma sociale condiviso è al cen-tro degli interessi degli attori appartenenti al settore pubblico, all’eco-nomia di mercato e sociale, alla società civile e alle comunità territoriali che si apprestano a realizzare iniziative di trasformazione del territorio secondo metodi di innovazione sociale: azioni di questo tipo richiedono una governance condivisa e una leadership forte del settore pubblico come investitore e innovatore.
L’innovazione sociale, quindi, viene perseguita non solo come intervento mirato su problemi sociali ma in quanto può determinare un cambiamen-to complessivo dei sistemi socio-tecnici e terricambiamen-toriali, tancambiamen-to sul fronte economico, quanto su quello ambientale e sociale. Le stesse politiche basate sulle grandi sfide di lungo periodo, come Agenda 2030, hanno tra gli obiettivi quello di rispondere a questa esigenza di operare trasforma-zioni di sistema, e di farlo a partire da nuove direzionalità, definite tra-mite una scelta politica e il consenso condiviso con gli attori, la società e i territori.
a cura di
Kristian Mancinone
(Art-ER)
Le relazioni tra economia, territorio e socialità, regolate urbanisticamen-te sui modelli ereditati dalla storia ma sviluppati nel dopoguerra attra-verso sistemi di pianificazione che avrebbero dovuto gestire la crescita urbana senza purtroppo riuscirci, sono cambiate e si sono trasformate con l’avvento della rivoluzione digitale e dell’introduzione del concetto di economia circolare. Questi due fenomeni, dovuti da un lato al pro-gresso tecnologico e dall’altro alle necessità dello sviluppo sostenibile, hanno di fatto cambiato e stanno continuamente cambiando i parametri di riferimento delle nostre attività, dei nostri luoghi, della nostra stessa vita, compreso quello del lavoro. Lo scenario lineare del modo di pro-duzione industriale fordista del secolo scorso, che aveva nell’organizza-zione territoriale della città il suo fulcro principale, è stato soppiantato dapprima dallo sviluppo molecolare dell’economia diffusa e dispersa, anche urbanisticamente, sul territorio, per giungere oggi alle logiche del modo di produzione digitale e dell’economia collaborativa, che di fatto spostano l’attenzione dai prodotti ai processi, dalle cose alle funzioni, dal “cosa produco” al “come produco”. Per il lavoro è una rivoluzione e il digitale è la chiave di questo cambiamento, perché il digitale cambia le nostre relazioni, il modo stesso attraverso il quale comunichiamo e ormai viviamo. Il digitale cambia anche il lavoro, con una accelerazione data dalla pandemia che non ha ancora esaurito ed esplicitato il nuovo rap-porto tra lavoro e luoghi del lavoro. La rigenerazione urbana e territoria-le deve tener conto di queste nuove condizioni strutturali dell’economia e della società, che sono condizioni della socialità, in quanto il lavoro si confronta da sempre con i luoghi del lavoro. Ma se il luogo di lavoro è la propria abitazione allora si deve ridisegnare il rapporto tra il singolo
LAVORO
e la società, tra il lavoratore e la comunità, tra la persona e la città, tra i luoghi di lavoro e il territorio. La rigenerazione in questo senso va intesa come superamento della separazione, una separazione che la pandemia ha acuito. La sfida è rendere il lavoro produttore di socialità. La città era il luogo del lavoro, perché le fabbriche erano in città, ma le fabbriche producevano anche la città, quella parte di città non costituita dagli edi-fici e dalle strade, ma la città delle persone, dei lavoratori e delle loro famiglie. La città, nella sua organizzazione, è sempre stata il luogo delle relazioni, ma se osserviamo le imprese, le fabbriche, i luoghi della pro-duzione, sono anch’essi luoghi di relazioni, relazioni che nel tempo hanno saputo esprimersi in modo sociale ad esempio attraverso i movimenti dei lavoratori e le organizzazioni del lavoro, che costituivano un ponte tra il “dentro la fabbrica” e il “fuori la fabbrica”, tra il tempo del lavoro e quello della vita, tra la fabbrica e la città. Nell’era digitale, dello smart working e della nuova condizione del lavoro (soprattutto pensando alle nuove generazioni), dove è più importante “come” produco che “cosa”
produco, la rigenerazione deve guardare alla città, al territorio, al lavoro e alla socialità come luoghi di relazione. La città è luogo di relazione, ma lo è anche il lavoro, e dunque è in questa logica che gli spazi, sia quelli materiali che quelli immateriali, devono essere pensati, in funzione di una rigenerazione che deve essere materiale, le cose da rigenerare, ma an-che immateriale, ovvero i modi attraverso i quali costruiamo le condizioni della nuova socialità attiva e inclusiva.
a cura di
Federico della Puppa
Come ha recentemente documentato l’Istat nel 2020 la diffusione della pandemia da Covid-19 e il forte aumento del rischio di mortalità che ne è derivato hanno interrotto bruscamente la crescita della speranza di vita alla nascita che era proseguita fino al 2019: in Italia nel 2020 questo decisivo indicatore si è attestato a 82 anni (79,7 per gli uomini e 84,4 per le donne), facendo registrare rispetto all’anno precedente una contrazione di 1,2 anni. A livello provinciale la speranza di vita si è ridotta maggiormente nelle aree del Paese a più alta diffusione del virus durante la fase iniziale della pandemia, con valori particolarmente negativi nelle province di Bergamo, Cremona e Lodi dove la speranza di vita per gli uo-mini si è ridotta rispettivamente di 4,3 e 4,5 anni, seguite dalla provincia di Piacenza (-3,8 anni); negli stessi territori sono state ingenti anche le variazioni riscontrate per le donne (-3,2 anni per Bergamo, -2,9 anni per Cremona e Lodi e -2,8 anni per Piacenza). In Emilia-Romagna la speran-za di vita alla nascita si è ridotta da 83,6 a 82,4 anni (80,2 per gli uomini e 84,7 per le donne) e si conferma quindi nel 2020 su valori lievemente superiori alla media nazionale.
La riduzione della speranza di vita alla nascita evidenzia il drammati-co impatto della pandemia in termini di drammati-contagi, ridrammati-coveri e soprattutto decessi nella popolazione anziana: fra le oltre 130.000 persone finora decedute con Covid-19 oltre il 95% aveva un’età superiore a 59 anni (e precisamente 10,4% fra 60 e 69 anni, 25,2% fra 70 e 79 anni, 40,2% fra 80 e 89 anni e infine 19,3% con 90 anni e oltre). Il tasso di letalità è stato del 2,7% fra 60 e 69 anni e poi sale rapidamente, con valori pari a 9,2% fra 70 e 79 anni, 19,8% fra 80 e 89 anni e 27,7% per le persone con 90 anni e più.
La pandemia ha così evidenziato brutalmente la condizione di fragilità di salute di una quota rilevante di persone anziane, che in precedenza era-no afflitte da una o più patologie gravi. Hanera-no così trovato drammatica
LONGEVITA’
conferma le statistiche diffuse da Eurostat che evidenziavano da tempo come in Italia la speranza di vita fosse più elevata rispetto agli altri Paesi europei, ma si associasse a condizioni di salute peggiori.
La dimensione della salute si evidenzia quindi centrale in ogni prospet-tiva di buona longevità, soprattutto in un quadro demografico che vedrà nei prossimi decenni aumentare ulteriormente il numero assoluto del-le persone anziane che dovrebbero raggiungere entro il 2045 in Italia e nella nostra regione un’incidenza relativa pari a circa un terzo della popolazione complessiva, con un incremento relativo molto rilevante soprattutto nella fascia di età superiore ai 79 anni. Mantenere il più a lungo possibile una condizione di salute soddisfacente è infatti il presup-posto per assicurare una completa autosufficienza fisica e psichica della persona anziana e affrontare con successo le altre sfide della longevità, rappresentate dalle profonde trasformazioni delle forme di convivenza familiare e sociale, dalla diffusa e persistenze presenza di barriere ar-chitettoniche negli spazi di vita interni ed esterni all’abitazione e dalla precaria condizione economica di una quota non trascurabile anche se minoritaria di persone anziane.
La pandemia ha infine posto in rilievo il ruolo decisivo delle tecnologie digitali per assicurare la continuità della vita sociale, culturale ed eco-nomica. Molte persone anziane sono però rimaste parzialmente o com-pletamente escluse da queste dinamiche relazionali per la loro incapaci-tà di sfruttare pienamente queste forme di connessione. Bisogna quindi porsi con determinazione e urgenza l’obiettivo di superare il più possibile queste barriere digitali, attraverso iniziative diffuse di formazione e fa-cilitando anche la possibilità di delegare ad altri familiari o persone di fiducia l’accesso ad alcune piattaforme di interesse pubblico e di utilizzo generale.
a cura di
Gianluigi Bovini
(ASviS)
Il master plan è un documento di pianificazione dinamico e di lungo pe-riodo, che fornisce un quadro di riferimento per guidare le trasformazioni di un determinato ambito: di iniziativa pubblica, privata o mista è finaliz-zato a produrre una visione coerente e condivisa – ad esempio una idea di città o di territorio – da perseguire nel tempo, coordinando l’azione di una pluralità di soggetti e attingendo a risorse diverse.
Collocandosi nell’intersezione tra pianificazione e disegno urbano, il ma-ster plan si occupa tanto di trasformazioni fisiche dello spazio che di po-litiche, di opere pubbliche come di iniziative private e istanze della col-lettività. Soprattutto deve occuparsi della reciproca relazione tra questi e del loro coordinamento. Sfruttando la malleabilità del termine ne dia-mo una definizione nel quadro della rigenerazione urbana, della quale può essere considerato con buona ragione uno degli strumenti principe.
Il master plan può essere interpretato come uno strumento innovativo e sperimentale che deve trovare nel suo percorso di sviluppo le ragioni e le modalità per la propria realizzazione. Non ha, infatti, una sua cogenza normativa o vincolistica, non ha una dotazione di fondi né una sua di-retta valenza programmatoria rispetto all’utilizzo di capitoli di spesa. E’
uno strumento leggero, là dove si vuole intendere questo attributo come snello e rapido, rispetto ai molti livelli della pianificazione territoriale esistenti. Non ambisce ad essere un ulteriore livello pianificatorio quanto piuttosto uno strumento di indirizzo, di strategia ma anche di tattica, per la trasformazione di uno specifico e ben definito ambito di interven-to. Ma per non essere leggero nel senso deteriore del termine, ovvero inconsistente ed effimero, occorre che si radichi nella realtà materiale, che trovi alleanze così da dotarsi di “gambe”, per poter scaricare a terra
MASTERPLAN
i propri contenuti. In questo senso i rapporti virtuosi che saprà stabilire con i portatori di interessi locali, con la realtà sociale economica e cultu-rale del territorio, con i soggetti privati intenzionati ad investire, sono di primaria importanza. Tanto più un master plan è in grado di catalizzare e stimolare risorse, incanalandole ed indirizzandole verso i propri fini, tan-to più avrà possibilità di incidere sulla realtà e di raggiungere gli obiettivi che si è dato.
Tra i suoi contenuti possono trovare risposta alcuni o tutti i seguenti compiti:
• Sviluppare un programma in fasi, identificando le priorità per l’attua-zione
• Agire da quadro per la rigenerazione, ad esempio per attrarre investi-menti del settore privato o contributi della società civile
• Individuare e articolare le risorse necessarie alla trasformazione
• Definire l’armatura della città pubblica, intesa come spazi pubblici e servizi
• Determinare il mix di funzioni la loro relazione
• Coinvolgere la comunità locale e agire come costruttore di consenso
• Costituire un palinsesto per il coordinamento di politiche di settore, progetti pubblici e privati
Poichè le iniziative di rigenerazione sono generalmente proposte a lungo termine, è importante considerare il master plan come un documento dinamico che può essere modificato in base alle mutevoli condizioni del progetto nel tempo.
a cura di
Lorenzo Baldini
(CAIRE Consorzio)
Metromontagna è parola nuova, neologismo inventato dal geografo Giu-seppe Dematteis, che racchiude in sé un proposito radicale: riunire sotto un unico sguardo ciò che ci appare da tempo diviso, decostruendo la contrapposizione e l’alterità tra aree metropolitane e aree interne, tra città e montagne. Questo drastico cambiamento del punto di vista ap-pare necessario e illuminante, in una fase come quella che stiamo attra-versando e per un territorio come quello del nostro paese, caratterizzati entrambi da una crisi della centralità urbana e da un ripensamento dei rapporti tra centri e periferie.
In fondo non è altro che un ritornare, a partire da una visione contem-poranea, a quell’intreccio di sistemi policentrici di medie e piccole città in stretta relazione con i loro contadi e montagne che è sempre stata la cifra – al contempo culturale, insediativa, produttiva – del nostro Paese.
Durante la modernità novecentesca, e poi in modo sempre più accelera-to durante gli ultimi decenni, si è pensaaccelera-to che le grandi aree metropoli-tane fossero le uniche in grado di garantire lo sviluppo, ridistribuendolo ai territori circostanti.
Non solo questo meccanismo ha generato forti disequilibri e oggi si è inceppato, ma si inizia a pensare che in un’ottica di sostenibilità, di equità e abitabilità territoriale, di sviluppo integrato, di opportunità di acces-so ai servizi, di valorizzazione delle riacces-sorse locali, sia necessario passare dalla contrapposizione e dalla dipendenza a una nuova idea di alleanza, complementarietà e cooperazione tra territori.
E’ un tema, innanzitutto, di costruzione di una inedita cultura territoriale.
Da diversi anni in questo paese mancano spazi concettuali e istituzionali intermedi per l’elaborazione e la pratica di questa nuova cultura. Attenta verticalmente ai territori, e capace di instaurare orizzontalmente
relazio-METROMONTAGNA
ni e reti lunghe. In grado di mediare le ragioni globali con quelle locali, restituendole in termini positivi e produttivi.
E’ una dimensione, quella metromontana, che richiede nuovi atlanti e nuove mappe che mostrino alla politica la possibilità di non governare con la montagna alle spalle e lo sguardo speranzoso alla sola pianura, come se i piccoli centri, le vallate e gli spazi rurali non potessero gene-rare sviluppo, benessere, abitabilità. Le politiche separano sulla base di confini che hanno natura amministrativa, in base a criteri disegnati dai centri o in funzione della ricerca del consenso politico, e solo raramen-te accompagnano e valorizzano le inraramen-terdipendenze funzionali, i flussi di risorse e le persone che vivono e lavorano a cavallo di questi confini.
La valorizzazione del policentrismo richiede politiche di connessione tra territori capaci di generare nuovi mercati, di costruire reti di servizi e in-frastrutture, di contrastare l’infragilimento e gli effetti del cambiamento climatico.
I territori italiani rappresentano uno straordinario laboratorio e incuba-tore per mettere alla prova questa nuova cultura territoriale che così importante potrebbe essere per l’intero Paese. La metromontagna come uno spazio contemporaneo dove sperimentare nuove strade e dimen-sioni: facendo diventare la produzione di culture il motore di sviluppo dei territori, ridispiegando i modi con cui welfare e servizi si danno in rapporto ai luoghi, supportando la green economy e l’innovazione, im-maginando una nuova idea di infrastrutturazione territoriale, favorendo la rivitalizzazione degli spazi abbandonati nel corso del Novecento.