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IL GLOSSARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE

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Academic year: 2022

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(1)

IL GLOSSARIO DELLA

RIGENERAZIONE URBANA

(2)

IL GLOSSARIO DELLA

RIGENERAZIONE URBANA

E TERRITORIALE

(3)

PRESENTAZIONE

GLOSSARIO (GIAMPIERO LUPATELLI)

GLOSSARIO

a

1. ABITARE (FATIMA ALAGNA)

2. ACCESSIBILITÀ (LUCIO RUBINI)

3. ANTIFRAGILITÀ (GIAMPIERO LUPATELLI)

4. AREE DISMESSE (DIONISIO VIANELLO)

5. ARTIGIANATO (FABIO BEZZI)

6. ATTRATTIVITÀ

(FRANCESCA ALTOMARE, SABINO ALVINO,

GIANANDREA ESPOSITO, CELESTE PACIFICO)

b

7. BORGHI (FABIO RENZI)

c

8. CAMBIAMENTO CLIMATICO (CERTIMAC)

9. CASERME (FRANCESCO EVANGELISTI)

10. CICLOPEDONALITÀ (SIMONA LAGHETTI)

11. COLLETTIVITÀ (RITA PARESCHI) 12. COMUNITÀ (PAOLO VENTURI)

13. CONSUMO DI SUOLO (FATIMA ALAGNA)

14. COOPERATIVE DI COMUNITÀ

(GIOVANNI TENEGGI)

15. COOPERAZIONE (MAURIZIO BRIONI)

d

16. DEMANIO (LORENZO BALDINI) 17. DIGITALE (LORENZO CIAPETTI)

INDICE

(4)

f

19. FABBRICHE (FEDERICO DELLA PUPPA)

20. FAMIGLIE (GIANLUIGI BOVINI)

21. FINANZA D’IMPATTO (KRISTIAN MANCINONE)

22. FOOD STRATEGY (DANIELA STORTI)

23. FORMAZIONE (PAOLA CAPRIOTTI)

24. FRAGILITÀ (CERTIMAC)

g

25. GOVERNANCE (MAURIZIO BRIONI)

h

26. HOUSING SOCIALE (ROSSANA ZACCARIA)

i

27. INFRASTRUTTURE SOCIALI

(GIAMPIERO LUPATELLI)

28. INNOVAZIONE SOCIALE (KRISTIAN MANCINONE)

l

29. LAVORO (FEDERICO DELLA PUPPA) 30. LONGEVITÀ (GIANLUIGI BOVINI)

m

31. MASTERPLAN (LORENZO BALDINI)

32. METROMONTAGNA (ANTONIO DE ROSSI)

n

33. NATURA (GUIDO TALLONE)

o

34. ORGANIZZAZIONE (LUCIANO PERO)

p

35. PARCHI (IPPOLITO OSTELLINO)

36. PARTECIPAZIONE (BARBARA LEPRI)

37. P.N.R.R (MAURIZIO BRIONI)

38. PROSSIMITÀ (GABRIELE BOLLINI)

r

39. RESILIENZA (DANIELE MONTRONI) 40. RESPIRO (FAUSTO VIVIANI)

41. RICOSTRUZIONE (SABRINA CIANCONE)

s

42. SCUOLE (ANDREA MORNIROLI)

43. SMART SPECIALIZATION STRATEGY [S3]

(SERENA MAIOLI)

44. SOLUZIONI BASATE SULLA NATURA

INFRASTRUTTURE AMBIENTALI (LUISA RAVANELLO)

45. SOSTENIBILITÀ AMBIENTALE (GABRIELE BOLLINI)

46. SOSTENIBILITÀ ECONOMICA E SOCIALE

(TOMMASO DAL BOSCO)

47. SPAZIO PUBBLICO

(ELENA FARNÈ E LUISA RAVANELLO)

t

48. TERRE ALTE (MARCO BUSSONE)

u

49. URBANISTICA (SILVIA VIVIANI)

50. USI TEMPORANEI (ELENA FARNÈ)

(5)

GLOSSARIO DELLA

RIGENERAZIONE URBANA E

TERRITORIALE

(6)

Ci informa il Vocabolario Treccani che “glossàrio s. m. [dal lat. glossa- rium, derivato da glossa dal greco ]” è la”raccolta di vocaboli, per lo più antiquati o rari, o comunque bisognosi di spiegazione, registrati in genere in ordine alfabetico e seguiti dalla dichiarazione del significato o da altre osservazioni”.

Ci informa anche che “Il termine è stato anche usato talvolta (specie nella forma latina) come sinonimo di lessico” che, per il medesimo Vo- cabolario Treccani è a sua volta, nella seconda accezione, “Il complesso dei vocaboli e delle locuzioni che costituiscono una lingua, o una parte di essa, o la lingua di uno scrittore, di una scuola, o di un qualsiasi parlante”

Pensiamo allora che il nostro Glossario [o Lessico] della Rigenerazione Urbana e Territoriale, che certamente non raccoglie vocaboli antiquati o rari, debba essere inteso come la parte della lingua che raccoglie i par- lanti della comunità di senso della Rigenerazione Urbana che ha bisogno di spiegazione.

Ne ha bisogno, innanzitutto per la densità di significati che associamo ad ogni lemma e per la loro complessità, che richiede un commento accu- rato per non essere fraintesa.

Al tempo stesso ne ha bisogno perché ciascun lemma di significati ne può avere più di uno, ed è d’obbligo indicare nel contesto quale è il si- gnificato che si vuole sottolineare.

Ne ha bisogno ancor di più quando il testo di cui si costruisce la glossa ha il carattere apodittico e assertivo del nostro Manifesto che assai poco spazio lascia ad approfondimenti e chiose.

Abbiamo immaginato per questo che il glossario/lessico della Rigene- razione Urbana e territoriale dovesse affrontare due scogli ed assumere due caratteri costitutivi.

Il primo scoglio è quello segnato della ampiezza di campo con cui il discorso della Rigenerazione si misura, figlia dell’ essere questa pratica - per sua natura e per esigenza costitutiva – esercizio di una scorreria in molteplici campi disciplinari, talvolta anche molto lontani tra loro. Alla ampiezza si può rispondere solo con la consapevolezza della parzialità di ogni risposta, anzi con la ostentazione di questa consapevolezza. Per questo abbiamo titolato in nostro glossario “50 PAROLE PER IL GLOS-

GLOSSARIO

DELLA RIGENERAZIONE URBANA E TERRITORIALE

SARIO DELLA RIGENERAZIONE URBANA” ben consci che le parole avrebbero potuto (e forse dovuto) essere 100 o più per delimitare con maggiore credibilità lo sforzo ma che questo era lo sforzo che ora ci po- tevamo permettere.

Il secondo scoglio, lo abbiamo accennato, è la polisemia dei lemmi che trattiamo e dei concetti che attraverso questi vogliono farsi strada nel nostro pensiero e nella nostra azione. Abbiamo immaginato di rispondere a questa difficoltà caratterizzando ogni lemma in termini autoriali.

Il glossatore, per questo, è tutt’altro che una figura neutrale, che regi- stra oggettivamente i significati che la lingua ha consolidato nell’uso.

Diventa invece autore a pieno titolo di un messaggio che vuole trasferire e, naturalmente, sottoporre al vaglio e alla critica della comunità di par- lanti che in quel lessico si riconosce.

Parzialità del lessico e autorialità delle glosse, sono condizioni che, combinate assieme, promuovono prepotentemente l’istanza di una ter- za condizione. Che è quella della pluralità delle voci da coinvolgere in questa nostra avventura. Voci che hanno risposto con registri stilistici diversi, talvolta con la precisione della definizione accademica, in altri casi privilegiando l’empatia del discorso civile o l’evocazione della nar- razione letteraria. Voci diverse. Ma la struttura armonica dello spartito sembra tenere.

Parzialità, autorialità e pluralità sono caratteri che immaginiamo correla- ti in modo non contingente a questo nostro sforzo. Ad esso non pensiamo solo come il primo stadio del propulsore che deve portare in orbita il Manifesto, sostenendolo con l’energia e – speriamo - lo spessore delle argomentazioni. Pensiamo piuttosto ad una navicella che avrà anche essa il suo corso, accompagnando i tentativi del Manifesto di farsi pratica e di generare buone pratiche.

Accompagnandolo con una riflessione più profonda e più matura. Più estesa, anche, nella articolazione dei lemmi e nel numero dei glossatori.

Con la aspirazione confidente che il lavoro sulla lingua sia sempre un im- portante esercizio di igiene decisionale, utile ad attutire e neutralizzare il rumore dal quale ogni azione umana è distratta.

a cura di

Giampiero Lupatelli

(CAIRE Consorzio)

(7)

PAROLE 50

PER UN

GLOSSARIO DELLA

RIGENERAZIONE URBANA E

TERRITORIALE

(8)

L’uso del verbo abitare ci induce a mettere al centro della riflessione colui che abita e cioè l’abitante, la persona, con il suo modo di vivere e le sue reti di socialità più o meno estese. Tutto ciò ha incidenza sulle modalità con cui si esprime la domanda di abitare e sulla sua evoluzione nel tempo.

In questo momento particolare, questa mutevolezza del modo in cui può declinarsi l’abitare ci appare in tutta la sua chiarezza poiché stia- mo vivendo un cambiamento epocale di abitudini legato alla pandemia i cui effetti avranno, presumibilmente, una più lunga durata. E’ tuttavia difficile prevedere quali aspetti di questa forzata nuova quotidianità si radicheranno nel tempo. Diventa certamente più chiara ed urgente la domanda di spazi, alloggi, edifici in grado di adattarsi, al bisogno, a con- dizioni diverse (anche temporanee) da quelle per le quali originariamen- te sono stati progettati.

Le nostre abitazioni saranno probabilmente molto più di prima luoghi nei quali ciascuno di noi vivrà una parte della propria giornata anche lavorativa; questo richiede spazi multifunzione, isolabili dalle altre parti dell’alloggio. Nel contempo è cresciuta la domanda di spazi aperti e ver- di di piccola dimensione/ interni/esterni da potere gestire anche in pic- cole reti di comunità. Ovviamente le connessioni digitali devono essere adeguate e garantite a tutti: internet veloce come requisito di agibilità dell’alloggio, al pari della fornitura di gas, luce ed acqua.

Ci sono due rischi da evitare: da un lato che tutto ciò si traduca in una crescita delle disuguaglianze e dall’altro in una perdita di relazioni sociali con il contesto urbano.

ABITARE

Nel nostro paese è in crescita il fabbisogno di abitazioni in affitto a prezzi accessibili; da molti anni tuttavia non ci sono politiche pubbliche spe- cificamente dedicate a dare risposte adeguate a questa domanda. Gli scenari demografici sono segnati dal perdurante calo delle nascite e dall’invecchiamento; molte delle nostre città si trovano a dovere dare ri- sposte alle esigenze dell’abitare e del welfare rivolto agli anziani ma, nel contempo, devono trovare il modo di attrarre giovani famiglie. Occorre una strategia pubblica in grado di promuovere (e sostenere dove neces- sario) un mercato di edilizia sociale da declinare in forma innovativa ed integrata con un rinnovato sistema dei servizi; il tutto all’interno dell’o- biettivo della rigenerazione urbana e del consumo di suolo a saldo zero.

E’ questo anche il momento giusto per mettere in discussione il nostro modo di abitare la città. Se possiamo lavorare nella nostra abitazione o vicino (certamente non sempre), possiamo costruire un nuovo rapporto con gli altri momenti della vita e questo potrebbe restituire vitalità a parti delle nostre città, garantendo nuova sostenibilità economica a ser- vizi e commercio di prossimità. Nelle zone periferiche delle città, specie in quelle di medie dimensioni, vi sono numerosi spazi potenzialmente recuperabili nell’ambito di un diverso modo di vivere il quotidiano. Potrà così cambiare il rapporto con parti di città che oggi chiamiamo peri- ferie ed, in prospettiva, anche i centri di minori dimensioni ed i borghi potrebbero fornire risposte ai nuovi bisogni in uno schema di vita in cui lo spostamento fisico quotidiano verso i grandi centri assumerà minore rilievo rispetto ad altri valori.

a cura di

Fatima Alagna

(Politecnica)

(9)

La città accessibile è una città di relazioni, materiali e immateriali. La sua qualità sta proprio qui: moltiplica gli scambi, accelera il movimento, den- sifica le connessioni. Fa correre il potenziale di socialità e interazione, per far vivere a pieno l’opportunità urbana.

Costruisce le reti corte della prossimità, dove ri-sincronizza le abitudini su tempi di vita più sostenibili; abbassa il ritmo e l’intensità degli sposta- menti e ridiscute il tempo come la merce di scambio tra la città e i suoi abitanti. Con un obiettivo ambizioso: riconciliare l’esperienza urbana a partire da una dimensione umana e non dal possesso (o utilizzo) dell’au- tomobile. Da una parte offre più lentezza, e dall’altra una migliore quali- tà delle relazioni, dal punto di vista sociale e spaziale.

La città accessibile usa la densità spaziale per aumentarne il valore rela- zionale, dove il gradiente di prossimità è un dato già acquisito, da svelare e moltiplicare. Ma non espande l’esistente: a partire dagli asset pubbli- ci, ibrida le funzioni già attribuite, riusa il patrimonio sottoutilizzato per moltiplicarne (densificarne) l’uso e il pubblico.

Ma la città accessibile costruisce la prossimità non per ottenere delle enclave. Usa questa dimensione per generare dei sistemi connessi tra loro, dove vivere l’insostituibile rapporto di scambio con la dimensione urbana. In una relazione tra il dentro e il fuori, tra il quartiere e la città fatta di quartieri. In altre parole, è una città che si muove e densifica le reti corte, ottimizza le reti lunghe, e salta da una dimensione all’altra con facilità e continuità.

Per la dimensione fisica, una città accessibile ha nella mobilità il siste-

ACCESSIBILITA’

ma per garantire questo scambio. E i nodi della mobilità quei gateway territoriali dove avviene questo passaggio. Cosa sono questi nodi, e cosa potrebbero essere?

Sono “mobility-hub”, nodi complessi capaci di coniugare la diffusione capillare delle reti di mobilità sostenibile all’interno dei singoli tessuti urbani, e dall’altro, di connetterli ad orizzonti di spostamento sulla sca- la più vasta. Supportano le reti corte della prossimità, car-free, veri e propri ecosistemi per la mobilità attiva. Offrono un set di opzioni per gli spostamenti del primo e ultimo miglio, altamente personalizzate e flessi- bili: mobilità ciclabile, pedonale, servizi in sharing, trasporto pubblico. E allo stesso modo aumentano la connettività delle reti lunghe multilivello:

verso la dimensione urbana, poi metropolitana, fino a quella globale.

Sono Hub perché spostano il senso da una dimensione strettamente fun- zionale a una capacità generativa per i contesti in cui sono inseriti. Luo- ghi da attrezzare per creare centri urbani vitali con funzioni e servizi alla persona e alle imprese, per migliorare sicurezza e vivibilità.

Intervenire su questi punti è una partita alla portata di mano. Per realiz- zare quel movimento necessario di apertura e scambio verso l’esterno, di commistione tra un riequilibrio e accorciamento delle reti. Per realizzare una città vicina, aperta, e quindi più inclusiva. In poche parole, una città accessibile.

a cura di

Lucio Rubini

(Urban & Mobility Manager)

(10)

Nei momenti più bui della primavera 2020, quando la pandemia da Covid 19 imperversava nel Paese e i suoi echi incombevano minacciosi su tut- to il mondo, il termine antifragilità ha cominciato a fare capolino nella riflessione di una società che di colpo aveva (ri)scoperto un significato inatteso (ma in realtà non nuovo) della globalizzazione. Nella circostan- za ci siamo accorti di dover rivedere parti non marginali del nostro les- sico familiare.

Antifragilità è una parola coniata dal matematico americano Nassim Ta- leb nel suo fortunato libro “Il cigno nero” nel quale affronta il tema di un allineamento non impossibile di condizioni avverse che, nell’orizzonte contemporaneo dominato dalla complessità, rende possibile anche ciò che è largamente improbabile: il cigno nero appunto.

L’antifragilità è dunque l’opposto della fragilità, della possibilità cioè di un oggetto (ma più propriamente nel contesto della riflessione di Taleb e della nostra, di un sistema, fisico, biologico o sociale) di frantumarsi per effetto dell’urto ricevuto da un evento inatteso.

Opposto di fragilità non è robustezza, perché gli oggetti più robusti, por- tati oltre la loro soglia di resistenza, rischiano di frantumarsi in una defla- grazione ancora più estesa e dirompente.

Non è nemmeno resilienza, cioè la capacità di assorbire un urto piegan- dosi alla sua forza per ritornare quando questa è cessata alla propria configurazione iniziate.

Antifragilità è, molto più ambiziosamente, la capacità di un sistema di sostenere un urto, assorbirne l’energia e convertirla nel miglioramento delle proprie prestazioni. Ha molto a che fare con la capacità di appren- dere.

Quella della antifragilità è parsa ad alcuni una metafora appropriata ad interpretare le esigenze, prima ancora che la possibilità, dei sistemi so-

ANTIFRAGILITÀ

ciali impattati dalla pandemia – quello delle cure sanitarie in primo luo- go – di non tornare semplicemente alla condizione pre-esistente allo shock pandemico ma di migliorare la propria efficacia nel contrastare eventuali ulteriori e successivi impatti.

Implicito nella aspirazione a cogliere e rappresentare questa esigen- za è sicuramente il giudizio che lo status quo ante non fosse quello del migliore dei mondi possibili. Che, ad esempio, la ricerca di eccellenze sempre più elevate e specializzate nella cura degli acuti, generate e so- stenuta dalla concentrazione delle funzioni ospedaliere in forme sempre più spinte e in realtà sempre più circoscritte, anche a discapito di altri presidi della salute legati invece alla cronicità e alla prevenzione, potes- se rivelarsi di straordinaria fragilità.

All’opposto la capacità invece di disporre di strutture più distribuite, con riserve di capacità e circuiti di ridondanza che l’emergenza può più fa- cilmente chiamare in servizio, rappresentasse una fonte di antifragilità decisiva per reggere l’urto di uno shock come quello della pandemia che azzera il valore della densità, diventata fattore di contagio, e riduce drasticamente l’esercizio della mobilità come strumento ordinario di fun- zionamento di sistemi territoriali troppo polarizzati.

Facendoci scoprire che non sempre l’efficienza, ricercata talvolta con troppa ostinazione, garantisce anche l’efficacia dei sistemi complessi, quando ne semplifica oltremodo la articolazione.

Una lezione di grande valore per le pratiche della rigenerazione, nelle quali le città e i territori forse possono mostrare proprio le loro doti di antifragilità.

a cura di

Giampiero Lupatelli

(CAIRE Consorzio)

(11)

Per inquadrare il tema conviene rispondere ad un quesito preliminare:

quando il termine aree dismesse entra a far parte del vocabolario dell’ur- banistica? In che tempi ed in quale quadro di riferimento economico e sociale? Storicizzare il concetto relazionandolo ai due principali modelli di sviluppo che hanno caratterizzato la storia della città intrecciandosi l’uno con l’altro – la crescita esterna e/o la trasformazione interna – sempre tenendo conto che senza alcun dubbio le aree dismesse rap- presentano una declinazione – di certo la più privilegiata - del secondo paradigma.

Non basta. I processi di trasformazione urbana sono condizionati in ma- niera determinante dall’andamento dell’economia e dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche. In situazioni di stabilità prevale in genere la linea dello sviluppo, mentre in presenza di rotture del ciclo è predo- minante il concetto di trasformazione. Il termine aree dismesse entra infatti nell’uso comune nella fase di passaggio dal secondario al terzia- rio, quando le vecchie industrie della prima industrializzazione entrano in crisi, si chiudono le fabbriche liberando spazi immensi all’interno del tessuto urbano.

Questo è il momento in cui si comincia a parlare di aree dismesse. Il pro- cesso parte dalla grande industria – FIAT Lingotto a Torino, Pirelli Bicoc- ca a Milano – ma presto si estende anche ai centri minori. L’urbanistica, dopo aver favorito per anni la crescita delle città, è costretta ad affron- tare il tema della riqualificazione delle aree dismesse. La destinazione terziaria – palazzi per uffici e centri commerciali – sembra la più idonea per riempire gli spazi liberati dalla manifattura, e così infatti avviene.

Bisogna però aspettare gli anni ‘90 perché il mondo politico e le am- ministrazioni locali affrontino in modo coerente il problema. Il Decreto Fontana del 1994 avvia un processo sistematico di trasformazione delle aree dismesse, in gran parte ex industriali alle quali si aggiungono le sedi abbandonate di strutture e servizi pubblici, - ospedali e caserme – che hanno cessato la loro attività.

Il processo assume connotati propri, tanto che si avverte l’esigenza di

AREE DISMESSE

un decennio cambia il volto di molte città italiane, secondo una direttri- ce che sembra destinata a continuare senza intoppi.

Invece arriva la crisi finanziaria del 2008 che blocca il processo provo- cando la caduta della domanda. Tranne qualche città mondiale in tutte le altre si contano a decine i cantieri chiusi e i progetti abbandonati.

Tuttavia la dismissione continua interessando aree sempre più numerose e vaste, innescando processi di desertificazione e di degrado ambienta- le e sociale che coinvolgono intere parti della città.

Nel frattempo è però intervenuto un fattore destinato a cambiare ra- dicalmente il quadro preesistente: gli effetti dirompenti del modello consumistico minacciano seriamente l’equilibrio del pianeta. Le conse- guenze non si avvertono più solo alla scala locale, come consumo di suo- lo e degrado ambientale, ma investono gli assetti climatici provocando calamità e disastri a non finire. Nasce una coscienza verde che, sia pure tra mille intralci e difficoltà, sembra finalmente in grado di condizionare i governi nazionali.

Il mondo sta nuovamente cambiando, si sta entrando in una nuova fase condizionata dalle tecniche della comunicazione che stanno globaliz- zando l’universo intero, Una vera e propria rivoluzione che avrà effetti dirompenti sull’intero campo delle attività umane.

La pandemia ha accelerato la transizione verso nuovi orizzonti . L’e-com- merce mette in crisi i centri commerciali tradizionali, nel mondo del lavoro si afferma lo smart working riducendo gli spazi dedicati ma tra- sferendoli nelle abitazioni. Saranno questi i fattori trainanti della nuova generazione?

I centri commerciali e le torri per uffici nel cuore della città, realizzati in quantità sproporzionata rispetto alla domanda reale, saranno il cam- po privilegiato dove si giocherà la partita. Da Parigi a Milano l’ipotesi del quarto d’ora di percorso tra casa e lavoro non sarà certo in grado di cambiare l’organizzazione della città, ma è indicativo di una direttrice da seguire.

Il processo, eterno come la città, ricomincia da capo.

a cura di

Dionisio Vianello

(AUDIS)

(12)

Artigiano è chi esercita un’attività lavorativa per la produzione di beni attraverso il lavoro manuale o l’utilizzo di attrezzi e macchinari senza una lavorazione in serie.

Ma un artigiano è soprattutto un lavoratore capace di connettere l’espe- rienza delle mani con il saper fare della testa. L’etimologia di artigiano, come noto, ha la provenienza dalla parola principale “arte” che a sua volta deriva dal latino “ars, artis” ad indicare ogni abilità materiale e spi- rituale. Spirituale: perché è il cuore che insieme alle mani e alla testa dà sostanza al saper fare, al saper applicare, al sapere creare.

Gli artigiani sono eterni testimoni dell’Italia operosa, sono la rappre- sentazione più alta e degna del Paese che “ce la fa”, di un Paese che dà valore al lavoro e che è capace di dare valore alle persone che in- traprendono, mettendo impegno, determinazione e passione nelle cose che fano.

Gli artigiani sono famiglia, comunità, appartenenza, inclusione, territorio.

Gli artigiani sono maestri di esperienza e di lavoro, instancabili operatori.

Artigiani nobili, creativi. Che fanno crescere le nostre comunità e ci ri- empiono di fiducia.

Artigiani che guardano alla tradizione e che si proiettano nel futuro. Che si reinventano, che sperimentano.

ARTIGIANATO

Artigiani che nascono tra le terre di questa nostra regione e che di que- sta regione vogliono esserne storia.

Artigiani che trasformano la nostra cultura in tradizione e saper fare. Che attraggono il turismo, e che lasciano, in chi li osserva, un incanto che porterà lontano.

Artigiani che sono unici, come i beni che producono.

Artigiani che sono ingegno, come le idee che realizzano con le mani.

Artigiani che nelle loro botteghe insegnano la tradizione e il mestiere alle giovani generazioni per mantenere salda la nostra storia.

Essere dentro questa comunità, conoscerne il percorso, ed essere capaci di intravedere strade nuove per raggiungere nuovi traguardi: questi gli obiettivi da affrontre con uno spirito coraggioso, che si alimenta con l’energia di tutti, e che muove, e fa girare la nostra storia.

Ci sono tanti modi per scrivere la storia di una comunità: nelle nostre origini c’è il nostro segreto, la nostra tradizione, che continua e si evolve, contaminandosi nel rapporto con gli altri.

Oggi siamo davanti a nuove opportunità, nuovi capitoli di uno stesso per- corso che ci ha portati fino a qui e che ora si arricchisce, con nuove mu- tazioni, per avvicinarci a un domani che è già il nostro presente.

a cura di

Fabio Bezzi

(CNA)

(13)

L’attrattività territoriale definisce la capacità di un territorio di sviluppa- re e valorizzare i propri asset in funzione del mantenimento e dell’attra- zione di determinati target e risorse, nell’ambito di una visione strategica di sviluppo territoriale. Questa breve definizione racchiude diversi ele- menti complessi da analizzare.

L’attrattività è innanzitutto un concetto relativo al tipo di target di riferi- mento, quindi un territorio può risultare più o meno attrattivo a seconda dell’obiettivo considerato. Un elenco (non esaustivo) di macro-gruppi di target può includere: residenti/cittadini, imprese/investimenti, talenti, visitatori/turisti, ecc. Tali macro-gruppi possono avere alti livelli di inte- grazione tra di loro (es. impresa innovativa ad alto impatto occupazio- nale attrae investimenti, talenti, famiglie), ma possono anche essere in conflitto (es. infrastrutture a danno della qualità ambientale). Anche il tema della rigenerazione urbana è trasversale rispetto a diverse tipolo- gie di target, è quindi importante considerare le specificità di azioni e contesti.

Altro elemento essenziale dell’attrattività di un territorio sono gli asset che possono essere raggruppati in capitali territoriali (ambientale, inse- diativo/infrastrutturale, socio-culturale, economico, umano, istituzionale, ecc.). L’attrattività di un territorio è strettamente legata alla qualità di tali asset, che presentano connessioni dirette col tema della rigenera- zione urbana, come ad esempio la qualità urbana, le infrastrutture e i relativi servizi.

Queste due prospettive dell’attrattività, a partire dai target e dagli asset, devono necessariamente dialogare all’interno di una visione strategica di sviluppo territoriale dove il ruolo dell’azione politica e degli attori terri- toriali è determinante. In questo ambito, un territorio individua obiettivi, punti di forza, opportunità per il futuro, misure e azioni concrete. L’at- trattività opera su diversi livelli territoriali (locale, regionale, nazionale,

ATTRATTIVITÀ

europeo) e coinvolge diverse tipologie di attori. La capacità di integra- zione orizzontale e verticale tra livelli territoriali e attori rappresenta un fattore essenziale per il successo delle politiche e le azioni orientate a supporto di questo tema.

Un ulteriore elemento riguarda la percezione e la rappresentazione del territorio, che ha l’obiettivo di mettere in valore gli asset e le azioni affin- ché arrivino al target di riferimento attraverso una narrazione efficace.

L’attrattività infatti è legata anche alla competizione tra diverse aree territoriali, dove l’immaginario e la reputazione legati a un territorio gio- cano un ruolo chiave. Progetti di rigenerazione urbana possono diventare un fattore importante anche in questa prospettiva.

Negli ultimi anni il termine “attrattività” è stato adottato con maggiore frequenza all’interno di documenti programmatici. In Emilia-Romagna, diverse politiche regionali legano tale tema a quello della rigenerazione urbana, spaziando dalla tutela del territorio alla promozione e all’ac- compagnamento e supporto agli investimenti preferiti per un determi- nato contesto. Uno dei principi guida è quello della limitazione dell’u- so di suolo. Dal livello regionale alle normative di pianificazione locale, nell’ambito della promozione di investimenti vengono infatti favorite le aree brownfield rispetto alle greenfield. L’offerta di spazi e di aree in grado di ospitare attività produttive comprende anche le aree dismesse, spesso non più rispondenti alle necessità attuali e che faticano a trovare un riutilizzo o una valorizzazione alternativa, nonché i progetti che ri- guardano aree di grandi dimensioni in fase di sviluppo (es.: Tecnopolo di Bologna, DUMBO) che si presentano come importanti hub di attrazione.

L’accompagnamento all’investitore nelle varie fasi di insediamento ha anche l’obiettivo di indirizzarlo verso questo tipo di opportunità

a cura di Francesca Altomare, Sabino Avino, Gianandrea Esposito, Celeste Pacifico

(Art-ER)

(14)

“Talora il territorio rigenera la città distrutta»

Carlo Cattaneo “La città come principio ideale delle istorie italiane”

Come mai la peste del 1348 è un riferimento così presente nelle nostre riflessioni sulla pandemia rispetto ad altre manifestazioni dello stesso morbo passate alla storia, dall’Atene di Pericle alla Bisanzio di Giustinia- no, o di epidemie di natura diversa ma non meno terribili come quella che fece vacillare Roma e il suo Impero all’epoca di Marco Aurelio? La tesi dello storico Alessandro Barbero è che “…la peste del 300 investe un mondo che è già il nostro mondo…investe un’Italia che è già ricono- scibilmente la nostra Italia…e quei ragazzi di cui racconta il Decameron che per sfuggire la peste lasciano Firenze e se ne vanno in una villa in campagna, se ne vanno in quel paesaggio che è tuttora il paesaggio in- torno a Firenze con le sue colline e le sue ville…”. Nonostante le rilevanti trasformazioni territoriali avvenute, soprattutto nel novecento, la perce- zione del paesaggio italiano rimane legata a strutture insediative e geo- grafie profonde generate dalle dinamiche culturali, politiche, sociali ed economiche che portarono alla nascita dei liberi comuni tra la fine del XI e quella del XIII secolo. Ricordare che i 5.521 comuni sotto i 5.000 abi- tanti, che rappresentano il 69,85% del numero totale dei comuni italiani, sono sostanzialmente coincidenti con i borghi è utile ad evitare che si imponga di questi ultimi una visione deterritorializzata; rivolta ad un den- tro, che esprime qualità urbane spaziali e architettoniche, e disattenta ad un fuori, che a causa dello spopolamento e dell’abbandono rischia di perdere le sue qualità produttive, ambientali e paesaggistiche. È certa- mente positivo che in in questi anni i borghi si siano affermati come nuo- va e originale destinazione turistica apprezzata da sempre più numerosi visitatori italiani e stranieri e, a causa della pandemia, in misura minore anche come luoghi dove poter tornare o scegliere di risiedere grazie al telelavoro. Campagne pubblicitarie nazionali (prodotti agroalimentari

BORGHI

ed enogastronomici, grande distribuzione commerciale, operatori della telecomunicazione) documentari e servizi di televisioni e testate gior- nalistiche italiane e internazionali, il nuovo film Disney Pixar ambientato nei piccoli centri del Parco nazionale delle Cinque Terre e i 500 mila follower dell’Associazione “Borghi più Belli d’Italia” sono alcuni esempi che confermano l’affermarsi del borgo come uno degli oggetti del de- siderio post-pandemico. Una attrattività che mostra però anche il suo lato distorsivo offrendo prevalentemente quella visione decontestualiz- zata, che rischia di essere riproposta anche dal Piano nazionale ripresa e resilienza quando, alla ricerca di una vocazione prevalente specifica da assegnare a ciascun borgo, propone come modelli e prototipi alberghi diffusi, residenze sanitarie per anziani e centri di ricerca universitari. Per evitare il rischio di produrre un catalogo di esperienze eccezionali, piut- tosto che replicabili, le giuste e auspicabili singole opportunità sarebbe opportuno fossero il risultato di progettualità d’area vasta capaci di af- frontare alla adeguata scala questioni decisive per la vita delle comuni- tà come ad esempio quella dei servizi (sanità non residenziale, scuola, mobilità, commercio, energia) come previsto dalla legge Realacci per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni. Ed è la stessa crisi climatica a sollecitare una progettualità territoriale necessaria a man- tenere il patrimonio di biodiversità attraverso un’agricoltura sana e di qualità, una gestione sostenibile dei boschi per renderli più protettivi e produttivi e un recupero e gestione dei terreni per prevenire i fenomeni di dissesto idrogeologico. Ritornando così a vedere il paesaggio come il tessuto connettivo al centro di uno spazio urbano policentrico di cui i borghi costituiscono i nodi. Evitando così la paradossale trasformazione dei borghi in castelli 2.0

a cura di

Fabio Renzi

(Fondazione Symbola)

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In climatologia i cambiamenti climatici o mutamenti climatici indicano le variazioni del clima della Terra, a diverse scale spaziali e storico-tem- porali di uno o più parametri ambientali e climatici nei loro valori medi come temperature, precipitazioni, temperature degli oceani e distribu- zione e sviluppo di piante e animali e palazzi. La causa principale dei cambiamenti climatici è l’effetto serra.

Il cambiamento climatico è tipicamente visto come un problema “am- bientale” ma è necessario inquadrarlo anche in ambito psicologico. Poi- ché le barriere al comportamento pro-ambiente sono radicate nei pro- cessi psicologici, gli approcci risolutivi per combattere il cambiamento climatico devono incorporare significativi adattamenti psicologici. Rifor- mulare il cambiamento climatico come un problema di salute pubblica, evidenziare le storie di successo e i benefici per la salute, concentrarsi

CAMBIAMENTO CLIMATICO

sul qui e ora, fornire una direzione specifica per il cambiamento del com- portamento, e riconoscere gli imperativi morali, etici e altruistici sono tutte componenti importanti per affrontare con successo il problema del cambiamento climatico.

Ognuno di noi si deve sentire parte attiva nella lotta ai cambiamenti climatici. Il risparmio dell’energia è uno dei primi passi. Puntare sull’effi- cienza e il risparmio energetico è una strategia di significativa importan- za in cui il ruolo di ognuno di noi è fondamentale. Piccoli cambiamenti nelle nostre abitudini che riguardano l’utilizzo dell’energia possono por- tare ad un grande miglioramento per il pianeta da lasciare alle genera- zioni future.

a cura di

CERTIMAC

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Il termine “caserme” è molto presente nel parlare di rigenerazione urba- na. “Complessi architettonici funzionalmente autonomi, attrezzati per la coabitazione disciplinata a scopo militare”, o più in generale di “insedia- menti militari” di tipo diverso e di diverso impatto urbano.

Le caserme sono luoghi particolari della storia urbana italiana: aree de- stinate ad usi militari negli anni ‘60-’70 del XIX secolo, da allora isolate, vivono solo di modifiche interne, per poi perdere via via la propria uti- lità a partire dalla seconda metà del XX secolo. Sono aree sottratte al mercato fondiario e quindi alla normale evoluzione degli usi nella città.

Rispondono a logiche interne che hanno un difficile dialogo con la città:

logiche esclusive ed estranee perché forti (per l’unicità del comando e la disponibilità della proprietà dei suoli), a fronte di politiche urbanisti- che comunali sempre fragili. Logiche che per molti anni hanno opposto (e in certi casi continuano ad opporre) una forte resistenza alla sdema- nializzazione, anche quando la cessazione degli usi era evidente.

Aree sempre molto ampie in relazione alle dimensioni urbane, la cui ori- gine è legata a motivazioni strategiche precise (le fortificazioni: mura, valli, cittadelle…): perse queste, alle aree rimane un valore enorme per nuove strategie urbane. Ciò vale anche per altre destinazioni militari (i contenitori storici svuotati e destinati all’uso militare, come i conventi), pure originariamente localizzate sulla base di relazioni urbane impor- tanti: rapporti urbani che vengono interrotti, proprio nel momento della maggiore spinta alla trasformazione urbana moderna di fine ‘800.

Oggi non possiamo non riconoscere il valore di bene culturale delle ca- serme, per la loro storia nel contesto dello stato unitario e per le con- tinuità/discontinuità con gli stati pre-unitari. Un valore anche sociale, legato all’esperienza dei soldati di leva e dei lavoratori nelle caserme, alle relazioni che poi attraverso le porte, oltre il muro, hanno attribuito

CASERME

alle caserme un’immagine e una presenza particolare nella scena urbana.

Da questa complessa storia derivano i caratteri, complessi e unici, con i quali le caserme si propongono oggi ad operazioni di rigenerazione urbana, di passaggio dalla rigidezza degli insediamenti militari alla mute- volezza propria del contesto urbano:

• lo Stato dovrebbe ripensare gli strumenti per la valorizzazione di beni pubblici, considerando in maniera realistica le difficoltà della comuni- cazione tra demanio militare e comunale. Bilanciando diversamente nei propri strumenti il concetto di “valorizzazione”, tra interesse economico e interesse sociale;

• il Comune che si confronta con questi beni non può farlo al di fuori di una visione urbana forte: cosa vuole da queste aree, entro quale quadro strategico esse assumono valore. Con una nuova consapevolezza della necessità di una lunga durata delle decisioni, perché il tempo della rige- nerazione è un tempo lungo;

• è necessario lavorare ancora molto sulla conoscenza di queste aree, sulla loro storia, quindi sul loro valore culturale, ma anche sui caratteri ambientali che gli usi dell’ultimo secolo hanno impresso sui suoli e sugli edifici, sulle necessità di bonifica che tanto incidono sul valore economi- co e quindi sulla possibilità di trasformare;

• in una logica di nuova generazione, che abbia i caratteri della strategi- cità, dell’integrazione e della inclusività, come quella proposta dal Ma- nifesto, non può essere trascurato il valore, ma anche l’onere, di un con- creto e fattivo protagonismo di chi vive la città oggi, per la definizione del migliore futuro per queste aree e per la sua progressiva realizzazione.

a cura di

Francesco Evangelisti

(Comune di Bologna)

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La rigenerazione urbana deve ripensare l’organizzazione della città an- che in termini di servizi e abitudini. La mobilità deve essere sostenibile non solo per diminuirne l’impatto ambientale (i trasporti urbani sono re- sponsabili del 20% circa dello smog, che sale al 60% nel caso di alcune componenti come il biossido di azoto), ma anche per migliorare la quali- tà della vita, la salute pubblica, ridurre lo stress e incentivare la coesione sociale, creando occasioni di incontro e di scambi solidali. In quest’ottica la ciclopedonalità è una componente essenziale della mobilità nella cit- tà del domani.

Non intendiamo dunque la ciclopedonalità come progettazione dedi- cata esclusivamente a certi utenti (piste ciclabili, marciapiedi e piazze pedonali), ma una urbanistica capace di mettere al centro la persona, le sue abitudini di spostamento e l’equilibrio complessivo del sistema, che comprenda l’intero sistema di mobilità.

Parleremo dunque non tanto di piste ciclabili o di percorsi dedicati, ma di città 30, con limitazione ai picchi di velocità per creare sicurezza per tutte le categorie di utenza; di precedenza a pedoni e ciclisti sulle strade

CICLOPEDONALITÀ

di quartiere; di strade scolastiche in prossimità delle scuole; di intermo- dalità che consenta alle persone di usare il trasporto pubblico insieme allo spostamento a piedi e in bici; di car sharing e di condivisione dei mezzi.

La ciclopedonalità deve far parte di quell’insieme di infrastrutture, servi- zi e politiche capaci di rendere l’auto privata meno allettante di quanto non sia ora, seguendo il principio della democrazia dello spazio pub- blico: dopo aver regalato le nostre città alla motorizzazione di massa escludendo le persone dagli spazi (l’80% dello spazio pubblico urbano è attualmente dedicato al parcheggio e alla viabilità delle automobili) dobbiamo ridistruibuire lo spazio all’uso delle persone, ridisegnandone funzioni e forma.

La ciclopedonalità deve diventare insomma la nervatura della città dei 15 minuti, in cui accesso al verde, al commercio di vicinato, ai servizi e alle scuole sia garantito a tutte e tutti con spazi accessibili, percorsi e servizi inclusivi.

a cura di

Simona Laghetti

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Un processo di rigenerazione urbana sviluppato su ambiti territoriali più o meno estesi interviene su di un insieme combinato di elementi e fattori che possono riguardare: la riqualificazione degli edifici pubblici e privati presenti nelle aree interessate, la riconfigurazione del tessuto urbano, gli spazi verdi, le aree di servizio….

La complessità degli interventi, nel riprogettare spazi di città, attiene a diversi elementi che vanno dalla qualità progettuale, ai materiali usati, alla puntuale lettura degli spazi urbani per la possibile ri-attribuzione delle funzioni rispondenti alle dinamiche in atto, alla efficace integrazio- ne delle diverse competenze preposte al recupero urbano, alla capacità di inquadrare e inserire gli interventi di rigenerazione in un contesto di pianificazione complessiva della città, alle risorse economiche a disposi- zione e si potrebbe proseguire.

Fra i molteplici “ingredienti”, ve n’è uno su tutti che sta alla base delle di- verse componenti richiamate e che rappresenta l’asse portante di qual- siasi processo di rigenerazione e dal quale non è possibile prescindere.

Il riferimento va alla dimensione sociale o meglio alla collettività, sulla quale e per la quale programmare una nuova città.

L’evoluzione delle relazioni tra popolazione e territorio, il modificarsi della stratificazione sociale (nuovi nati, anziani, emigrati, immigrati e ri- fugiati), richiedono puntuali analisi volte a configurare le caratteristiche della popolazione nel breve/medio periodo (a livello macro tendenze), al fine di meglio dimensionare le caratteristiche dei nuovi abitati e delle aree urbane, che debbono essere comunque progettati in base ad una visione prospettica.

Nel contempo, non si può prescindere dal testare le esigenze della col- lettività intesa come residenti e non, nelle aree oggetto di risanamento e riqualificazione, per un riadattamento degli spazi e delle funzioni affin-

COLLETTIVITÀ

chè possano rispondere in modo puntuale alle nuove forme di conviven- za, ai fabbisogni stessi delle famiglie….Oggi occorre sapersi confrontare con le esigenze di nuove tipologie di cittadini, utenti, lavoratori (anziani, immigrati…), con un incremento evidente delle disuguaglianze spaziali, con nuove esigenze sociali, quali: l’invecchiamento, la transizione demo- grafica, le nuove aspettative nei confronti della qualità della vita e con gli effetti imprevedibili dei cambiamenti climatici.

Anche la pandemia ha messo in luce nuove esigenze, a partire dalle fra- gilità degli anziani e alle risposte puntuali che devono trovare riscontro in un nuovo modello sanitario impostato sempre più sulla domiciliarità e territorialità. Rispetto a queste nuove domande si avverte la necessità di aggiornare i sistemi di welfare urbano con il contributo della disciplina urbanistica, che è chiamata a rivestire un ruolo di primo piano nell’o- rientare le trasformazioni al soddisfacimento del benessere individuale e collettivo, e alla tutela dell’ambiente e del Paesaggio.

Tutti gli elementi citati richiamano l’esigenza di un rapporto sempre più stretto fra pubblico e privato per la costruzione di politiche urbane ed edilizie che favoriscano la costruzione di strategie comuni e convergen- ti, dove la partecipazione della collettività nella condivisione di un ap- proccio integrato per la rigenerazione dei territori diventa la variabile dipendente ed imprescindibile per favorire l’attuazione di percorsi di riqualificazione.

a cura di

Rita Pareschi

(Legacoop Emilia-Romagna)

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La storia ci insegna che prima che lo Stato e il mercato si manifestas- sero, la comunità già esisteva, operava e alimentava aspirazioni. Comu- nità, non mera comunanza. Una distinzione che va fatta anche se siamo immersi in una contemporaneità sempre più liquida e connessa, che riduce i confini fra questi due termini, producendo “endiadi” là dove fino a poco tempo si manifestavano “ossimori”. Nell’era delle piatta- forme digitali e dei social network diventa sempre più complesso infatti discernere fra community e comunità, cosi come diventa sempre più arduo definire “il dentro” ed il “fuori” di una rete di legami sempre più deboli, ma non meno generativi. Occorre infatti assumere uno sguardo diverso per evitare di cadere nella trappola di un ritorno nostalgico alle

“comunità naturali” oppure a quelle forme di condivisione che “immu- nizzano” piuttosto che legare insieme i corpi, gli interessi e la vita delle persone. Occorre abitare le comunità per sapere distinguere ciò che lega, da ciò che semplicemente “assembra”. Già Aristotele, infatti, invi- tava a differenziare ricordando che la comunanza è quella degli animali che, per sopravvivere, si rubano il cibo e competono selvaggiamente fra loro e, se si uniscono, lo fanno unicamente perché non hanno altra scelta. La comunità, al contrario, fiorisce su una intenzionalità capace di fondare un agire collaborativo. Il fattore istituente di un’autentica dimensione comunitaria è l’intenzionalità: la comunità deve essere de- siderata prima di essere organizzata e vissuta. Si capisce quindi come il desiderio dell’“essere in comune” nasca innanzitutto dal superamento di una visione individualista, una prospettiva che come ci ricorda Marc Auge è difficilmente sostenibile nel tempo poiché “un individuo total- mente solo è inimmaginabile cosi come è insostenibile un futuro senza avvenire”. Emerge cosi un altro elemento che l’esperienza comunitaria restituisce a chi ne fa parte: un diverso significato del tempo. Un tem- po non definito dalla velocità (chronos) ma dai significati (kairos). Il

COMUNITA’

tempo della comunità è, quindi, un tempo propizio al reciproco incon- tro, un tempo “non governato” da aspettative ma nutrito dallo stupore dell’inatteso. Questo ci fa capire quanto sia “improbabile” progettare comunità e la loro evoluzione e quanto sia invece “possibile” alimen- tare processi, conversazioni, ambienti che nel tempo possano generar- le. Ecco che quindi il primo passo verso un processo di generazione o attivazione comunitaria non è un master plan dove strumentalmente si disegnano percorsi partecipativi, ma un’azione maieutica, una fase in cui è protagonista l’informalità e dove i “riti e i piaceri del coopera- re” (R. Sennet) diventano meccanismi generativi di un processo spesso non catturabile da un diagramma di Gaant. Elementi questi centrali nei processi di ri-generazione (e non di mera ri-qualificazione). Un’azione di rigenerazione sociale implica infatti sempre un’azione comune (com- mon action) le cui caratteristiche distintive sono ben riconoscibili in tre tratti: coloro che partecipano devono avere consapevolezza della propria interdipendenza; nell’azione comune le persone mantengono la propria identità e responsabilità; i componenti condividono la con- sapevolezza e la tensione al raggiungimento di un obiettivo comune.

Questa alchimia rende la dimensione comunitaria protagonista della trasformazione “da spazi a luoghi”. La grande partita della ri-genera- zione e valorizzazione di asset “dormienti” si gioca sul lato della capa- cità di includere e dare spazio a questa dimensione contributiva spesso

“latente” degli abitanti e non solo sul lato delle risorse economiche.

Una prospettiva che oggi rappresenta l’orizzonte di molte istituzioni (pubbliche e private, profit e non profit) e che trova nella valorizzazio- ne dei beni comuni la sua missione principale.

a cura di

Paolo Venturi

(AICCON)

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Dal sito dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca ambien- tale (ISPRA) possiamo trarre una definizione del concetto di consumo di suolo ed anche le ragioni dell’importanza che un suolo in condizioni naturali riveste per gli esseri umani. Per consumo di suolo si intende “una variazione da una copertura non artificiale (suolo non consumato) ad una copertura artificiale del suolo (suolo consumato)”; un suolo in condizioni naturali fornisce al genere umano quelli che vengono chiamati i servizi ecosistemici che vanno dall’approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, materie prime, etc.); alla regolazione (regolazione del clima, cattura e stoccaggio del carbonio, controllo dell’erosione e dei nutrien- ti, regolazione della qualità dell’acqua, protezione e mitigazione dei fe- nomeni idrologici estremi, etc.); ai servizi di supporto (supporto fisico, decomposizione e mineralizzazione di materia organica, habitat delle specie, conservazione della biodiversità, etc.); ai servizi culturali (servizi ricreativi, paesaggio, patrimonio naturale, etc.). La riduzione del consu- mo di suolo riveste quindi una grande importanza per il genere umano.

La rappresentazione più tipica del consumo di suolo è data dalla quantità (ancora crescente) di aree coperte da edifici, infrastrutture di vario ge- nere lineari e puntuali, ma anche aree pavimentate per molteplici ragioni ed usi. In ragione dei tempi estremamente lunghi di formazione o ripri- stino, il suolo si può ritenere una risorsa sostanzialmente non rinnovabile.

La Commissione europea nella Strategia tematica per la protezione del suolo del 2006 indica l’impermeabilizzazione come uno dei maggiori processi di degrado del suolo. Una volta distrutto o gravemente degra- dato, le generazioni future non vedranno ripristinato un suolo sano nel corso della loro vita.

Nel 2015 l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite nel definire gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Develop- ment Goals – SDGs), indica alcuni obiettivi che riguardano il consumo di suolo, da integrare nei programmi nazionali a breve e medio termine e da raggiungere entro il 2030:

CONSUMO DI SUOLO

• assicurare che il consumo di suolo non superi la crescita demografica (Indicatore SDG 11.3.1);

• raggiungere un saldo zero del consumo di suolo quale elemento es- senziale per mantenere le funzioni ed i servizi ecosistemici (Indicatore SDG 15.3.1).

Con la sottoscrizione dell’Agenda, tutti i paesi, compresa l’Italia hanno accettato di partecipare ad un processo di monitoraggio di questi obiet- tivi.

Il Parlamento italiano negli ultimi anni ha discusso vari progetti di legge finalizzati alla riduzione del consumo di suolo (senza successo al momen- to). L’ultima fra le diverse proposte di legge risale al 2018 e definisce nel seguente modo cosa debba intendersi per consumo di suolo: “la modifi- ca o la perdita della superficie agricola, naturale, seminaturale o libera, a seguito di interventi di copertura artificiale del suolo, di trasformazione mediante la realizzazione, entro e fuori terra, di costruzioni, infrastruttu- re e servizi o provocata da azioni, quali l’asportazione e l’impermeabiliz- zazione”.

Nel dicembre 2017 la Regione Emilia Romagna ha introdotto nella nuova legge urbanistica l’obiettivo del consumo di suolo a saldo zero da rag- giungere entro il 2050. Il 5 novembre 2020 la Commissione europea ha lanciato la roadmap che condurrà alla “New Soil Strategy - healthy soil for a healthy life”, aggiornamento della strategia dell’UE per la prote- zione del suolo, con il motto ‘Suolo sano per una vita sana’, evidenziando come la salute del suolo sia essenziale per conseguire gli obiettivi in ma- teria di clima e biodiversità previsti nel Green Deal europeo.

a cura di

Fatima Alagna

(Politecnica)

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Le cooperative di comunità sono forme di impresa cooperativa che sviluppano la loro funzione sociale a favore dell’intera comunità della quale si riconoscono parte attiva e corresponsabile. Comparse in primi casi antologici per la narrazione e la singolarità che ha accompagnato la loro scoperta (è dovuta la citazione a Teatro Povero di Monticchiello costituita nel 1980 nell’omonimo borgo in provincia di Siena e a Valle dei Cavalieri nel 1991 a Succiso) la cooperazione comunitaria è diven- tata progressivamente una presenza significativa, con una diffusione particolarmente vasta a partire dal 2015 in tutte le regioni italiane. E’

una forma di impresa che propone una serie di innovazioni di tutta rile- vanza con riguardo alla rigenerazione e allo sviluppo territoriale delle aree più socialmente e/o economicamente vulnerabili del paese. Le cooperative di comunità aggiungono infatti ai tradizionali caratteri mu- tualistici (democrazia interna, paritarietà dei soci, non speculatività, porta aperta a nuovi soci) altri impegni che riguardano lo sviluppo delle opportunità che il territorio propone e per le quali il mercato non tro- va sufficienti ragioni di investimento e la risposta ai bisogni collettivi che il sistema pubblico non riesce a soddisfare attraverso i suoi mec- canismi redistributivi e i suoi limiti organizzativi. In questi contesti la cooperativa di comunità è quindi un’ “istituzione comune” culturale, sociale ed economica volta a ripristinare condizioni di valorizzazione delle risorse presenti inutilizzate per la loro trasformazione innovati- va in valori di reddito, lavoro e, quindi, risposte sociali. L’innesco si ha nell’intenzione esplicita e pubblica di alcuni abitanti, nativi, ritornanti o affettivi, persone e imprese, di operare insieme per il mantenimen- to e lo sviluppo di condizioni di vivibilità del territorio eletto. Questo fenomeno si presenta come forma imprenditoriale e aziendale di forte innovazione: allineare scopi imprenditoriali e scopi comunitari facen-

COOPERATIVE DI COMUNITÀ

done laboratorio comune di costruzione territoriale e modello di bu- siness è infatti l’esercizio distintivo delle cooperative di comunità per massimizzare le reputazioni territoriali e di mercato necessarie in questi contesti. Possiamo considerare ad oggi almeno 200 cooperative comu- nitarie attive sul territorio nazionale e 40 sono quelle così riconosciute in Emilia-Romagna. Le esperienze sono ovunque tipiche e rispondo- no a modelli, scopi e processi di evoluzione territorialmente diversi.

All’interno del fenomeno, eclettico e in continua evoluzione, possiamo riconoscere indicativamente cooperative paese (istituzioni briglia della intera collettività che diventano piattaforma di conversazione socia- le e progettazione imprenditoriale), cooperative di lavoro comunitario (che uniscono finalità di mutualità interna tradizionali a trasformazione di risorse locali e multifuzionalità), cooperative di scopo (finalizzate alla rigenerazione di singole emergenze storiche, culturali o immobi- liari), cooperative municipali (promosse e partecipate da enti locali per la gestione comune con gli abitanti di beni e servizi collettivi o di interesse pubblico), cooperative sociali comunitarie (che, rispondendo alla propria missione di welfare, rigenerano attività e patrimoni del ter- ritorio in altri settori).

L’esperienza sul campo, i suoi esiti e i valori di maggiore conspevolezza, competenza e intraprendenza che rilascia dove viene sviluppata, con- ferma che la cooperazione di comunità non è solo una forma di impresa possibile ma anche un percorso di ricerca, animazione e maturazione dei territori necessaria alla loro rigenerazione nelle espressioni che si daranno. A questo riguardo, il loro valore, seppure scoperto fra gli Ap- pennini, riguarda l’universalità del territorio regionale e non di meno quello metropolitano.

a cura di

Giovanni Teneggi

(Confcooperative)

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La Rigenerazione urbana si caratterizza per essere una politica pubblica complessa, che punta allo sviluppo della qualità urbana in una logica di recupero fisico dei territori e degli edifici ma anche, contestualmente, di rivitalizzazione sociale e culturale delle aree interessate, a partire da quelle più degradate dell’ambito urbano. Si caratterizza, quindi, per es- sere un processo che vede l’attivazione di risorse pubbliche e private, secondo criteri di Partenariato Pubblico Privato, con l’obiettivo di far concorrere rispetto ad obiettivi comuni risorse e investimenti pubblici, delle imprese, delle organizzazioni sociali non profit e delle cooperative.

Il tutto dentro i grandi processi di transizione digitale e di perseguimen- to degli obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

Si tratta quindi di costruire delle reti di soggetti diversi, in una visione di sistema, che cerca di mettere in campo le risorse che ciascun soggetto, peculiarmente, può produrre.

Importante è anche il fatto che ai vari soggetti impegnati viene chiesto non tanto un passivo adeguamento alle norme e alle regole stabilite, ma un contributo creativo rispetto al raggiungimento degli obiettivi di qua- lità del vivere, sicurezza, crescita comunitaria.

Le politiche di Rigenerazione urbana testimoniano anche del fatto che ben difficilmente i tradizionali meccanismi di mercato (valorizzazione della rendita e degli investimenti immobiliari) possono essere conside- rati risolutivi nell’affrontare le situazioni di degrado o di difficoltà in cui versano le aree oggetto di Riqualificazione. Occorre un nuovo equilibrio tra mercato e sostenibilità che non è solo ambientale ma anche sociale ed economica.

Occorre quindi mobilitare risorse di altro tipo, che fanno perno sulla re- sponsabilità sociale, sulla costruzione di capitali di fiducia reciproca tra attori, sulla relazione con le comunità locali.

La Rigenerazione urbana sarà il terreno di applicazione anche delle nuo-

COOPERAZIONE

ve tecnologie e di raggiungimento dei nuovi obiettivi di risparmio ener- getico e controllo dei fattori di inquinamento a partire dalle emissioni di carbonio.

Per questo da sempre, le iniziative di Rigenerazione urbana rappresen- tano sia una terreno di intervento privilegiato sia una sfida per le coope- rative.

La cooperazione si caratterizza per essere sia una organizzazione di im- prese che rispondono a criteri di efficienza e di produttività sia un mo- vimento che porta con sé una “memoria” territoriale di rapporto con le comunità. Le cooperative sono, cioè, anche uno strumento attraverso il quale fasce deboli della popolazione si sono difese e autorganizzate, in una visione solidaristica e mutualistica.

Ma portano con sé, da subito, anche l’esigenza del “fare rete”, del con- correre a costruire strumenti di tenuta per stare meglio sul mercato, dai consorzi, alle filiere integrate, ai “gruppi cooperativi” e altre forme di collaborazione: “Cooperare tra cooperative”, rappresenta uno dei prin- cipi internazionali della cooperazione.

Le politiche di Rigenerazione rappresentano una sfida proprio rispetto a queste caratteristiche “storiche” della cooperazione e sono anche una occasione per un riposizionamento del loro patrimonio sociale e impren- ditoriale. Innanzitutto nel mettere a disposizione la loro responsabilità rispetto ai territori: “Le cooperative lavorano per uno sviluppo durevole e sostenibile delle proprie comunità attraverso politiche approvate dai propri soci”, è un altro dei Principi cooperativi. Lo scambio virtuoso con le comunità locali ha da sempre caratterizzato l’azione e l’iniziativa delle cooperative e la loro presenza diffusa sul territorio regionale ne fa una risorsa preziosa sia materiale sia per i valori di solidarietà e mutualità che porta con sé.

a cura di

Maurizio Brioni

(Legacoop Emilia-Romagna)

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Molte cooperative rappresentano un patrimonio dei territori, ne sono una espressione consolidata.

L’altra sfida decisiva viene giocata rispetto alla capacità di pensare delle azioni integrate, di “sistema” rispetto agli obiettivi della Rigenerazione.

Il movimento cooperativo ha consolidato nel corso del tempo capacità imprenditoriali di risposta ai bisogni delle comunità. Si tratta di organiz- zare delle risposte di sistema che integrino le potenzialità che le coope- rative possono offrire ai territori.

Sono molteplici le linee di intervento in atto, che caratterizzano questa nuova sfida per la cooperazione:

• l’integrazione tra cooperazione sociale e cooperazione di abitanti nell’offerta di servizi nuovi e innovativi per l’housing sociale;

• la presenza di punti vendita nelle realtà più difficili, come un elemento di qualità del tessuto urbano, anche riorganizzando gli spazi già esistenti e non utilizzati

• l’organizzazione di trasporti locali che tengano conto dei nuovi bisogni;

• la valorizzazione delle capacità artigianali presenti in un territorio;

• la realizzazione di attività culturali;

• la modalità di organizzazione delle mense scolastiche e per i lavoratori, per una nuova cultura dell’alimentazione;

• nuove e innovative modalità di costruzione degli edifici;

• l’organizzazione di cooperative per la gestione dell’energia;

• organizzare il consumo dei fabbisogni digitali;

• gestire le nuove tendenze del consumo online e dei servizi a domicilio,

COOPERAZIONE

contro i rischi di indebolimento dei diritti.

Sono solo alcuni degli esempi delle nuove attività e delle necessarie integrazioni che la cooperazione può offrire alle politiche di Rigenera- zione urbana.

Questo lavoro di integrazione è, contestualmente, anche una operazio- ne di riposizionamento strategico della cooperazione, che dovrà\potrà trovare nuovi modelli di business, che si incrocino con nuovi obiettivi di responsabilità e mutualità. Un riposizionamento che dovrà basarsi su un forte investimento formativo, che dovrà essere effettuato anche incro- ciando analoghe esigenze della parte pubblica.

Si tratta di un complesso processo di riposizionamento cognitivo, per una più adeguata comprensione dei processi in atto e per costruire stru- menti più adeguati per il loro governo.

Basta pensare ai nuovi modelli di intervento per rispondere ai bisogni indotti dagli andamenti demografici e dai bisogni nuovi di una nuova po- polazione anziana. L’esperienza del Covid ha reso evidente la necessità di ripensare l’intera assistenza sociosanitaria territoriale. Così come si aprono nuovi spazi per la fruizione culturale e artistica del territorio.

Per questo la cooperazione, per le sue caratteristiche storiche, dovrà es- sere tra i protagonisti del rinnovamento delle città, rinnovando sé stessa, reinventando il suo ruolo di servizio alle proprie comunità.

a cura di

Maurizio Brioni

(Legacoop Emilia-Romagna)

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Il nostro Paese dispone di un vasto patrimonio immobiliare pubblico, estremamente eterogeneo per caratteristiche, localizzazione e stato di conservazione. La sola Agenzia del Demanio, responsabile della gestio- ne, razionalizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare dello Stato, amministra un portafoglio di circa 42 mila beni (per un valore stimato di 61 miliardi di euro). Il patrimonio pubblico – appartenen- te al Demanio ma anche alle Regioni, alle amministrazioni locali e ad altri enti e istituzioni pubbliche – costituisce una componente impor- tante del quadro territoriale e urbano, sia in termini di ruoli identitari (in taluni casi) ma anche propriamente in termini dimensionali. Negli ultimi decenni questo patrimonio è stato interessato da fenomeni di dismissione e in molti casi anche di abbandono che, mettendone in di- scussione funzioni e ruoli storici e producendo effetti più o meno critici sul proprio contesto, hanno chiamato i soggetti responsabili a porsi il problema del loro destino.

Nel tempo si sono alternate due impostazioni gestionali, la prima di natura prettamente economica e finanziaria, ha guardato al patrimo- nio come un asset improduttivo da mettere sul mercato per risanare il bilancio dello Stato. Questo approccio si è scontrato con diverse ed evidenti problematiche attuative, derivanti dalla natura stessa dei beni (troppo grandi o complessi in alcuni casi, “inalienabili” per ragioni iden- tiarie e culturali in altri, o più semplicemente perchè, fatto salve le po- che localizzazioni forti, non apprezzate dal mercato). Anche sulla base

DEMANIO

di queste esperienze è quindi maturata una maggiore consapevolezza che ha orientato verso approcci più attenti a riconoscere nel patrimo- nio pubblico una importante risorsa per la rigenerazione urbana e lo sviluppo locale: una efficace gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico che richiede però un approccio attivo, capace di coniugare le istanze di tutela dei beni, di sviluppo economico e di co- esione sociale, il tutto cercando di coniugare sostenibilità e fattibilità.

A livello nazionale in anni recenti l’Agenzia del Demanio ha introdotto e implementato con successo iniziative che hanno fatto intravedere questo nuovo approccio alla valorizzazione degli asset pubblici, intesi come eccezionali opportunità per promuovere lo sviluppo sociale ed economico del Paese. Sarebbe quantomai opportuno proseguire una convinta (e continuativa) stagione di implementazione di politiche, metodologie e strumenti volti a supportare la gestione intelligente di quei beni che costituiscono i principali tasselli della “città pubblica”.

Strategie e strumenti con i quali il patrimonio pubblico (o almeno una parte significativa di questo) potrà essere pienamente valorizzato, su- perando da un lato la retorica di false panacee per la finanza pubblica, dall’altra l’immobilismo e la mancanza di iniziativa che rappresentano il vero e più concreto rischio.

a cura di

Lorenzo Baldini

(CAIRE Consorzio)

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L’impressionante accelerazione digitale dell’ultimo decennio è la rea- lizzazione della profezia contenuta in ben quattro leggi dell’era dell’in- formation technology : la crescita esponenziale della velocità di ela- borazione dei computer; la velocità di trasmissione dati che cresce tre volte più rapidamente della velocità dei processori; l’aumento del valore di rete (essere connessi con una rete aumenta il suo valore al crescere della rete e al diminuire del costo di adesione); la nascita di tecnologie dall’elevato potere ricombinatorio con potenzialità per nuovi prodotti. La Rivoluzione digitale investe la città nella misura in cui l’ambito urbano vede aumentare, grazie ai dati in grandi quantità che scaturiscono dalla molteplicità di relazioni e flussi che attraver- sano le città, la propria potenzialità di “sistema di comunicazione” tra i cittadini, i servizi pubblici e privati e le forme organizzate di comu- nità che lo popolano. La visione di città progettate e governate sulla base conoscitiva che può scaturire da grandi moli di dati (Big Data) ha condotto, nell’ultimo decennio, un sempre maggior numero di ammini- strazioni di grandi e medie città ad intraprendere un percorso verso la cosiddetta “città intelligente” (smart city) sebbene con una gamma di strategie molto diversificate che vanno dalla minimale pubblicazione di dati anagrafici in formato “open data”, a servizi di elaborazione dei dati di flusso (demografico, di traffico, ecc.) a fini di programmazione, fino a esperienze (soprattutto nelle grandi città) di “city dashboards”

ovvero sofisticati sistemi di monitoraggio e rappresentazione visiva di dati urbani anche per il monitoraggio e l’aggiornamento di servizi ai cittadini. La svolta digitale presenta opportunità e rischi: da una par- te, si amplifica la capacità di mettere in relazione costante, attraverso piattaforme e applicazioni, il produttore con il cliente, che in ambito

DIGITALE

urbano e territoriale significa la potenzialità di mettere in maggiore relazione il cittadino con l’erogatore di servizi pubblici e con l’ammini- strazione anche ai fini di una costante partecipazione al miglioramento dei servizi; dall’altra, l’attenzione esclusiva alla componente tecnolo- gica e l’utilizzo di grandi piattaforme globali (come Amazon o Google) espone ad effetti di “cattura” che rischiano di non tener conto di pre- ferenze e valori dei cittadini e delle comunità locali nella costruzione di spazi urbani sostenibili. Non a caso, negli ultimi anni, la reazione al rischio di “smart cities” troppo spostate sulla componente tecnologica è quella di aumentare azioni di “cittadinanza intelligente” per contri- buire alla produzione partecipata di conoscenza sulla e per la città. La sfida digitale delle città esige anche una trasformazione “ecosistemica”

che possa permettere di sintonizzare le politiche urbane con la trasfor- mazione verde dei prossimi anni: i mezzi a propulsione elettrica e gli automezzi a guida autonoma avranno infatti bisogno di infrastrutture dedicate e di nuove politiche per la mobilità incentrate su nuovi servi- zi digitali di monitoraggio, controllo e misurazione. Le città “sospinte dai dati”, nella piena potenzialità di una ampia conoscenza raccolta attraverso gli innumerevoli flussi che caratterizzano lo spazio urbano, offriranno pertanto il nuovo contesto in cui si andranno a realizzare i programmi di rigenerazione. La capacità di utilizzare moli sempre più ampie e complesse di dati e le potenzialità del digitale a fini di una più ampia partecipazione dei cittadini e per servizi sempre più sostenibili forniranno la cartina tornasole per la trasformazione digitale delle città nel prossimo decennio.

a cura di

Lorenzo Ciapetti

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L’ecologia urbana e’ una scienza “che ha modi civili, corretti e cortesi nel trattare con altri (soprattutto con estranei)”. Passa il suo tempo a osservare la casa che ha di fronte e trova simpatici gli esseri che la abi- tano quando la tengono pulita, innaffiano le piante e vanno d’accordo con il cane, il gatto e l’Orso dei Tubi. Non li capisce quando la riempiono di cose, non sanno più da che parte girarsi, ma si agitano, litigano tutti con tutti e respirano con affanno. Entrano ed escono spesso dalla casa, portano dentro e fuori tante cose, ma non si accorgono che il mondo intorno e’ grande e bello ed e’ anche il loro mondo. Alcuni abitanti della casa hanno a disposizione stanze ampie e luminose, al piano alto, man- giano tanto e vestono bene. Altri vivono in cantina, sembra che non se la passino bene. Anzi ogni giorno stanno peggio. Più di uno e’ andato via durante il lock down, ma e’ già tornato e non è cambiato, solo un po’ più invecchiato e un po’ più solo. Fa caldo. Qualcuno grida “la casa brucia!”, ma nessuno, a parte il cane, il gatto, l’Orso dei Tubi e i topi, da’ segno di preoccuparsi.

L’ecologia urbana è la scienza che studia le relazioni dei viventi tra loro e con l’ambiente in cui vivono, l’ecosistema urbano ovvero la città. Si tratta di un sistema complesso, un insieme di ambienti diversi: spazi edificati o che ospitano infrastrutture, spazi aperti più o meno vuoti, a diverso gra- do di naturalità. Nella città vivono persone, ma anche animali e piante.

ECOLOGIA URBANA

L’ecosistema urbano è caratterizzato da un intenso metabolismo per uni- tà di superficie. Non è autonomo: scambia persone, materia (cibo, acqua, rifiuti...) ed energia con altri sistemi, ambienti tanto più numerosi e tanto più ampi quanto più intenso è il metabolismo della città.

Prima del 2020 il processo di inurbamento era considerato uno dei prin- cipali “megatrend” a livello mondiale: la pandemia di Covid-19 ha indot- to modifiche nelle dinamiche delle città, al loro interno e nelle relazioni con l’esterno, la cui portata e la cui durata sono ancora da accertare.

Indiscutibile tuttavia, ora e in prospettiva, è il ruolo che gli ecosistemi urbani giocano in fenomeni determinanti per la sostenibilità dei sistemi locali e globali, quali il cambiamento climatico e la crescita delle dise- guaglianze economiche e sociali. L’ecologia urbana è dunque una scienza a cui concorrono numerosi saperi e discipline, sia scientifiche che uma- nistiche e non può limitarsi a studiare i fenomeni, deve anche ricercare, sperimentare modelli alternativi di sviluppo e proporre soluzioni.

a cura di

Sonia Cantoni

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