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Dall’esternalismo sulla mente all’esternalismo sulla soggettività

3. D ALLA MENTE ALLA SOGGETTIVITÀ

3.1.1. Dall’esternalismo sulla mente all’esternalismo sulla soggettività

L’idea che nuove visioni della mente possano dar luogo a concezioni differenti di sé o di io non è affatto una novità. Nell’ultimo paragrafo dell’articolo sulla Mente Estesa, Clark e Chalmers (2010, p. 39) stessi si domandano: «what, finally, of the self? Does the extended mind imply an extended self?». Infatti, i due argomentano, se riconosciamo che le credenze, i desideri, i processi cognitivi e gli stati mentali di un individuo si estendono al di là del suo cranio e della sua pelle, non dovremmo ammettere che è l’individuo stesso a non essere racchiuso nei sui confini organici? Le informazioni sul taccuino di Otto sono centrali per la sua identità come agente cognitivo, dunque non è soltanto la sua mente ad essere estesa, ma Otto medesimo dovrebbe essere considerato come un sistema esteso (extended system): un accoppiamento ibrido di organismo biologico e componenti esterne, un agente «spread into the world». Come concludono Clark e Chalmers: «once the hegemony of skin and skull is usurped, we may be able to see ourselves more truly as creatures of the world» (p. 39).

La suggestione dei due autori appare molto stimolante, soprattutto alla luce della crescente presenza nelle nostre vite di artefatti tecnologici sempre più sofisticati, e ha incontrato dei riscontri positivi nel dibattito contemporaneo (ma anche delle critiche: cfr. Baker 2009; Buller 2013; Olson 2011). Tra le voci favorevoli, alcune si sono occupate di indagare ulteriormente la proposta dal punto di vista teorico, fornendo evidenze e osservazioni aggiuntive a supporto dell’idea che il self sia extended (cfr. Heersmink 2017; Malafouris 2008a, 2008b), altre si sono impegnate nel delinearne le implicazioni normative, tanto in senso etico quanto legale (Carter, Palermos 2016; Heersmink 2017; Levy 2007, 2009; Piredda 2017; Wilson, Lenart 2015). Ad esempio, Adam Carter e Orestis Palermos (2016), Richard Heersmink (2017) e Giulia Piredda (2017) si domandano: se i nostri sé – e le nostre identità – sono estesi a oggetti, quali diari, agende,

pc, tablet, smartphone, o altri dispositivi sui quali sono conservate memorie sotto forma

informazioni fisiologiche come deve essere considerata la loro perdita?89 È possibile

quindi pensare a questi oggetti come parte integrante di quelle aree, come il corpo e il pensiero, sulle quali uno sfondo liberale affermerebbe un diritto morale alla non interferenza? Come valutare allora una loro eventuale manomissione? Non dovrebbe avere il medesimo peso giuridico di una violazione della persona, del suo corpo e del suo pensiero? Che dire poi a proposito di come dovrebbe essere regolamentato l’accesso a tali dispositivi – dunque a parti delle nostre identità o dei nostri sé, seguendo l’argomentazione dell’extended self – da parte delle autorità giudiziarie e più in generale dopo la nostra morte? Come sottolinea Piredda (2017, p. 149): «non è difficile immaginare che nel prossimo futuro vengano elaborati dei modi per dichiarare la propria volontà in merito all’accesso ai nostri dati personali dopo la morte, in analogia con quanto già si fa – o dovrebbe farsi – per la donazione degli organi».

A tal proposito, si può notare che non sembra un caso il fatto che un social network come Facebook stia iniziando a offrire in modo sempre più dettagliato la possibilità di stabilire il destino del proprio account dopo il decesso. Come si legge sulla pagina dedicata90, è possibile scegliere tra due strade: decidere di eliminare il proprio account dopo il decesso, oppure nominare un «contatto erede» che gestisca il proprio profilo che a quel punto verrà trasformato in un account «commemorativo», esplicitamente identificabile dalla comunità di iscritti grazie all’aggiunta di un «in memoria di» accanto al nome della persona. Se non si sottoscrive alcun ‘testamento’, il profilo diviene automaticamente di tipo «commemorativo» non appena un parente stretto o un esecutore testamentario notificano, tramite certificazione adeguata, il decesso della persona. Appare interessante notare che se si stabilisce un contatto erede questo non avrà l’accesso completo all’account ma potrà solo gestire il profilo commemorativo ed eventualmente chiederne la rimozione, dunque non potrà leggere messaggi privati, pubblicare post a nome della persona defunta, né inviare richieste di amicizia.

89 Le loro argomentazioni sulla centralità per il soggetto delle risorse esterne che conservano (o

richiamano) memorie è rafforzata dall’idea di identità personale a cui gli autori fanno riferimento. Infatti, se, alla stregua di una vasta letteratura (Conway 2005; Di Francesco, Marraffa, Paternoster 2016; Habermas, Köber 2015; Marraffa, Meini 2016; Schechtman 1996), si assume una posizione neo-lockiana sull’identità personale che dà un ruolo centrale alle memorie e alla narrazione autobiografica, e dunque si considera l’identità personale come un’identità narrativa, è evidente che un’eventuale perdita/manomissione delle memorie esterne – che per la mente estesa sono equipollenti alle interne – rappresenta una minaccia alquanto rilevate per l’integrità del soggetto.

Più in generale, la prospettiva estesa e le domande sul come considerare le (presunte) estensioni del sé possono illuminare in maniera differente alcune questioni ormai classiche nel dibattito in bioetica e offrire nuovi casi e strumenti di riflessione. Come suggerito da Piredda (2017, pp. 142-149), si prendano proprio le disposizioni anticipate di trattamento, note anche come testamento biologico. Queste, in previsione di una eventuale futura condizione in cui si sarà incapaci di autodeterminarsi e nei limiti di ciò che ammette la legislazione dello Stato, ci permettono di esprimere le nostre volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché di fornire il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e specifici trattamenti, oltre che di nominare un fiduciario che faccia le nostre veci nelle relazioni con medici e strutture. Nella prospettiva della mente estesa le direttive anticipate si profilano come delle vere e proprie ‘parti costitutive’ delle mente e del sé di un individuo in quanto, seppure non sono trattenuti al momento, rappresentano degli stati disposizionali accolti e trascritti in modo consapevole da colui che li ha espressi quando questi si presentavano come stati occorrenti. Che fare quando le credenze o volontà disposizionali, registrate nel passato, e quelle occorrenti, espresse nel tempo presente, sono in contrasto? E se l’incoerenza è causata dal fatto che il soggetto ha delle capacità cognitive parzialmente compromesse a causa di uno stato patologico, ad esempio se affetto dalla malattia di Alzheimer in uno stadio non troppo avanzato, quali credenze considerare come più autentiche o quantomeno maggiormente legittime? Come dovrebbero agire le persone che devono aiutare un individuo che si trovi in tale situazione a prendere delle decisioni o che si ritrovano nella condizione di dover loro scegliere per lei/lui?

La prospettiva estesa non offre una soluzione definitiva a tali questioni, ma può illuminare in modo differente il paesaggio offrendo elementi a favore di una posizione piuttosto che un’altra. Ad esempio, in questo caso sembra porgere un’argomentazione valida a chi sostiene che le direttive anticipate abbiano un peso più che legittimo per la decisione, anche in caso di contrasti, in quanto rappresentano dei veri e propri stati mentali del soggetto, seppure non siano al momento trattenuti da colui che ne è direttamente interessato.

In modo analogo, Neil Levy (2007, 2009) delinea i riflessi della prospettiva estesa sui fenomeni mentali anche in campo neuroetico, ossia su quella parte della bioetica che si occupa, tra le altre cose, delle questioni etiche sollevate dalla pratica neuroscientifica e

dagli interventi su cervello resi possibili dalle conoscenze prodotte sul suo funzionamento. Per inciso, con il termine neuroetica si indica tanto l’appena citato filone normativo denominato etica delle neuroscienze che si occupa del modo in cui l’etica deve regolare i protocolli sperimentali e la condotta dei ricercatori che lavorano nell’ambito delle neuroscienze, oltre che valutare l’applicazione dei risultati ottenuti sugli umani, e che rappresenta una sottosezione della bioetica o dell’etica applicata, quanto il filone delle

neuroscienze dell’etica che, all’interno di un quadro naturalizzato, utilizza i risultati

ottenuti nella ricerca neuroscientifica per provare a comprendere la vita morale, e che quindi è più propriamente parte della metaetica (cfr. Roskies 2002).

Levy afferma che se l’ambiente esterno è parte della nostra mente (e nella sua trattazione dei casi della neuroetica la Mente Estesa è una tesi vera), allora le nostre valutazioni etiche sugli interventi che hanno come oggetto il cervello devono essere coerenti con le nostre valutazioni etiche sugli interventi nell’ambiente cognitivo. In altre parole:

Se temiamo, per esempio, che migliorare il cervello ricorrendo ai farmaci sia (per una qualsiasi ragione) sbagliato, o che trasformandolo usando, per esempio, la stimolazione magnetica o la chirurgia si corra il rischio di non essere autentici, allora dovremmo preoccuparci altresì di analoghi interventi sulla mente estesa. Se Otto dovesse rimpiazzare il suo taccuino con un PDA [acronimo per Personal Digital Assistant – ovvero un palmare o un’agenda elettronica], forse vorremmo affermare che sta imbrogliando, così come alcune persone ritengono che quelli che assumono Ritalin per migliorare le loro prestazioni cognitive imbroglino. È più plausibile che se interventi sulla mente estesa non sono problematici dal punto di vista etico – se il fatto che Otto sostituisca il suo taccuino con un PDA non solleva affatto problemi etici – allora non dobbiamo considerare interventi analoghi sul cervello come eticamente problematici (a parità di condizioni, cioè, non sbagliati perché sono interventi sul cervello). (Levy 2009, p. 69)

La tesi di Levy è che le nostre risposte morali alle azioni sull’ambiente che struttura le attività cognitive (e più in generale il pensiero) dovrebbero essere una cartina da tornasole per le risposte morali alle pratiche neurotecnologiche. Al contrario, l’allarmismo verso le nuove tecnologie di intervento sul cervello palesa un pregiudizio internalista da parte delle voci del dibattito che si oppongono a tali pratiche. Infatti, l’impiego delle neurotecnologie (tra cui la neurofarmacologia, la terapia elettroconvulsiva, la stimolazione transcranica, la psicochirurgia, etc.) per trattamenti clinici di patologie

psichiatriche o dipendenze è rifiutato per la specialità di avere il potere di agire sull’interno e l’interno è per i critici, più o meno esplicitamente, la sola dimensione che qualifica la mente e il sé. Dunque, secondo secondo l’argomento internalista, solo modificando l’interno si perde la natura stessa di quella soggettività. Ad esempio, Carl Elliott (1998, p. 182) scrive: «It would be worrying if Prozac altered my personality, even if it gave me a better personality, simply because it isn’t my personality. This kind of personality change seems to defy an ethics of authenticity». Eppure, nella sua discussione non traspare la medesima preoccupazione per il trattamento della depressione tramite la psicoterapia o per altre forme più tradizionali di manipolazione, quali ad esempio la presentazione di prove o argomentazioni a favore di una riconcettualizzazione delle esperienze che si stanno vivendo in modo di dar loro un senso differente nel bilancio della propria vita o la messa in atto di azioni individuali e collettive volte alla modificazione dell’ambiente che può essere uno delle cause dello stato depresso, ad esempio cambiare professione o rinegoziare i termini e le garanzie dei contratti di lavoro91. In maniera simile, l’inquietudine dei critici si direziona solo verso la strada della farmacologia psicostimolante che sembra in grado di migliorare le prestazioni cognitive, come ad esempio l’utilizzo dei metalfenidati quale il Ritalin, e non investe le vie più classiche quali una nutrizione adeguata, la scolarizzazione, politiche sociali che favoriscano l’accesso alle risorse appropriate alla crescita intellettuale, ad esempio tramite la ridistribuzione delle ricchezze, l’aumento di borse di studio atte a garantire alle fasce più deboli di frequentare l’università, la revisione dei criteri di ammissione in modo che tengano in conto le cause delle differenze riscontrabili. A testimonianza del fatto che sulla manipolazione diretta del cervello vi sia un veto speciale, le obiezioni non toccano neanche il ricorso a integratori vitaminici. La tesi della Mente Estesa sgonfia le pretese del pregiudizio internalista, ovvero che solo la modifica interna è quella che conta per la variazione degli stati mentali, e apre le porte al confronto con questi altri casi. In tal senso, secondo Levy (2007, p. 3): «the [extended mind] thesis alters the focus of neuroethics,

91 Si sta qui utilizzando la parola «depressione» in senso piuttosto naïf, ovvero riferendosi a degli «stati

depressivi» generali del soggetto che non devono necessariamente essere attestati da diagnosi psichiatriche, ad esempio nell’area dei disturbi dello spettro bipolare. Infatti, l’ipotesi che le condizioni sociali in cui si vive abbiano un ruolo sul benessere mentale è ampiamente condivisa, quanto meno in relazione al fatto che condizioni inadeguate sembrano correlare con forme di malessere psichico (certamente sul versante non patologico, ma forse anche in vari gradi su quello patologico, tuttavia per l’argomentazione che si porta avanti è già sufficiente il fatto che un ambiente alienante, insicuro, stressante può determinare degli stati «depressivi» di fondo, intesi in senso di malessere e tristezza diffusa).

away from the question of whether we ought to allow interventions into the mind, and toward the question of which interventions we ought to allow and under what conditions». In questa sede non vogliamo avanzare posizioni normative in etica applicata né in ambito neuroetico quanto piuttosto evidenziare la capillarità delle implicazioni di un approccio esternalista sulla mente e sulla soggettività. In altri termini, non stiamo già dando per assodato, né al contrario escludiamo di partenza, che vi siano argomentazioni valide per sostenere che le disposizione anticipate di trattamento debbano essere considerate credenze quanto quelle sostenute al momento della scelta, che la manomissione del proprio PC debba essere punita come una aggressione o una violenza fisica, che la psicofarmacologia, la terapia elettroconvulsiva o la psicochirurgia debbano essere ritenute equipollenti all’assunzione di vitamine o alla psicoterapia. Ciò che appare più rilevante evidenziare è il fatto che – come dovrebbe essere chiaro dalle questioni che si è provato brevemente a elencare – un approccio esteso amplia il quadro, conducendo in alcuni casi a riformulare le problematiche etiche. L’idea che il progresso scientifico e quello tecnologico generino sempre nuove tipologie di questioni e di casistiche non è una sorpresa per la bioetica – si pensi soltanto al fatto che la disciplina stessa nasce come riflessione etica «sui mutamenti che medicina e biologia hanno provocato per quanto riguarda il nascere, curarsi e morire degli esseri umani» (Lecaldano 1999, p. 4) –, tuttavia in questo caso non sarebbero soltanto le trasformazioni tecnologiche in sé a creare nuovi scenari non pensabili o non disponibili in precedenza, bensì il valore che attribuiamo a tecniche/oggetti/dispositivi tanto vecchi quanto nuovi (oltre al valore che attribuiamo agli altri individui, se si estende anche a loro la mente) rispetto alle nostre concezioni di «persona» e «sé». Infatti, l’asserzione che il sé è esteso a cose esterne ci porta a interrogarci su quali comportamenti siano moralmente giusti tanto rispetto a cose che erano già presenti nei nostri ambienti, ad esempio un taccuino, le nostre dichiarazioni sulle direttive anticipate di trattamento, quanto rispetto a quelle che sono il prodotto delle tecnologie più avanzate degli ultimi anni, ad esempio i dati del lifelogging, i nostri profili social, gli smartphone o i dispositivi in cui tali informazioni sono salvati etc. Allo stesso modo, ci dovrebbe portare a ridimensionare l’eccezionalità delle misure che modificando gli stati mentali e le capacità cognitive manipolano direttamente il cervello, la psicofarmacologia, la psicochirurgia, le tecniche di stimolazione trans-cranica, rispetto a quelle che hanno come campo d’azione il corpo o l’ambiente circostante, come la

psicoterapia, il cambiamento dello stile di vita, l’assunzione integratori, le politiche sociali. In altre parole, una concezione nuova della mente dà dei connotati differenti ai concetti di persona, sé o identità. Questi, a loro volta, possono aver il peso di ridisegnare il perimetro della sfera su cui l’agente morale ha diritto di azione e decisione autonoma, ossia su cui non è ammessa interferenza esterna. Più in generale, possiamo dire che una fisionomia nuova dell’immagine della persona modifica lo scenario in cui ci chiediamo se è moralmente lecito porre in atto o ammettere una serie di azioni e pratiche e in quali termini queste ultime dovrebbero essere consentite.

Il crescente dibattito a riguardo, tanto in accademia che nell’opinione pubblica, e il modo in cui la prospettiva estesa sembra essere in grado ripercuotersi sulla dimensione normativa generando nuove problematiche e/o interpretazioni inedite di vecchi dilemmi morali rendono palese la necessità, prima di proseguire sulla strada delle implicazioni etiche della Extended Mind e dell’Extended Self, di fare chiarezza su quantomeno due questioni:

1) Abbiamo evidenze empiriche per affermare che la mente sia letteralmente estesa? 2) Seppure non possiamo definire la mente letteralmente estesa, in che modo le

visioni di organismo e di mente che emergono dal confronto con varie fonti empiriche che danno credito a un interazionismo costruttivista tra interno ed esterno (o una certa forma di esternalismo metodologico, cfr. § 2.5.2.) si ripercuotono sulla nostra idea di soggettività?

Nel corso del precedente capitolo, grazie agli strumenti della metodologia naturalizzata, ci siamo dedicati alla prima. Infatti, tramite il confronto con alcune prospettive teoriche in filosofia della biologia (la teoria della costruzione della nicchia, l’approccio dei sistemi di sviluppo e la riforma della psicologia evoluzionista che ne emerge), così come con posizioni affini alla mente estesa riconducibili alle scienze cognitive e alle scienze della mente contemporanee (le altre direzioni orizzontali che danno corpo – e mondo – alla 4E cognition), si è provato a delineare un’idea di mente che, pur riconoscendo molte delle ragioni delle spinte esternaliste, non accoglie l’ipotesi di considerare la mente come realmente localizzata all’esterno dell’organismo biologico.

Ciò nonostante, l’ipotesi della scaffolded mind che si è avanzata prende più che sul serio il ruolo del mondo esterno, della nicchia ecologica, tanto nel processo di strutturazione delle capacità psico-affettivo-cognitive nel corso dello sviluppo, quanto nelle modalità in cui tali capacità si pongono in atto. Ciò ci conduce a porre in primo piano la rilevanza di questa descrizione naturalizzata della mente per una descrizione naturalizzata della soggettività. L’idea di fondo è che molte delle problematiche e dei nuovi strumenti interpretativi che emergono da una visione estesa della mente possono mostrarsi validi anche agli occhi di una prospettiva scaffolded. In altre parole, è possibile parafrasare la domanda di Clark e Chalmers e chiedersi: «does the scaffolded mind imply a scaffolded self?».

Nella parte residua di questo lavoro si proverà a esplorare tale questione, che rappresenta la seconda di quelle appena elencate. Per anticipare l’argomentazione che segue, la nostra risposta sarà che sia possibile sostenere, sotto più punti di vista, che anche il «sé» o l’«io» del soggetto, come il suo corpo e la sua mente, sia edificato e variamente supportato dalla nicchia ecologica in cui si sviluppa e ha poi un ruolo nel modificare la nicchia stessa. È evidente che per sostenere che il sé o la soggettività emergono nelle interazioni che si realizzano nella nicchia ecologica grazie al contributo di un concerto di elementi e fattori eterogenei (genetici, epigenetici, cellulari, relazionali, epistemici, culturali, sociali, etc.) si debbano impiegare strumenti differenti in base a quello che si intende con nozioni polisemiche quali sono quelle di «sé», «soggettività», «identità personale». Procederemo dunque provando a illustrare il contributo che la prospettiva ecologica delineata può fornire rispetto a tre modalità con cui si può descrivere il sé. Dopo un piccolo excursus sulla prima e qualche chiarimento tra la seconda e la terza, la nostra attenzione si focalizzerà su quest’ultima in quanto ci sembra che possa rappresentare uno spazio in cui il modello di mente tratteggiato abbia qualcosa di più incisivo da dire.

a) Il sé inteso nel senso di individualità biologica.

b) Il sé esperienziale o la soggettività dal punto di vista della prima persona. c) La soggettività dal punto di vista della terza persona.

Rispetto alla prima definizione si accennerà al modo in cui la visione della relazione organismo-ambiente che emerge nelle prospettive darwiniane contemporanee che si sono

analizzate (dunque in primis nelle teorie della costruzione della nicchia e dei sistemi di