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Soggettività come autoesperienza di sé

3. D ALLA MENTE ALLA SOGGETTIVITÀ

3.1.4. Soggettività come autoesperienza di sé

Come si è già dichiarato, la tesi che si sostiene è che, visto il quadro finora tracciato, anche la soggettività intesa in un senso marcatamente psicologico debba costruirsi all’interno delle «interazioni costruttive» del sistema di sviluppo dell’organismo che hanno luogo durante tutto il corso della sua vita. Tale affermazione può essere soddisfatta (quantomeno) da due analisi differenti: quella che considera la soggettività a partire dalla prima persona e quella che considera la soggettività a partire dalla terza persona. Queste non sono necessariamente in contraddizione tra loro, ma corrispondono a due descrizioni

98 Pertanto, tale traduzione non è senza precedenti nell’ambito. Al contrario, in una curatela dal titolo Il

Soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Michele Di Francesco e Marraffa (2009, p. 39) affermano

espressamente di aver preferito tradurre, per quanto possibile, «self» con «io». A tale impostazione metodologica della raccolta Di Francesco (2009) alterna ogni tanto «soggetto» e «soggettività». Anche nella traduzione di Hume (2010) riportata, ad opera di Armando Carlini e rivista dal curatore Lecaldano, «self» è tradotto con «io». Tuttavia, si può notare che il sé sostantivato ha tutt’ora un suo utilizzo in vari campi della psicologia (sociale, dello sviluppo, della personalità). Inoltre, il volume Self comes to mind di Damasio (2012) è diventato Il sé viene alla mente, così come al suo interno si parla di «proto-sé», «sé- autobiografico», etc. Anche nel testo di Marraffa e Cristina Meini (2016), in cui il pensiero di Jervis rappresenta un riferimento solido, si utilizza il sé sostantivato in varie occorrenze: i «sé» jamesiani («sé materiale», «sé sociale» e «sé spirituale»), «costruzione del sé», «sé adulto», «sé psicologico», etc. Infine, il Dizionario italiano-inglese Oxford Paravia 2005 traduce «self» con «sé». Non che ciò ne legittimi da sé l’uso, nondimeno potrebbe condurre a una familiarità con il termine usato come sostantivo che quantomeno potrebbe svuotarlo di quella stranezza e artificialità da «traduzione traditrice» che denunciava Jervis (2011, p. 46) nei suoi scritti e che, a suo parere, conduceva seduta stante, a prescindere dal modo reale in cui era impiegato, a una lettura essenzialistica. In altre parole, la sostantivazione del pronome personale «sé» potrebbe rientrare all’interno dell’evoluzione della lingua stessa.

non equivalenti di cosa vada inteso per soggettività. In questo paragrafo ci occuperemo della prima, mentre nel prossimo e conclusivo ci occuperemo della seconda.

In primo luogo si può intendere la soggettività unicamente come la dimensione interiore che il soggetto esperisce come propria, ossia l’autocoscienza psicologica: ciò che precedentemente si è chiamato il sé esperienziale o dal punto di vista della prima persona (ciò che in 3.1.1. si posto nel punto b.). In tal senso, si starebbe affermando che la capacità di auto-esperirsi non è già data dalla nascita (o meglio dalla gestazione). Al contrario, come qualsiasi altra capacità o tratto morfologico e psicologico, questa è il frutto di un processo che avviene nel corso dell’ontogenesi del soggetto stesso grazie al contributo di elementi eterogenei (genetici, epigenetici, cellulari, biopsicologici, dell’ambiente chimico, sociali, relazionali etc.) secondo quelle che Oyama (2004) definisce le «cascate di contingenza»: ovvero in cui le interazioni di ogni stadio dipendono dalle precedenti interazioni e fanno da fondamento alle successive (e, inoltre, in cui i vari componenti agiscono in maniera sistemica e secondo scale di grandezza differenti, ovvero vi sono dei feedback reciproci tra i vari ‘stadi’ del processo). In altre parole, il modello dei sistemi di sviluppo (ma più in generale anche il modello di

scaffolded mind così come lo si è rivisitato, cfr. 2.5.1.) in questo caso indica soprattutto

il metodo con cui è necessario procedere nella ricerca: infatti, domanda di muoversi seguendo un criterio bottom-up (dal basso all’alto, ossia dal più semplice al più complesso) e, inoltre, di abbracciare un punto di vista contestualistico e sistemico (cfr. 2.1.2.). Tra le altre cose, ciò significa, che per spiegare l’esperienza soggettiva di sé è necessario procedere con una metodologia comparata tra animali umani e animali non umani, guardare a come l’esperienza di sé si sviluppi nel corso del ciclo di vita e, inoltre, adottare una metodologia «esternalista» (o meglio un costruzionismo interazionista), che come suggeriscono anche gli approcci orizzontali delle scienze cognitive contemporanee rifugga l’«individualismo metodologico» che rispetto al tema in questione si può tradurre nella presa in considerazione univoca dell’attività dei geni, del cervello e dell’organismo, in maniera separata dal loro ambiente di sviluppo, che è in realtà una sequenza indefinita di ambienti a varie scale.

Tale nota metodologica non chiarisce naturalmente – né vuole lontanamente provare a chiarire – la questione di come di fatto si sviluppi la capacità di auto-esperirsi. Anzi, ci permette di rilevare un elemento di complessità ulteriore, ossia che la stessa spiegazione

di come si sviluppa tale capacità dovrebbe prendere in considerazione il problema di come bisogna intendere la relazione, tutt’altro che chiara e condivisa, tra soggettività, identità personale, coscienza e autocoscienza.

Ad esempio, si può ritenere che l’autocoscienza riflessiva necessiti sì di una sua ontogenesi che segue una serie di fasi e dipende dallo sviluppo morfologico del sistema nervoso – il quale a sua volta dipende dalla storia evolutiva umana – che dà luogo a un sé conscio ma non autocosciente, il proto-sé (che consiste in delle mappe subcorticali dello stato dell’organismo rispetto a varie dimensioni) il quale va a formare la base dell’autocoscienza nucleare (che consiste nell’autorappresentazione non-linguistica delle modifiche del delle mappe del proto-sé e dunque dello stato stesso del corpo a seguito del contatto con oggetti esterni) che a sua volta raggiunge i livelli di rappresentazione più sofisticati nella autocoscienza estesa (per la quale la memoria è necessaria e il linguaggio permette di conquistare le forme narrative umane). In questo caso, delle forme di soggettività subcorticali (delle continue rappresentazioni del proprio stato in relazione ai cambiamenti che avvengono dal contatto del corpo con l’ambiente) sono al centro della vita mentale del soggetto, lo costituiscono, in quanto fanno da base al suo sé o io nucleare appunto (cfr. Damasio 2012). Oppure, in una prospettiva eliminativista, si più ritenere che lo sviluppo del sistema nervoso e l’acquisizione delle capacità linguistiche permettono all’individuo di inventare narrativamente il proprio sé (cfr. Dennett 2005).

L’esperienza soggettiva, nelle sue forme più semplici non riflessive, potrebbe essere intesa come qualcosa che, tanto evolutivamente quanto nello sviluppo, precede l’autocoscienza. Dunque l’autocoscienza sarebbe una modalità specifica di esperienza soggettiva, ma non l’unica possibile. Godfrey-Smith (2016a, 2018), ad esempio, ottemperando ai precetti della metodologia naturalizzata sta esplorando tale tesi tramite lo studio dell’esperienza soggettiva negli altri animali (tra i quali spiccano i polpi da lui incontrati durante le immersioni nei fondali oceanici e di cui parla in Altre menti). Sulla falsariga del celebre articolo What it is like to be a bat? di Thomas Nagel (1974), che denunciava l’irriducibilità dell’esperienza soggettiva in termini oggettivi domandando provocatoriamente “cosa si prova a essere un pipistrello?”, Godfrey-Smith (2018, p. 97) si chiede: «che cosa si prova a essere un polpo? E una medusa? Ma poi: si prova davvero qualcosa? Quali furono i primi animali che provarono qualcosa a essere ciò che erano?». Secondo Godfrey-Smith (2018, p. 99) si può provare qualcosa senza esserne consapevoli,

ossia senza autocoscienza: «se ad essere un calamaro o un polpo si prova qualcosa, allora vuol dire che questi sono essere senzienti». In altre parole, «there might be some sort of very diffuse feeling present in the activity of a system, which is distinct from consciousness» (Godfrey-Smith 2016a, p. 493). Il dolore è un buon esempio, ci si domanda infatti se un polpo avverta qualcosa di negativo se ferito e non se ne sia consapevole. Lo stesso può dirsi per altre emozioni primordiali, come ad esempio la fame o la sete, che segnano i bisogni fisiologici legati alla sopravvivenza e pongono il soggetto in un certo stato soggettivo o, per usare un termine classico, incarnano dei qualia. A prova di ciò, il filosofo fa riferimento a cosa significhino per noi le emozioni primordiali: un dolore improvviso, la mancanza d’aria o la sete, compaiono come delle «intrusioni» nei processi mentali più complessi e dominano su ogni altro esperire (Godfrey-Smith, 2018, p. 116). Godfrey-Smith (2016a, 2016b, 2018) legge, inoltre, la filogenesi dell’esperienza soggettiva come legata ai processi di controllo senso-motorio. Infatti, una volta che nel corso della storia evolutiva gli organismi multicellulari hanno raggiunto, grazie al sistema nervoso che li tiene insieme (pull together), una certa unità di azione e di mobilità, si è accentuato il problema delle riafferenze, termine con cui si indicano gli effetti delle proprie azioni sui propri sensi99. In tali organismi multicellulari, il non riuscire a distinguere tra i cambiamenti causati da fattori esterni – potenziali pericoli – e quelli generati dalla propria azione potrebbe aver spinto in direzione della selezione di meccanismi in grado di compensare le riafferenze, ovvero capaci di ‘avvertire’ l’agente di ciò che egli stesso sta facendo mentre reagisce a uno stimolo. Godfrey-Smith ritiene che qualche forma prototipica di esperienza soggettiva possa essere legata proprio a tali meccanismi di sorveglianza (o meglio auto-sorveglianza) dei feedback tra percezione e azione. È bene precisare che quella che l’autore costruisce è una storia di cambiamento graduale, di trasformazione: nel momento in cui le possibilità di sensibilità, azione e memoria diventarono più complesse nell’evoluzione animale e nell’evoluzione del sistema cerebrale, lo diventò anche la sensazione dell’esperienza soggettiva. In un’ottica ecologica, di co-evoluzioni tra organismi e ambienti e in cui l’organismo non è considerato solo oggetto di evoluzione, è interessante rilevare come la capacità di

99 Nel suo saggio, Individuality, subjectivity, and minimal cognition, Godfrey-Smith (2016b) avanza

anche una tesi sull’individualità animale. Infatti egli ritiene che, nel corso dell’evoluzione, l’emergere di un sistema nervoso unificato abbia dato agli animali una unità di agency da cui si può far dipendere (nonostante le simbiosi) non l’individualità biologica in generale, bensì quella specificatamente animale.

esperirsi può aver modificato le modalità di agire sul proprio ambiente o sulla propria nicchia (magari promuovendo alcuni tipo di costruzioni di nicchie). Ciò ha ricorsivamente un ruolo sull’evoluzione dell’organismo.

D’altra parte, secondo Jervis (1984, 2011), tale soggettività non è quella a cui facciamo riferimento come la nostra interiorità o il nostro self. Seguendo William James (1842- 1910), egli ritiene che la nostra esperienza di «esserci» non possa essere separata da un «esserci secondo un certo modo, cioè come immagine corporea e affettiva di sé, in un rappresentare a se stessi la propria persona in quanto persona di un certo tipo» (Jervis 1984, p. 50). Pertanto, non c’è un’esperienza di sé che non sia anche una forma di descrizione di sé. Secondo questa prospettiva, la soggettività è tutt’altro che già data e garantita (né in generale, né dal solo sviluppo del nostro sistema nervoso potremmo aggiungere), bensì, al contrario, è il risultato (precario) di un complesso processo di oggettivazione della propria esperienza. Infatti se animali e infanti hanno qualche forma di soggettività (magari nel senso di Godfrey-Smith si potrebbe osare), ne sono così immersi da non ‘averla’ come propria (Jervis 1984, pp. 159-160). La conquista dell’autocoscienza matura, che coincide con l’appropriazione consapevole del proprio spazio soggettivo dunque con l’auto-consapevolezza, è vista come un itinerario che muove attraverso alcune tappe in cui sono incardinate forme di identità differenti: prima la corporea, poi la sociale e infine la psicologica – in termini jamesiani: material self,

social self, spiritual self100. Marraffa, insieme ad alcuni colleghi (cfr. Di Francesco,

Marraffa, Paternoster 2014; Marraffa, Di Francesco, Paternoster 2016; Guerini, Marraffa 2017; Marraffa, Meini 2016; Marraffa, Paternoster 2016), partendo dal nucleo tematico tracciato da Jervis e attraverso un dialogo ricchissimo con varie discipline orientate empiricamente, quali le scienze cognitive, le scienze della mente, la psicologia dinamica e dello sviluppo, si sta dedicando ad esplorare ulteriormente la tesi che vede la soggettività (e l’autocoscienza) come un processo di costruzione di un’identità narrativa. In maniera estremamente sintetica, allontanandosi dalle soluzioni culturaliste della sociologia novecentesca eppure senza sottodimensionare la centralità delle relazioni interpersonali, l’autocoscienza viene rappresentata come «una complessa costruzione neurocognitiva e psicosociale, che si sviluppa dall’elaborazione automatica e

preriflessiva delle rappresentazioni di oggetti, attraverso la consapevolezza e quindi l’autoconsapevolezza del corpo, fino all’autoconsapevolezza introspettiva e infine l’identità narrativa» (Marraffa, Meini 2016, p. 9). O ancora: «psychological self description hinges on physical self description, evolving from it through an interplay of mentalizing capacities, autobiographical memory, and sociocommunicative skills modulated by cultural variable» (Marraffa, Paternoster 2016, p. 116). Marraffa, Di Francesco, Alfredo Paternoster, Rossella Guerini e Cristina Meini difendono inoltre una tesi «robusta» dell’identità, che ha anch’essa un precedente nel lavoro di Jervis (cfr. 2011). Secondo tale tesi, il processo di costruzione e ricostruzione di identità solide e accettate è infatti necessario all’equilibrio psichico del soggetto, il quale avverte un «bisogno primario di consistere soggettivamente» che non essendo ripagato da un ‘io’ ontologicamente sussistente lo costringe a ‘fabbricarselo’ (Marraffa 2016, p. 13). Da ciò emerge la natura difensiva del processo di costruzione dell’identità e la necessità di tutelarne la validità tramite rinegoziazioni continue, come posto inoltre in evidenza dagli studi sulle varie forme di psicopatologie o psicosi, ma anche condizione meno definite di fragilità del soggetto nella gestione della realtà, legate a una costruzione dell’‘io’ incompleta o incoerente (cfr. Laing 1969; Marraffa, Meini 2016, cap. 5, a cui si rimanda per la bibliografia, prendono in considerazione nello specifico il disturbo di personalità

borderline).

La loro prospettiva appare molto interessante alla luce dei sistemi di sviluppo, quantomeno rispetto a un livello di descrizione piuttosto generale, in quanto procede cercando di ripercorrere le tappe dello sviluppo e includendo un insieme eterogeneo di elementi (organici, relazionali, linguistici, sociali, culturali) che giocano vari ruoli in livelli differenti del processo. Tuttavia, se si scende nel dettaglio dell’analisi degli stessi stadi del processo di costruzione del sé, appare subito evidente che la loro ipotesi fa appello a un modello di mente che conserva molti dei tratti apertamente criticati tanto da una psicologia evoluzionista dello sviluppo (cfr. 2.2.) quanto dalle spinte orizzontali delle scienze cognitive (cfr. 2.3.). Per fare solo un esempio, un passaggio importante è quello in cui l’infante sfrutta la sua capacità di comprendere la mente altrui (mindreading) per giungere a leggere la propria (introspection) (cfr. Marraffa, Meini 2016, pp. 96-100; Marraffa, Paternoster 2016, pp. 117-118). A partire dall’ipotesi di Carruthers (2009) che vede la mentalizzazione alla terza persona come evolutivamente primaria rispetto a quella

alla prima persona, Marraffa e colleghi (con moltissime integrazioni e correzioni dell’ipotesi stessa derivanti dagli studi sull’attaccamento) ipotizzano che ciò sia valido anche nello sviluppo. Ebbene, la descrizione della nostra capacità di mentalizzazione ripresa da Carruthers stesso, è offerta in termini innatisti e cognitivisti: «l’individuo è preorganizzato al rapporto interpersonale fin dalla nascita, e le mentalizzazione è parte integrante di tale preorganizzazione», «la capacità di ‘leggere’ le menti altrui, nella sua forma primaria, non è una conquista ontogenetica bensì un adattamento evoluzionistico socio-cognitivo innato» (Maraffa, Meini 2016, p. 98). Quest’ultima dipende da un «sistema di mentalizzazione», anche definito «meccanismo di mentalizzazione» (p. 99), che è rappresentato come un sistema computazionale che riceve input dai sistemi sensoriali e produce come output giudizi e decisioni (Marraffa, Paternoster 2016, p. 117). Da ciò si evince che l’idea stessa di elementi «biologici», «neurobiologici» o «psicobiologici» che essi avanzano sia di gran lunga meno storicizzata e più deterministica di quello che è prospettabile guardando alla Sintesi Estesa e ai sistemi di sviluppo. In altre parole, sembrano reiterare l’antinomia tra fattori interni (che si considerano evolutivamente dati e non perturbabili dallo sviluppo) da cui dipende la «fissità» e fattori esterni (associati all’ambiente e dunque direttamente al processo di ontogenesi) da cui dipende la «malleabilità» (Oyama 2004, pp. 103-106).

Ciò rilevato, a parte la nota metodologica che si è tratteggiata appena prima e che pone delle specificazioni rispetto al modo in cui si dovrebbe considerare lo ‘sviluppo dell’esperienza di sé’, in questa sede non si vuole avanzare una posizione a riguardo. Infatti, il suo chiamare in causa la relazione tra soggettività, coscienza e autocoscienza e il modo in cui tale relazione risulta realmente in atto nel processo di sviluppo la rende un tema complessissimo che non è affrontabile con gli strumenti che si sono costruiti nel precedente capitolo. Piuttosto, tramite questo breve excursus si voleva porre in rilievo come il fatto che la soggettività intesa nel senso di “esperienza soggettiva di sé a partire dalla prima persona” si debba costruire nello sviluppo dell’individuo abbia già un suo livello di esplorazione in letteratura. Queste linee di ricerca potrebbero ottenere dei validi suggerimenti da parte dell’approccio dei sistemi di sviluppo.

Tuttavia, riteniamo che l’ipotesi di scaffolded mind così come la si è delineata abbia qualcosa da dire soprattutto rispetto a un’altra concezione di soggettività, definibile già dalla terza persona che, pur ancorata nella dimensione empirica, risulta più ampia rispetto

alla nostra capacità di esperirci in prima persona, in quanto include più in generale le nostre vite mentali, le nostre capacità psico-affettivo-cognitive i nostri tratti personali e morali, e tocca la nostra idea di cosa vuol dire essere dei soggetti particolari rispetto ad altri soggetti.