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Soggettività o sé: una chiarificazione linguistica

3. D ALLA MENTE ALLA SOGGETTIVITÀ

3.1.3. Soggettività o sé: una chiarificazione linguistica

Prima di procedere è necessaria una chiarificazione linguistica. Si sono finora utilizzati in maniera intercambiabile i termini sé, self, io, soggettività, identità personale, persona. La parola sé può essere impiegata con significati molto differenti che possono segnare sia modelli o concezioni rivali (sé come una sostanza, un sistema, un processo, una funzione, una finzione) sia aspetti eterogenei, che non sono tutti necessariamente in tensione tra loro in quanto possono dipendere da livelli di spiegazione diversi (sé materiale, corporeo, incorporato, esperienziale, minimale, neuronale, cognitivo, nucleare, fenomenologico, enattivo, narrativo, affettivo, sociale, etc.; per una panoramica cfr. Gallagher (2011)). Si è scelto dunque di proposito di non lasciare mai isolato il vocabolo «sé» perché più del suo corrispettivo inglese self, sarebbe stato facilmente etichettabile in senso sostantivo (sé come sostanza) e lo si è sempre accompagnato con i sopraccitati termini che formano una famiglia semantica nel quale, tanto in filosofia che nel linguaggio comune, si trova spesso collocato. Nel titolo stesso si è prediletto il termine «soggettività» perché in italiano rende in maniera più chiara ciò a cui si fa riferimento quando si afferma di voler esaminare quali siano le conseguenze della visione di organismo e di mente proposte per la nostra idea di sé.

Innanzitutto, in aderenza alla metodologia naturalizzata che costituisce la cornice e lo strumento del lavoro, parlando del sé non intendiamo in alcun modo una sostanza metafisica. Non si sta dunque discorrendo del Sé, dell’Io, dell’anima, dello spirito, della

psiche o di qualsivoglia essenza immateriale. Queste entità sovrannaturali non possono entrare all’interno di una ricerca naturalizzata. Dunque il sé non deve essere inteso in senso oggettivo, come un quid sostantivo, dato, circoscrivibile e identificabile in maniera stabile nel tempo. Il sé inteso nel senso di sostanza immateriale non è conoscibile, perché non è qualcosa di cui possiamo fare esperienza, dunque non è naturalizzabile. In altre parole, non supera la prova di essere parte del “familiare mondo naturale” (cfr. 1.1.).

D’altra parte, una ben nota confutazione del sé, dell’identità personale o della persona intese nel senso di unità sostanziale, di qualsivoglia tipo, è presente nella sezione VI, parte IV del I libro del Trattato sulla natura umana di Hume (1987). Infatti, secondo i principi dell’associazionismo che guidano la sua ricerca empirica, ogni idea è originata da un’impressione corrispondente, dunque per poter sostenere che il sé o l’io sia qualcosa di identico e semplice si deve essere in grado di risalire a un’impressione di unità che faccia da presupposto a tale idea del sé come identico e semplice. Tuttavia, sostiene Hume, pur sforzandoci, non riusciamo mai a cogliere un’impressione siffatta, «costante e invariabile» e se qualcuno vi riesce vorrà dire che è «essenzialmente differente» da noi umani – aggiunge ironicamente Hume (1987, p. 264)95. Pertanto, a dispetto di ciò che sostiene qualche metafisico, non abbiamo in verità alcuna idea reale del sé o dell’io come unità, né dunque abbiamo alcun elemento per affermare che esista un qualcosa che si mantiene sempre uguale a se stesso – il sé o l’io – e che fa da fondamento a tutte le nostre percezioni, siano impressioni o idee. Da ciò ne deriva che: «noi non siamo altro che fasci

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Riportiamo qui il passo in maniera più diffusa: «Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io [self]: che noi sentiamo la sua esistenza e la continuità della sua esistenza; e che siamo certi con un’evidenza che super ogni dimostrazione, della sua perfetta identità e semplicità. […] Disgraziatamente tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da essi invocata: non abbiamo nessuna idea dell’io [self], nel modo in cui viene qui spiegato. Da quale impressione potrebbe derivare tale idea? É impossibile rispondere a questa domanda senza cadere in contraddizioni e assurdità manifeste; e tuttavia è una domanda alla quale necessariamente va data una risposta se pretendiamo far passare l’idea dell’io [self] come chiara e intellegibile. Ci vuole sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io [self], o la persona [person], non è una impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io [self], quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io [self] esista in questo modo. Invece non c’è alcuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. […]. Non riesco mai a sorprendere me stesso [myself] senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione» (Hume 1987, pp. 263-264). Si sono riportati i termini in inglese che si trovano nell’edizione curata da Lewis Amherst Selby-Bigge: Hume (1978).

o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento» (Hume 1987, p. 264).

Lorenzo Greco (2015, pp. 702-704) nota come in questa sezione, che cade sotto il nome di «on personal identity», alla varietà di sinonimi «self», «myself», «personal identity», «person» utilizzati da Hume per riferirsi all’idea di io o sé come qualcosa di identico e continuo nel tempo, si aggiungono anche i termini «soul» e «mind». Proprio la natura della mente sembra essere ciò verso cui è principalmente diretta la sua attenzione (Greco 2015, p. 703). Infatti, subito dopo aver affermato che siamo un ‘fascio di percezioni’, nel medesimo capoverso scrive: «[l]a mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano […]. Non c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né

identità in tempo differenti». E il paragone del teatro non deve ingannare: «a costituire la

mente non c’è altro che le percezioni successive» (Hume 1987, pp. 264-265). Come commentano Raymond Martin e John Barresi (2006, p. 153): «in this theatre none of the actors – the “perceptions [that] successively make their appearance” – is the traditional self». Inoltre, poco prima della sezione dell’identità personale, nella sezione II della parte IV del libro I, Hume, sempre a proposito della mente scrive: «ciò che chiamiamo mente non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente dotate di una perfetta semplicità e identità». Dal momento che le percezioni sono distinte l’una dall’altra e possono essere considerate separatamente ne deriva che: «non c’è alcuna assurdità a separare una percezione particolare dalla mente, a spezzare cioè tutte le sue relazioni con la massa collegata di percezioni che costituisce un essere pensante» (Hume 1987, p. 220). Ciò mostra in maniera convincente, sostiene Greco, come l’operazione di Hume si possa leggere come un esempio di quel programma che Martin e Barresi (2006, cap. 8) definiscono della «naturalizzazione dell’anima»: «that is, of moving from a substantial notion of the self to a relational one, whereby the self is to be conceived not as simple, immaterial soul, but as an empirically observable mind, whose parts and mechanisms can be fully ascertained by our understanding» (Greco 2015, p. 703). In altre parole, la sua conclusione sull’inconsistenza metafisica del sé o dell’identità personale si basa sulla sua analisi della mente così come si presenta a un’indagine empirica, proprio perché la sua metodologia naturalizzata gli fa concepire il problema dell’identità personale o del sé come risolvibile

guardando all’«empirically observable mind». Visto che la mente appare come nient’altro che un fascio di percezioni che si susseguono senza che sia possibile rivenire un qualche tipo di sostrato che permette di identificare una persona come la stessa a distanza di tempo, non è possibile affermare l’esistenza di nessun io o sé.

A prescindere dal risultato dell’analisi – il sé (l’io) non è un quid sostantivo di qualsivoglia genere, dunque non vi è alcun sé (io) che unisca le percezioni – e dal suo posto all’interno del bilancio generale dell’Opera di Hume96, quello che appare più interessante alla luce della presente indagine, è il procedere stesso del filosofo. Il suo rivolgersi alla mente, così come appare empiricamente, per poter dire qualcosa sul «sé». La domanda che noi ci poniamo di fronte a una descrizione empirica della mente non è tuttavia quella di Hume nella sezione citata: non siamo interessati a cercare quali siano le condizioni necessarie e sufficienti affinché sia possibile identificare una persona nel corso del tempo e anzi diamo per acquisito il fatto che si dimostri empiricamente problematico e alquanto fuorviante parlare di identità personale in questi termini97. Piuttosto, ci chiediamo se tale immagine empirica della mente – che è stata inoltre arricchita del dialogo sempre più stretto tra filosofia e scienze biologiche e psicologiche in continuo e costante accrescimento (tanto nelle metodologie quanto nelle conoscenze) – abbia qualcosa da dire rispetto a una descrizione empirica delle nostre soggettività; o se quantomeno influenzi la nostra stessa concezione della soggettività, della persona o del sé, quella concezione secolarizzata del self che è, al tempo stesso, una conquista e un prodotto della ‘naturalizzazione dell’anima’ cui fanno riferimento Martin, Barresi (2006) e Greco (2015).

96 A tal riguardo, il saggio di Greco (2015) è volto principalmente a sostenere una tesi positiva sul self

humeano. Infatti, dopo aver ripercorso le note argomentazioni empiriste del primo libro con cui Hume rigetta l’idea dell’identità personale – dell’io o del sé – come unità sincronica e diacronica, Greco prova a mostrare come nel secondo e terzo libro, il filosofo, dovendo affrontare le passioni e la morale, recuperi una concezione narrativa del sé. Si rimanda al saggio stesso per ulteriore bibliografia a tal proposito.

97 La ricerca dei criteri o delle condizioni necessarie e sufficienti per l’identità personale è un tema

classico in filosofia il cui avvio nella tradizione moderna è fatto risalire al Saggio sull’intelligenza umana (1690) di John Locke (1632-1704). Un buon punto di partenza che offre una recente ricognizione bibliografica sulle differenti questioni legate al concetto di identità personale (cosa mi permettere di persistere nel corso del tempo? Chi sono? Cosa sono? Quanti sono in un dato momento e quanti sono nello scorrere del tempo? Cosa significa essere una persona come opposto a una non persona?) e su differenti posizioni avanzate a proposito è Olson (2019). Inoltre, osservazioni critiche sulla solidità del concetto più generale di «identità» (non solo personale, ma anche sociale, di genere e di specie) che colgono aspetti biologici, psicologici, politici, antropologici e teoretici, sono raccolte in Pollo (2019). D’altra parte, il paragrafo precedente (cfr. § 3.1.2.), tratteggiando la problematicità della nozione di «individualità biologica» come unità e singolarità, avrebbe già voluto offrire qualche spunto contro l’idea di poter ancorare in maniera aporetica l’«identità» a una dimensione organica unitaria e autonoma.

Tornado alla questione della chiarificazione linguistica con cui si è aperto il paragrafo, diamo per acquisito che con parola «sé» o con la locuzione «il sé» traduciamo il termine «self» inteso esattamente in tale accezione secolarizzata. D’altra parte, ciò è giustificato dal fatto che il termine self sembra aver mantenuto, soprattutto nel linguaggio ordinario, tale valore empirico non sostantivo.

A tal proposito, Giovanni Jervis (2011, pp. 35-85), proprio criticando aspramente la traduzione alla lettera di «self» con «il sé» evidenzia come, se considerati in relazione alle rispettive lingue, i significati dei due termini non sono equipollenti e il termine inglese è meno equivocabile di quello italiano. Secondo Jervis ciò dipende dal fatto che in italiano l’utilizzo di «il sé» è entrato a far parte della lingua tramite un’impropria sostantivazione del pronome riflessivo «sé» data dall’aggiunta dell’articolo determinativo davanti. La locuzione è stata infatti introdotta nella letteratura specialistica di taglio psicologico e psicoanalitico all’inizio degli anni Settanta come traduzione a calco di «self» o «the self». Tuttavia, tale operazione ha restituito un concetto tecnico, inesatto e fuorviante: «la presenza di quell’articolo – definisce ipso facto una entificazione. “Il sé” è allora subito una cosa, un oggetto» (p. 47). Al contrario, la sostanzialità non pertiene al concetto inglese:

the self, in inglese, non è un concetto strutturale, o essenziale, od oggettivo, bensì è

concetto esperienziale. In altre parole l’uso corrente di self o the self nel linguaggio quotidiano anglosassone ne ribadisce un significato che è banalizzato, pragmatico, laico, empiricamente introspettivo, quasi del tutto scevro da implicazioni sostanzialistiche o spiritualistiche. In my inner self è espressione figurata colloquiale che non si riferisce a una realtà mentale oggettivata, o a un tabernacolo interiore, ma a una domestica soggettività esperienziale (Jervis 2011, p. 47).

Seppure l’operazione di utilizzare «sé» proprio come traduzione di «self» incontrerebbe il biasimo di Jervis, il fatto di rendere esplicito che con sé o soggettività si fa riferimento a tale significato, «laico», «pragmatico», «scevro da implicazioni sostanzialistiche» che egli stesso conferma implicito già nell’utilizzo del termine nel linguaggio anglosassone comune e non già a un «sé» reificato, robusto, strutturale (e dunque di essere consapevoli del suo monito), dovrebbe venirci in aiuto.

D’altra parte, la produzione in inglese rappresenta il nostro interlocutore primario. In tutta la letteratura citata all’inizio di questo capitolo, le autrici e gli autori si domandano

quali siano le conseguenze del modello di mente estesa per il self – a volte alternato con

identity –, se è possibile parlare di un extended self o di distributed selves (Clark,

Chalmers 2010; Heersmink 2017). Anche Piredda (2017, p. 127) facendo riferimento al medesimo dibattito sulla mente estesa o distribuita scrive: «il tema della mente estesa e le sue conseguenze sul concetto di sé», «prospettiva estesa sul sé», «mente estesa e sé esteso»98. Pertanto, a prescindere dalle preferenze linguistiche, il nostro obiettivo è tratteggiare in quale modo le concezioni di organismo e mente (o meglio di sviluppo e funzionamento delle capacità psico-affettivo-cognitive) che sono delineate nel secondo capitolo si riflettono sulla nozione di self. In sintesi, è al concetto laico di self e non solo al termine che si fa riferimento ogni volta che, in questa sede, si parla di sé o soggettività in senso lato.