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Empirismo e cultura democratica

1. I L NATURALISMO : UNA QUESTIONE METODOLOGICA

1.2. Perché il naturalismo metodologico in metaetica

1.2.3. Empirismo e cultura democratica

Si è detto che il ricorso alle fonti empiriche e dunque alle sole conoscenze a posteriori dovrebbe essere considerato non soltanto metodologicamente migliore per le ragioni che si sono tratteggiate, ma per di più auspicabile all’interno di società, come la nostra, che si sono storicamente costituite su ideali liberal-democratici e sui quali tutt’oggi si fondano. Infatti, in tal caso, l’idea che le posizioni morali dovrebbero cercare di soddisfare massimamente la convergenza intersoggettiva, non deriva soltanto dalla pretesa ‘intrinseca’ di oggettività del linguaggio morale, bensì anche dai principi ideologici che fanno da fondamento all’assetto istituzionale delle società stesse. Al fine di analizzare l’importanza delle conoscenze scientifiche per la cultura democratica, vogliamo far riferimento al pensiero di Giulio Preti (1911-1972) così come articolato in Praxis ed

Empirismo (1957). Innanzitutto, il filosofo vede la pratica scientifica in continuità con le

altre pratiche conoscitive umane e ritiene che queste, insieme a «un diaframma di forme di attività umane» tra cui anche la politica e l’arte, costituiscano in toto quello che definiamo «cultura» la quale deve essere intesa come lo spazio che c’è tra la filosofia e il mondo (Preti, 1957, p. 20). Il leitmotiv di Praxis ed Emprismo e il leitmotiv della vita filosofica dell’autore – come Preti stesso sottolinea – è quello di proporre una cultura che abbia un carattere democratico, ovvero che sia «‘pubblica’, aperta a tutti, non iniziatica o semi-iniziatica» (p. 25). Ciò è indispensabile, secondo Preti, per non snaturare la finalità stessa per cui hanno preso storicamente forma le società democratiche. Queste si fondano infatti su un «contratto sociale» pattuito allo scopo di garantire, al tempo stesso, convivenza pacifica e piena sovranità individuale:

contemporaneo che stanno contribuendo a indebolire la portata della supposta dicotomia tra fatti e valori si può far riferimento a Marchetti, Marchetti (2016).

In un mondo democratico una cultura iniziatica non costituisce valore alcuno per i non- iniziati, appunto perché un valore deve venir stipulato e non può venire imposto né accettato passivamente (la sovranità è inalienabile). […] Una verità, un bene o una bellezza che siano tali per il solo iniziato, che non possano venir comunicati e resi accessibili a tutti, restano un fatto personale, privato, di colui che ha queste intuizioni privilegiate: non possono costituire un valore pubblico e riconosciuto, un principio di cultura sociale o di insegnamento pubblico. Altrimenti, tra l’altro, verrebbero distrutte la libertà e l’uguaglianza, alcuni uomini sarebbero essi soli veramente liberi e uguali tra loro, gli altri sarebbero schiavi, diseguali ai liberi e tra loro uguali soltanto nella servitù (Preti 1957, pp. 25-26).

Evidenziando che ad essere democratica deve essere in primo luogo la «forma» o la «modalità» con cui la cultura si edifica e non semplicemente il suo contenuto – che potrebbe far pensare alla cultura democratica come sinonima di dilettantesca o popolare o divulgativa –, Preti prosegue:

«Cultura democratica» significa «cultura accessibile a tutti». Naturalmente non nel senso che chiunque, qualunque sia la sua preparazione, possa immediatamente capire tutto e immediatamente formarsi su tutto una propria opinione valida. Assolutamente no: questa, ripetiamolo, oggi sarebbe assenza di cultura o anticultura. […] L’essenziale è che, sia pure attraverso i debiti gradi di apprendimento (di apprendimento, non di iniziazione!), tutti possano, senza aver bisogno di rivelazioni privilegiate, arrivare a sapere tutto quello che altri sanno. L’essenziale è che non ci siano «autorità», che la cultura si fondi su qualcosa che tutti possono verificare in comune, «vedere» insieme. […] Il problema della cultura democratica è la fondazione di un sapere che sia universale e che nello stesso tempo si fondi sul rispetto del diritto di critica, obbiezione e collaborazione di ognuno. Si tratta di elaborare una nozione di verità che sia verità per tutti e al contempo verità per me, per me individuo in carne ed ossa così e così fatto (Preti 1957, p. 27).

I metodi della prassi scientifica, frutto di una serie di processi storici che hanno selezionato le migliori forme di argomentazione disponibili, pur rimanendo sempre aperti a revisioni incarnano tale modo di procedere non dogmatico, bensì frutto di collaborazione e pubblicamente soggetto a critiche e obiezioni. I procedimenti dimostrativi utilizzati dalla scienza, che Preti (1957, p. 28) definisce di «persuasione razionale», non necessitano speciali facoltà, ma sono comprensibili da tutti gli umani dotati di capacità cognitive standard, tanto che egli aggiunge: «ci sono procedimenti di

prova di fronte ai quali nessun uomo può rifiutare di piegare le proprie opinioni, riconoscendole, se contrarie, erronee». Ciò spiega inoltre la tendenza, storicamente verificabile, delle correnti di pensiero democratico, quali l’illuminismo, il positivismo e il marxismo, a preferire lo sviluppo del sapere scientifico piuttosto che del pensiero metafisico15. Tali considerazioni lo portano ad auspicare una filosofia che sia scientifica. Tuttavia, Preti precisa che ciò non equivale a credere che sia necessario ridurre tutto il sapere – e tutta la filosofia – alla scienza o a una disciplina scientifica particolare, sia essa la matematica o la logica o la fisica. Bensì fa riferimento a un «atteggiamento», che in termini non suoi si potrebbe definire naturalizzato, con cui guardare e interrogare le cose del mondo:

Non si tratta di abbandonare del tutto molti grandi problemi per perdersi nelle microscopie della ricerca particolare, o nel bizantismo dell’analisi del linguaggio […]. Non si tratta di questo – ché ciò, in ultima analisi rischia di degenerare in mero tecnicismo, divenendo così anticultura. Si tratta di molto meno – o molto più: della costruzione di una cultura, e, per cominciare, di una filosofia che affronti i suoi problemi (li delimiti, li precisi, li tratti) con i due criteri in uso nelle scienze: della possibile verificazione empirica e del possibile controllo linguistico («logico»). […] Si tratta, come giustamente ha osservato Dewey, non di ridurre tutte le scienze e tutte le forme di cultura ad un'unica scienza […], bensì di conservare nei problemi che la vita e la storia ci vengono proponendo un atteggiamento «scientifico» (Preti 1957, p. 31).

1.3. Il ruolo delle scienze in generale e dell’evoluzionismo in particolare