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Capitolo III: «Historiam pictura refert, quae tradita libris». Storie di

3.1 De Bruyne, l’ottimismo paleocristiano e la «legge della non violenza». Pregiudizi

Per volere del destino, o della storia, i martiri seguitano ancor oggi ad essere indissolubilmente legati a Cristo e non solo perché tuttora venerati, ma anche, per quel che adesso interessa la presente ricerca, nelle vicende prettamente „profane‟ che riguardano le dispute intavolate dagli storici dell‟arte sulla oramai decennale questio sulle origini della loro iconografia. Dove e quando nascono le più antiche immagini delle passiones martyrum? Cavalcando l‟onda del fortunato topos storiografico attribuito al „misterioso‟ caso della genesi visiva del Crocefisso nel tardo antico, ai martiri è spettata la stessa identica sorte: se non poteva essere concessa l‟impietosa visione del Redentore inchiodato alla croce come un criminale qualunque, figuriamoci quella dei suoi milites che, con i loro corpi crudelmente seviziati, avrebbero qua e là schizzato di sangue le pareti dei santuari macchiandole d‟orrore. Quindi, secondo quanto imposto dall‟ intransigente „legge della non violenza‟, sarebbe stato necessario censurarne la visione e ciò sarebbe accaduto dai primordi del cristianesimo e almeno sino al IV secolo.

L‟idea, come già ricordato nel secondo capitolo del presente lavoro1, prende le mosse da alcune affermazioni che il De Bruyne addusse nella sua fondamentale pubblicazione “Le

«lois» de l‟art paléochrétien comme instrument herrmeneutique” apparsa nel 1959. Lo studioso

belga, con un metodo di indagine iconografica debitore tanto al pensiero estetico quanto

159 all‟esegesi sul simbolismo religioso cristiano, riconduceva l‟atmosfera della primitiva arte cristiana ad una profusa sensazione di letizia e serenità, ove, si potrebbe dire, il profumo dei giardini paradisiaci, in cui il Buon Pastore portava a pascolare il suo gregge, era già speranza di salvezza escatologica. Secondo De Bruyne, infatti, «il n‟est personne […] dès qu‟on l‟éclaire de

l‟optimisme et de l‟allegresse qui constituent une des tendences les plus fondamentales de l‟art des catacombes», ottimismo la cui presenza motiverebbe «l‟absence systématique, dans l‟art chrétien, du détail triste ou préoccupant»2.

Quindi un‟interpretazione in chiave psicologica o, meglio, „evocativo-emozionale‟ che, nonostante la sua generale validità in seno alla cultura figurativa paleocristiana, il cui anelito prevalentemente soteriologico è stato ampiamente riconosciuto, a mio avviso appare dominata più da „sensazioni‟ di tipo soggettivo evocate, ad un fruitore della contemporaneità, più dalla tenue tavolozza cromatica di tali pitture che da altre possibili motivazioni storiche3.

Lo sforzo di comprendere appieno l‟esprit qui les a inspirés, come il buon Delehaye pensava in merito agli studi agiografici, è un atto di umiltà che dovrebbe appartenere a qualunque storico che abbia in mente di intraprendere un cammino di conoscenza verso una cultura a lui lontana sia nel tempo che nello spazio, e tale atto di umiltà è senza dubbio appartenuto ai propositi di De Bruyne: basti leggere le pagine del contributo citato per rendersene conto.

Ma non si potrà obiettare che il motivare la quasi totale assenza di immagini cruente nell‟arte paleocristiana per mezzo di un approccio di tipo introspettivo, teso a mettere in luce solo l‟afflato dell‟immagine e non il suo fenomeno compiuto, non può essere bastevole a chiarire gli interrogativi che ancora si interpongono tra noi e la genesi di quelle iconografie, interrogativi che necessitano semmai di un approccio più schiettamente filologico. E poi,

2 Questa, in sintesi, la visione che DE BRUYNE 1959, pp. 180--186, (per entrambe le citazioni, p. 183), ebbe dell‟arte paleocristiana.

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quali certezze possiamo oggi avere sullo stato emozionale vissuto dai devoti cristiani all‟interno delle catacombe? A sentir parlare s. Gerolamo, altro che ottimismo! Le sensazioni che egli percepiva a seguito delle visite in catacomba, ove di tanto in tanto dall‟alto flebili luci rischiaravano, come la luna che di notte si svela tra le nuvole, il buio tenebroso delle gallerie sotterranee, sembrerebbero tutt‟altro che „paradisiache‟: lui e i suoi compagni erano decisamente «atterriti dall‟orrore e dal silenzio»4. E seppur questa rara testimonianza ha tutt‟ora la forza di rievocare i sentimenti vissuti da un uomo che sul finire del IV secolo andava in visita devozionale ai coemeteria, essa è stata di recente, e ancora in nome dell‟ottimismo, intesa come una «drammatizzazione tipica dei ricordi di infanzia»5.

Se è vero che per De Bruyne l‟arte paleocristiana era il luogo della felicità eccellente, era il luogo in cui non v‟era spazio per le inquietudini, è anche vero però il fatto che sembra non aver fatto mai esplicito riferimento ad un diktat in tema di immagini connotate dalla violenza -del Crocefisso e dei martirii quindi.

Tuttavia il suo pensiero, forse eccessivamente potenziato, è stato il cardine di numerosi contributi sul problema delle raffigurazioni martiriali delle origini e basti qui ricordare i numerosi studi condotti sull‟argomento da Bisconti, studioso che ha restituito un quadro dell‟arte paleocristiana prevalentemente dominato da tale „legge‟ a cui, di rado, si contrappone qualche imprevista infrazione iconografica6.

4

Cfr. supra p. 60.

5

BISCONTI 2002, p. 71.

6 A parere di Bisconti i primi artisti cristiani elidevano di proposito, per „legge‟ appunto, le raffigurazione di immagini cruente per via di una «censura» e di una «omertà figurativa» motivate da «quell‟atmosfera ottimistica e gioiosa che caratterizza l‟arte delle origini, tendenzialmente elusiva nei confronti

delle storie forti e negative» (BISCONTI 1995, p. 255; BISCONTI 2000A, p. 376). Per chiarire ulteriormente la posizione critica dello studioso, sarà utile riferire qui di seguito i passi che meglio esprimono il suo pensiero: «Rare, ma emblematiche, risultano le rappresentazioni storiche ispirate al martirio, consuetamente

evitate, nel rispetto alla legge dell‟ottimismo che sembra interessare l‟arte paleocristiana durante i primi secoli»

(BISCONTI 2002, p. 103); e ancora, «…per quanto attiene al campo prettamente iconografico…non assistiamo

alla creazione di un immaginario martiriale…per il carattere fortemente ottimistico della prima arte cristiana, costituzionalmente aliena dal rappresentare scene violente o coinvolte con situazioni di supplizio ed esecuzione…»: BISCONTI 2004,p. 168; poi, in riferimento alla scena della c.d. Coronatio di Pretestato, :«…il ciclo cristologico di Pretestato sviluppa…fatti estremi alla passio Christi, allora accuratamente evitati»

161 Da questa vicenda critica, l‟iconografia martiriale delle origini ne uscirebbe «assente» e figurativamente «vuota»7, e ciò secondo i parametri di un giudizio critico che tende ad escludere altre possibili motivazioni.

Ma, a mio modo di vedere, l‟arte cristiana più antica, più che dall‟ottimismo di una felicità già conquistata è nutrita, semmai, da un commovente e drammatico anelito di speranza per la salvezza, riflesso delle paure terrene riguardo a quella dolorosa incertezza sul destino dell‟anima nell‟Aldilà che il fedele, pregando a braccia aperte, spera di assicurare alle cure del Paradiso8.