Prima di procedere con la lettura delle immagini della Crocefissione riferite dall‟avorio del British e dal pannello ligneo di Santa Sabina, è opportuno a questo punto dell‟indagine soffermarsi su una questione di primario interesse ai fini del presente studio: bisogna davvero considerare le due opere romane appena citate come nate da un „nulla‟ iconografico, come prototipi di nuova „invenzione‟, oppure esiste l‟opportunità di inserirle nel contesto di una tradizione figurativa già consolidata?
Decisamente prima del V secolo, prima che l‟avorio del British venisse inciso e il pannello sull‟Aventino intagliato, nell‟Oriente cristiano, lo si è visto, le gemme con scene di Crocefissione circolavano tra i devoti e a Roma, nel buio della catacombe, appariva, per dissolversi poco dopo, un‟insolita scena di Coronatio in un racconto cristologico finalmente diluito in immagini sequenziali, con connessioni spazio-temporali, che non tarderanno a ricomparire sui sarcofagi. Sono testimonianze preziose, eppure episodiche. Perciò non può non considerarsi l‟incidenza della perdita di memoria del dato artistico, del tutto proporzionale alla perdita delle opere nel corso dei secoli, la quale non di rado ha indotto ad un errore di valutazione, laddove si è teso a considerare come mai esistito ciò che materialmente non è sopravvissuto sino alla nostra era. E la critica fa non poca fatica ad accettare l‟esistenza di immagini pubbliche della Crocefissione che precedano il pannello ligneo sull‟Aventino, per via delle presunte censure visive di cui si è già detto e che avrebbero arrestato sul nascere il diffondersi di immagini „violente‟.
In tal senso, il rilievo ligneo di Santa Sabina deve essere considerato quale primo monumento e momento collettivo di invenzione e ricezione pubblica dell‟immagine della Crocefissione, come inventio ex nihilo?
L‟epiconografia, dizione recente che si rivolge alla già consolidata metodologia interdisciplinare volta ad associare le potenzialità dell‟interpretazione epigrafica, non solo cronologica ma sopratutto contenutistica, alla decodificazione iconografica nei termini di
107 una relazione vicendevole tra testo e immagine, può essere utile a indirizzare l‟indagine verso nuovi approcci106.
Un testo di sicuro interesse epiconografico, che sembra porre in dubbio l‟indiscusso primato iconografico in ambito monumentale della crocefissione sull‟Aventino, è offerto dall‟ispanico Prudenzio (348-413 ca.), poeta cristiano, appassionato come pochi all‟espediente retorico dell‟ekphrasis107, la cui carriera politica vide l‟ascesa sotto l‟imperatore Teodosio (379-395)108.
Tra le opere del poeta, qui interessa il suo Dittochaeon, ovvero i due „cibi‟ o „nutrimenti‟ come allusione tipologica ai testi del Vecchio e del Nuovo Testamento, meglio conosciuto come Tituli Historiarum, la cui stesura andrebbe collocata tra la fine del IV e gli inizi del V secolo109. Prudenzio scrive il suo poema in forma di 49 quartine tetrastiche, tituli si suppone, che avrebbero dovuto informare la „lettura‟ di numerose scene pictae110 vetero e neotestamentarie, dalla Creazione di Adamo ed Eva sino
106 La nuova definizione di questa metodologia, nonché i relativi risultati scientifici, sono dovuti a RICCIONI 2008A, pp. 465-480; RICCIONI 2008B, pp. 2-11, in part. pp. 2-5.
107 Sui complessi aspetti linguistico-retorici della tecnica poetica dell‟ekphrasis in età tardo antica e cristiana, cfr. LAZAREV 1967, pp. 36-37, PRANDI 1968, pp. 103-120; RAVENNA 1974, pp. 1-52; QUACQUARELLI 1988A, pp. 127-148; QUACQUARELLI 1988B, pp. 343-358; GUALANDRI 1994, pp. 301-341, in part. pp. 328-337 e note 75-77; ELSNER 1995, in part. pp. 23-28; SCOTT 1991, pp. 301-310. Utile un confronto con i testi di ambito letterario bizantino, per cui cfr. MUÑOZ 1926, pp. 139-142; MAGUIRE 1974, pp. 113-140; MAGUIRE 1981, pp. 9-21 MAGUIRE 1988, pp. 88-103; JAMES,WEBB 1991, pp. 1-17; WEBB 1999, pp. 59-74; NELSON 2000, pp. 143-168; JAMES 2007, pp. 1-12; WEBB 2007, pp. 12-32; HATZAKI 2009, pp. 66-85.
108 Le uniche notizie biografiche utili a ricostruire la vita del poeta cristiano, vengono fornite dallo stesso autore nella sua Praefatio alla raccolta dei Carmina, pubblicati tra il 404 e il 405 d.C.: Cfr. da ultimoSPINELLI 2009, pp. 5-59.
109 PRUDENZIO, Dittocaeum, 1-49 (PL, 60, coll. 98-112). Sull‟argomento KESSLER 2002[1985], in part. pp. 15-20, nota 20; PILLINGER 1980; DAVIS-WEIER 1986,pp.19e ss. L‟argomento è stato più di recente suggerito da RICO CAMPS 2009, pp. 7-53, in part. pp. 12-13.
110 A parere di DI BERARDINO 1978, p. 280, la vera natura del Dittochaeon è quella dell‟arte figurata. Tuttavia, la decifrazione dei rapporti che governano il testo „verbale‟ e il testo „figurale‟ non è sempre cosa facile; la scrittura e la pittura in quanto media visivi, esplicati nel più ampio contesto della ricezione e comprensione dell‟immagine, possono essere tra loro accostati secondo molteplici varianti –da un livello primario di tipo esplicativo ad un livello secondario, più complesso se vogliamo, di tipo ideologico/catechetico- al fine di soddisfare le sempre diverse aspettative di una committenza che, da luogo a luogo e da epoca ad epoca, mostra esigenze comunicative sempre diverse. Numerosi gli studi sull‟argomento, a cominciare dai lavori di STEINMANN 1892, in part. pp. 1-18; e GOUGAUD 1930, pp. 168-171. Lo studio dei rapporti tra le
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all‟Agnello apocalittico, affrontate sulle pareti della navata centrale di una basilica (spagnola?), chissà se realmente esistita e visitata dal poeta, magari ancora da erigere o altrimenti del tutto immaginaria111.
Purtroppo ancora non è dato sapere, e forse mai lo si saprà, se Prudenzio sia stato chiamato a redigere la sua opera da un qualche committente che voleva immortalare in versi le pitture di un recente progetto pittorico; tuttavia il Dittochaeon e suoi tituli a me
didascalie pictae e le immagini di riferimento, ha interessato una folta produzione scientifica tra gli anni ‟80 e ‟90 del secolo scorso, per cui cfr. KESSLER 2002[1985], in part. pp. 41-43; KESSLER 2002 [1989A], pp. 125-139; e con riferimento ai tituli dei grandi cicli pittorici medievali DEMUS 1969, pp. 37-41, in part. pp. 39-40 e note 11, 26; KESSLER 2002[2002], pp. 159-178: RICCIONI 2007, in part. pp. 148-155, a cui è utile aggiungere quanto esposto da CAVALLO 1994, pp.31-62, in part. pp. 46-62 per quel che attiene l‟ „ambiguo‟ rapporto tra tituli e pictura nell‟alto medioevo occidentale. In merito alle iscrizioni greche nei monumenti dell‟Italia bizantina, si rinvia a CAVALLO 1988, in part. pp. 483-492 (con particolare riferimento alle testimonianze romane); utile il raffronto con gli epigrammi vergati sulle icone, per cui si rinvia a PENTCHEVA 2007, pp. 121-138. Per la presenza di tituli nella zona dell‟arco absidale cfr. NIGEL 1996, pp. 153-164; ANDALORO,ROMANO 2000, in part. p. 126, note 16-17; con debita differenziazione tra tituli esplicativi ed ideologici. All‟argomento devono aggiungersi ancora altri contributi, che indagano più da vicino il ben noto passo di papa Gregorio Magno,per cui si veda CAMILLE 1985, pp. 26-49, in part. pp. 32-37; e, per la voce „dissidente‟ di DUGGAN 1989, pp. 227-251, in part. pp. 227-233, 248-251, da cfr. con la critica positiva del contributo di CHAZELLE 1990, pp. 138-153. In ultimo, per l‟ampio respiro degli argomenti trattati, rimane imprescindibile la consultazione dei volumi editi dal CISAM nel 1994 e riguardanti, nelle sue più ampie sfaccettature, il rapporto tra il testo e l‟immagine nel medioevo. Tra i contributi editi, oltre al già citato CAVALLO 1994, per l‟ambito altomedievale segnalo in part. FREEMAN 1994, pp. 163-188; e MITCHELL 1994, pp. 887-951.
111 KESSLER 2006, p. 438, sottolinea la rispondenza tra lo schema organizzativo delle scene vetero e neotestamentarie, intramezzate dall‟Agnello apocalittico, descritte da Prudenzio e la distribuzione delle stesse nei cicli pittorici testimoniati dalle ormai perdute pitture di San Paolo f.l.m. in Roma e dal San Pietro in Valle a Ferentillo, per cui cfr rispettivamente ROMANO 2002, pp. 615-630.; VISCONTINI 2006, pp. 372-378; e ROMANO 2003, pp. 41-76; KESSLER 2003, pp. 77-116. Invece, GRABAR 1983, pp. 174-175, appare dubbioso sulla realtà dei cicli antiteci testimoniati delle fonti. Sui diagrammi compositivi delle scene vetero e neotestamentarie e la loro distribuzione in ambito monumentale altomedievale cfr. KESSLER 2002[1989B], in part. pp. 45-53; KESSLER 2002[1989C], in part. pp. 75-81; TRONZO 1985, pp. 93-112;TRONZO 1994, pp. 355-368, in part. le osservazioni a p. 367, nota 10; TRONZO 2001, pp. 456-487; KOROL 2004, pp. 147-173 per il caso di Nola; ROMANELLI, NORDHAGEN 1964, in part. pp. 34-39 e NORDHAGEN 1990[1968], pp. 297-311 per i cicli testamentari di papa Giovanni VII (705-707) (zona presbiteriale e transenne) e papa Paolo I (757-767) (muri navata destra e navata sinistra) a Santa Maria Antiqua in Roma, a cui si aggiungano i più recenti contributi di LUCEY 2004, pp. 83-95; VAN DIJK 2004, pp. 113-127 e in merito le osservazioni di PACE
2006, in part. pp. 263-264. Per l‟ambito bizantino e romanico cfr. invece DEMUS 1969, pp. 11-27; OURSEL 1980, pp. 227-241; KITZINGER 1991, pp. 26-64; ARONBERG–LAVIN 1990, pp. 15- 27; MONCIATTI
2003, in part. pp. 267-283. Utile sottolineare che non solo le figurazioni di ambito monumentale ma anche quelle pertinenti alla tessitura dei paramenti sacri, come suggerito da alcuni tessuti copti del V secolo, sembrano aderire alla presenza dictomica di scene desunte dall‟antico e dal nuovo testamento. Qui l‟organizzazione delle scene, come intuito dalla ZANICHELLI 2009, p. 5, note 6-8, induce a supporre un referente di origine libraria, come d‟altra parte lascia supporre il frammento di papiro proveniente da Ossirinco (Firenze, Museo Archeologico, PSI 920), databile, infatti, tra il V e il VI secolo.
109 appaiono, nell‟intento almeno, davvero simili ad un altro poema composto ancora da
tituli, quello che Venanzio Fortunato (530-607) scrisse per celebrare le nuove pitture
dedicate a s. Martino della cattedrale eponima di Tours che, distrutta da un incendio nel 558, veniva, per volere del vescovo Gregorio di Tour (538-594), riedificata e quindi consacrata nell‟anno 590112.
Ritornando all‟opera prudenziana, fra le quartine del poema, la 42esima, intitolata
Passio Salvatoris, reca scritto quanto segue:
«Trajectus per utrumque latus, laticem, atque cruorem Christus agit.
Sanguis victoria: lympha lavacrum est.
Tunc duo discordant crucibus hinc inde latrones Contiguis: negat ille Deum, fert histe coronam»113
La quartina, opportunamente messa in relazione già dal Garrucci e dal Bréhier con le più antiche iconografie della crocefissione114, restituisce l‟immagine di un Gesù che, affiancato dai due ladroni, è trafitto da una parte all‟altra del torace dal quale fuoriescono sangue e acqua. Quest‟ultimo dettaglio richiama alla mente la più tarda icona del
Crocefisso vestito di colobium, conservata presso il Monte Sinai, di origine palestinese e
112 VENANZIO FORTUNATO, Opera poetica, Liber X, Carmen VI, De Ecclesia Toronica (MGH AUCT.
ANT., IV/1, pp. 234-238). Sui tituli di Venanzio Fortunato e il loro contesto letterario e artistico, cfr. SAUVEL 1956, pp. 153-179; KESSLER 1985, pp. 75-91.
113 PRUDENZIO, Dittocaeum, 42 (PL, 60, col. 103).
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Fig. 21. Sinai, Monastero di Santa Caterina, Icona della
Crocefissione, da Gerusalemme, VIII secolo.
datata tra l‟VIII e il IX secolo, dove i due elementi, il sangue e l‟acqua, sono indicati da altrettante pennellate, parallele e discendenti, di colore rosso e bianco (fig. 21)115.
115 Come osservato da WEITZMANN 1974, pp. 40-41, questa icona, che rifletterebbe l‟influenza degli scritti di Anastasio il Sinaita (700 ca.), non è solamente la più antica icona in cui il Gesù crocefisso appare per la prima con gli occhi chiusi e coronato di spine, sofferente quindi, ma anche l‟icona in cui viene enunciato, anch‟esso per la prima volta, Gestas, il nome del ladrone malvagio. Sull‟icona sinaitica si veda inoltre WEITZMANN 1976, num. b 36, pp. 61 e ss; WEITZMANN 1966A,pp. 9-10; VELMANS 2008, p. 85, fig. 67; BELTING 2007, pp. 106-108. Utile ricordare che i nomi dei due ladroni sono per la prima volta menzionati nelle tre recensioni del testo apocrifo del Vangelo di
Nicodemo (recens. greca: 10, 1-2; recens. copta: 7, 1-4; recens. latina: 10, 1-2), per cui si rinvia a
111 L‟affidabilità delle ekphraseis prudenziane, di quest‟opera certamente ma anche dei
carmina del Peistephanon su cui si avrà modo di ritornare, è una questione su cui la critica
letteraria e artistica ha molto dibattuto: quanto di vero, quanto di phantasia può esservi in una descrizione ekphratica116? Il problema, a mio avviso, risiede nelle aspettative che tali testimonianze attirano su di esse, essendo queste, non di rado, le uniche fonti di riferimento per opere e monumenti oramai perduti, e si pensi, tra gli altri, al valore documentale, pur nelle difficoltà interpretative, riconosciuto al contenuto delle epistulae di un „quasi‟ contemporaneo di Prudenzio, il vescovo Paolino di Nola (353-431)117.
Dunque, in quale misura le ekphraseis si possono considerare scrigni di informazioni oggettive? In risposta a tale quesito, l‟accostarsi a componimenti letterari di tipo retorico, credo debba presupporre un diverso atteggiamento metodologico, ove si consideri non più come forviante ma come persuasiva l‟incidenza del punto di vista „affettivo‟ attraverso cui l‟autore guarda all‟opera che ha d‟innanzi a sé.
Il fine di Prudenzio, infatti, non era certamente quello di registrare schede di opere e monumenti descritti secondo aridi standard catalografici, come le definiremmo oggi, ma di realizzare semmai componimenti lirici che, attraverso l‟esercizio ekphratico, esprimessero innanzitutto la suggestione emozionale che quei media visivi, le pitture e i monumenti, potevano in lui evocare. In tal senso, l‟ „artisticità‟ dell‟oggetto descritto, non è il vero fine del componimento letterario, quanto piuttosto il veicolo che consente al poeta di esprimere i „modi‟ sempre diversi di recepire le immagini e i loro contenuti, ove a
116 Per il dibattito storiografico sull‟affidabilità documentaria delle opere prudenziane, in particolare su alcuni passi del Peristephanon che riguardano la descrizione della basilica di Santa Eulalia presso Mérida, si anticipano qui le conclusioni positive dello studio di SAN BERNARDINO
1996, in part. pp. 207-211, 219-220, da cfr. con la cautela di BISCONTI 1995, pp. 261-266. Cfr. anche KESSLER 2002[1985], in part. pp. 15-20, nota 20
117 Sui tituli della trentaduesima epistola, per cui si veda PAOLINO DI NOLA, Epistolae, XXXII (PL, 61, coll. 330-343), e le loro possibili relazioni iconografiche con l‟arte e l‟epigrafia romana al tornante tra il IV e il V secolo cfr. BISCONTI 2003, in part. pp. 234-244; sulle scene dipinte del Vecchio e del Nuovo Testamento cfr. KOROL 2004, pp. 147-173. Sull‟argomento, cfr. anche DAVIS -WEYER 1986[1971], pp. 17-23.
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rimanerne coinvolta, in un dato luogo ed in un preciso momento della vita, è la sfera più intima dell‟io, quella emotiva.
Prudenzio si accosta in maniera emozionale sia alla forma sia al contenuto dell‟opera che si propone di descrivere e, in tal senso, i meccanismi e le strategie offerti dalla retorica dell‟ekphrasis divengono in lui i veicoli privilegiati di un atteggiamento prima di ogni cosa ideologico ed estetico118 che, spingendosi oltre i limiti del bianco e nero imposto dal testo letterario, translittera in raffigurazioni „verbali‟ colorate dalle infinite sfaccettature delle passioni psicologiche. Oltretutto, l‟utilizzo, da parte di Prudenzio, in questa come nelle altre quartine, del tempo verbale in presente indicativo (agit, discordant,
negat…) suppongo debba essere inteso in duplice valenza linguistico-semantica: non solo
come espressione del „presente simbolico‟, del riattualizzarsi dell‟evento sacro la cui actio prende vita attraverso i meccanismi propri della pittura narrativa, ma anche del „presente storico‟, della contemporaneità di quanto il poeta sembra vedere e testimoniare attraverso i suoi occhi119.
Dunque la testimonianza documentaria fornita da Prudenzio in merito alla scena della Crocefissione, sia che essa debba intendersi come didascalia da apporre all‟immagine o come parafrasi di una pittura o di un mosaico davvero esistiti, epurata dal ricamo ekphratico, evoca la conoscenza de visu di un‟iconografia sulla quale il poeta non riserba dubbi interpretativi, iconografia che, data l‟essenzialità dell‟informazione, sarebbe complesso accostare, in mancanza di ulteriori indizi, al tipo „palestinese‟ o a quello „occidentale‟120.
118 A tal proposito cfr. le osservazioni di WEBB 1999, in part. pp. 61-62.
119 Su questo punto cfr. BELTING 2001, pp. 319-360, in part. pp. 330-335. Sulla connessione tra immagini della passione e liturgia, fondamentale la consultazione di BELTING 1986, pp. 103-148.
120 Di questa variante iconografica, a cui mancherebbe, nella quartina di Prudenzio, la citazione del colobium usualmente indossato da Cristo nelle più antiche iconografie all‟‟orientale‟ che lo ritraggono crocefisso, diversamente da quelle all‟ „occidentale‟ ove è di preferenza raffigurato con il subligaculum, sono sopravvissuti numerosi esempi. Per un ragguaglio, si rinvia innanzitutto a ULIANICH 2007A, in part. pp. 169-177 sia per le opere altomedievali che per l‟alterna
113 Oltre a quanto detto, un altro aspetto può concorrere a suffragare ulteriormente l‟attendibilità della quartina prudenziana. Esso si riferisce alla citazione, da parte del poeta, dell‟acqua e del sangue che, non mischiati l‟un l‟altro, fuoriescono semmai separatamente dalle due ferite del costato di Cristo, essendo egli stato «trajectus per
utrumque latus».
Tale visione dogmatica dell‟immagine sembra aderire, o comunque riflettere, le coeve controversie dei Padri della Chiesa sull‟interazione delle nature di Cristo al momento della Sua morte sulla croce, argomento degenerato nell‟arena di accese dispute intercorse tra gli ortodossi, gli ariani, i nestoriani e i monofisisti: tra il IV e il V secolo, infatti, prima che, nel 431, il Concilio di Efeso affermasse Cristo quale Verbo incarnato nel ventre di Maria, e prima che, nel 451, il Concilio di Calcedonia decretasse la consustanzialità del Figlio al Padre secondo l‟unione ipostatica delle nature di Gesù, vero Dio e vero uomo121, i Padri erano concordi nel credere che al momento della morte di Gesù sul Golgota, il Verbo (significato dalla fuoriuscita dell‟acqua dal costato) avesse temporaneamente „abbandonato‟ sulla croce l‟involucro-corpo (significato dalla
presenza degli indumenti appena citati. Da sottolineare che, a parere dell‟autore, la tunica indossata dal Crocefisso rimanderebbe all‟immagine del „Cristo sacerdote‟ (p. 171). Tra le testimonianze più rilevanti, oltre alla già citata icona sinaitica dell‟VIII-IX secolo (cfr. supra, nota 169), si citano qui la Crocefissione del Tetravangelo di Rabbula (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana- Plut I 56, fol. 13r.) la cui miniatura risalirebbe, secondo il parere più recente di Massimo Bernabò, agli inizi del VI secolo, precedendo la vergatura del codice da parte del monaco Rabbula, avvenuta nel 586 (per l‟edizione in fac-simile si rinvia a CECCHELLI,FURLANI,SALMI 1959, p. 69, fol. 13a; per l‟analisi della miniature WEITZMANN 1974, pp. 40-42; WRIGHT 1973, pp. 199-208; e BERNABÒ 2008A, in part. pp. 19-21; BERNABÒ 2008B, pp. 105-108); la Crocefissione a tempera della cassetta-reliquiario in legno, di fattura siriaca o palestinese, già al Sancta Sanctorum di Roma e adesso custodita presso i Musei Vaticani, VI secolo (adesso cfr. la scheda in TREASURE OF HEAVEN
2010-211, p. 36, n.13); le Crocefissioni di Santa Maria Antiqua in Roma, una, ormai frammentaria sull‟arco absidale, di cui è incerta la presenza del colobium, del tempo di papa Giovanni VII (705-707), l‟altra dell‟epoca di papa Zaccaria (741-752) nella Capella di Teodoto (ROMANELLI, NORDHAGEN 1964, pp. 35-36, 58,61;NORDHAGEN 1990[1968], in part. pp. 300-301); la Crocefissione ad affresco della catacomba di S. Valentino in Roma, inizi VIII secolo (OSBORNE 1981, pp. 82-90, in part. pp. 87-88 e nota 28) e quella coeva presso l‟Oratorio del SS. Salvatore sotto la basilica dei ss. Giovanni e Paolo ancora in Roma (CURZI 1999, pp. 607-616); la Crocefissione ad affresco del monastero di Sabereebi in Georgia, X secolo? (VELMANS 2001[1995], pp. 269-278); le Crocefissioni nelle miniature bizantine di XI secolo (MARTIN 1955, pp. 189-196).
121 Cfr. Mansi, Collectio, VII, coll. 144-115. Per una sintesi sullo scontro delle diverse posizioni, cfr. l‟analisi di ZIBAWI 1995, pp. 11-14.
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fuoriuscita del sangue dal costato)122, permettendogli di morire nell‟attesa di ricongiungersi ad esso per il tramite della Resurrezione.
Questa dottrina della separazione, uno dei più complessi luoghi della cristologia, poteva trovare consistenza figurativa solo attraverso un‟altrettanta „separazione‟ pittorica dei due elementi, come attestato dalla quartina di Prudenzio e di cui è traccia nella già citata icona sinaitica della Crocefissione dove, dal costato di Gesù, zampillano, scissi e al contempo (ma qui da un‟unica ferita), il sangue e l‟acqua123.
La sinteticità della quartina prudenziana, che per natura linguistica non può indugiare nella citazione di elementi accessori, evoca poi il componimento letterario, più tardo di un circa un secolo e mezzo, di un altro retore. Si tratta di Choricius, il quale descrisse, in un‟ekphraseis periegetica in forma di prosa, le pitture neotestamentarie che un tempo impreziosivano la chiesa di San Sergio a Gaza, eretta nei primi anni dell‟età giustinianea (527-565), e tra queste la Crocefissione: «Alla fine», dice Choricius, «Lo
consegnarono alla morte più vergognosa, tra due ladri»124.
Poi, a rimarcare il diffuso interesse dei poeti verso il mondo dell‟arte figurata, e nello specifico dell‟immagine del Cristo in croce, è ancora un‟altra fonte scritta che, seppur di contesto e propositi narrativi diversi, non può, almeno per i suoi strabilianti contenuti, non ricordarsi in questa sede. La celebre citazione è riferita ancora ad un Cristo
122 L‟argomento è stato trattato da GRONDIJS 1960, pp. 51-71, e connesso al più tardo rito cerimoniale dello Zénon, del VI secolo, dove, superata oramai la dottrina della „separazione‟, era prevista, nell‟atto liturgico dell‟eucaristia, la presenza nel calice non solo del vino ma anche dell‟acqua, che doveva essere calda per significare la vita che scorreva „ancora‟ nel corpo di Cristo anche dopo la sua morte. L‟autore, a conclusione del suo studio (cfr. pp. 70-71), rifiuta, espungendo però dal suo discorso le ampolle di Monza, la possibilità che le immagini della Crocefissione siano esistite prima del VI secolo, prima quindi che i Padri della Chiesa chiarissero, in termini dogmatici, la relazione tra le due nature di Cristo. Sulla questione, cfr. anche le osservazioni di BELTING 2001, pp. 331-332.
123 Cfr. supra, pp. 109-110.