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Capitolo 1: Recenti Teorie della Traduzione

1.5 Decostruzionismo

Il movimento decostruzionista ha le sue origini in Francia durante gli anni Sessanta, in un contesto storico di tumulto politico e sociale, che si riflette anche nella sua filosofia.

Il decostruzionismo ridisegna le questioni su cui si fonda la teoria della traduzione, sfida i limiti di linguaggio, scrittura e lettura, mettendo in discussione termini, sistemi e concetti costruiti da tale linguaggio. I decostruzionisti non propongono una teoria della traduzione specifica, ma usano la traduzione per sollevare questioni sulla natura del linguaggio e “l'essere-nel-linguaggio” e coniano la nozione di différance. Jacques Derrida, considerato il maggior esponente della corrente decostruzionista, mette in evidenza come traduzione e decostruzione siano inevitabilmente connesse, sostenendo che nel processo di traduzione quella presenza elusiva che lui definisce “différance” si rende visibile al massimo grado possibile. Secondo lui la traduzione offre

a mode of differing/deferring that subverts modes of traditional metaphysical thinking that have historically dominated assumptions about translation specifically as well as philosophy in general42

La decostruzione non ha sistemi di categorizzazione che separano il testo d'origine (ST) dal testo d'arrivo (TT), il linguaggio infatti è auto-referenziale e non ha come oggetto le “cose”. Target del decostruzionismo è dunque la separazione del linguaggio dal suo significato identificabile, un punto di partenza per una disamina della teoria della traduzione in generale.

a. Predecessori: Foucault e Heidegger

Il concetto fondamentale decostruzionista secondo cui è il traduttore che crea il testo originale è derivato dalla filosofia di Foucault. Egli sostiene infatti che l'autore come individuo non esiste e il

41 TOURY, Descriptive Translation Studies -And Beyond, cit.

suo lavoro quindi non è il risultato di una spontanea ispirazione ma è correlato a sistemi istituzionali di tempo e spazio di cui l'individuo non ha quasi controllo e coscienza. Ciò che esiste è la funzione dell'autore, una serie di posizioni soggettive, determinate da gap, discontinuità e rotture. Foucault continua contrapponendo un'età classica (che lui colloca temporalmente nel XVIII secolo), basata su armonia, testi unitari e linguaggio in grado di descrivere universali, a un'età moderna (il XIX secolo), in cui al contrario il linguaggio acquisisce una sua identità di per sé, si distacca da un sistema unificato e fa emergere l'eterogeneità dei sistemi grammaticali; in altre parole un linguaggio che diventa un'autorità in sé.43 Attingendo dal suo lavoro, i decostruzionisti si focalizzano su un linguaggio autoreferenziale, trascurando gli autori e i significati espliciti.

Altro pilastro alla base della teoria decostruzionista, è il contributo del filosofo tedesco Martin Heidegger. Secondo Heidegger, la traduzione è un'azione, un'operazione di pensiero, una traduzione di noi stessi nel pensiero della lingua straniera e non un trasferimento linguistico e scientifico derivato da qualcosa di già esistente. La sua teoria della traduzione dunque ripristina una proprietà del linguaggio stesso, approccia e considera ciò che è negato dal linguaggio. Heidegger propone un nuovo modo di pensare, sostenendo che non bisogna pensare a ciò che già esiste, ma a ciò che c'è e allo stesso tempo non ha ancora nome e non lo può avere, perché non esiste.44

b. Jacques Derrida

Il presupposto da cui parte Derrida per spiegare la sua teoria è il concetto heideggeriano del mostrare ciò che c'è ma ancora non c'è, una non-identità, non-presenza, non-rappresentabilità. Egli introduce inoltre il già citato concetto di différance. Il termine deriva dal latino differre, che ha il doppio significato di differire ed essere diverso, e vuole far riferimento alla parola francese différence; tuttavia, attraverso un voluto spelling errato, Derrida mostra una prima indicazione visuale di un progressivo sfuocarsi del significante e di una dispersione di significato. Il termine, dunque, indica una volontà di rinviare le nozioni tradizionali di riferimento e il loro esser date per scontate all'interno del discorso. Ugualmente, la traduzione non deve guardare al messaggio originale né alla sua codificazione, ma piuttosto alle molteplici forme attraverso cui deve passare per comunicare. La sua teoria della traduzione mira a proteggere le differenze, aprendo nuove frontiere di pensiero, e a cercare di svelare il gioco di tracce nascoste, ma distinguibili a livello inconscio, senza far riferimento a qualche sotteso significato profondo. La traduzione secondo lui può estendere i confini e fare strada a nuove possibilità per ulteriori differenze, può essere concepita come azione in cui il movimento lungo la superficie del linguaggio è resa visibile.45 Riformulando

43 GENTZLER, Contemporary Translation Theories, cit., pp.150-152

44 GENTZLER, Contemporary Translation Theories, cit., p.157

ulteriormente il concetto, la traduzione di Derrida è un'istanza in cui il linguaggio può essere visto nel suo continuo processo di modificare il testo originale, di rinviare e sostituire qualsiasi possibilità di cogliere ciò che il testo originale desiderava nominare; un'attività che nasconde la presenza e contrasta ogni desiderio.

Derrida riprende poi il termine Überleben, ossia “sopravvivenza del linguaggio”,coniato dallo studioso Walter Benjamin, per indicare come sia la traduzione a modificare il testo originale e non viceversa. Il compito del traduttore è proprio assicurare la sopravvivenza del linguaggio, “is about giving life, transforming the source text so that it lives on, that it lives more and better, that it lives beyond the means of the author”46

Per Derrida e Benjamin, il testo originale contiene sempre una struttura per la sopravvivenza futura, anche se il testo non è tradotto. Tale struttura è invisibile e incompleta, rappresenta il desiderio del testo di una traduzione, in quanto solo grazie ad essa può sopravvivere. Il traduttore sviluppa e migliora il linguaggio non in modo sistematico ma frammentario,

For, just as the fragments of the amphora, if one is able to reconstitute the whole, must be contiguous in the smallest details, but not identical to each other, so instead of rendering itself similar to the meaning of the original, the translation should rather, in a movement of love and in full detail, pass into its own language the mode of intention of the original: thus, just as the debris become recognizable as fragments of the same amphora, original and translations become recognizable as fragments of a larger language.47

La traduzione, quindi, ci mette in contatto non con un significato originale ma con una pluralità di lingue e significati, ogni traduttore scrive in molteplici lingue e componendo sempre nuovi significati, facendo scomparire le linee di confine tra lingue.

Secondo Derrida, la teoria della traduzione è il miglior campo d'indagine per esplorare quelle tracce e possibilità che vengono nascoste nel parlato. La teoria della traduzione deve seguire errori, problemi, divergenze e differenze, in quanto ignorarle significherebbe perpetuare l'inadeguatezza della traduzione48.

Un approccio di questo genere pertanto distrugge, attraverso la sua negazione, il potere del trascendentale e libera il campo d'indagine da una valutazione della traduzione in termini di pura equivalenza.

46 Jacques DERRIDA, “Des tours de Babel”, in Joseph F. Graham (a cura di), Difference and Translation, Ithaca, Cornell

University Press,1985, pp.178-179

47 Walter BENJAMIN, Illuminationen, Francoforte, Suhrkamp,1955, cit. da J. DERRIDA, “Des tours de Babel”, cit.,

pp.189-90

b. Traduzione post-coloniale

Le ripercussioni dell'alternativa decostruzionista sugli studi successivi sono molto ampie e complesse da classificare, con i campi più significativi individuabili nell'attività dei circoli letterari francesi, in particolare da parte della rivista Tel Quel, nei translation studies attraverso le considerazioni di Van der Broeck su Derrida, nella teoria letteraria anglo-americana e nella filosofia post-illuminista. Tuttavia, l'impatto maggiore a livello di pratica della traduzione si verifica senza dubbio nel campo della traduzione post-coloniale.

Invece che utilizzare la traduzione come strumento per supportare o estendere un sistema concettuale basato sulla filosofia e religione occidentale, i traduttori post-colonialisti tentano di reclamare e utilizzare la traduzione come strategia di resistenza, una traduzione che devii la costruzione di immagini delle culture non-occidentali invece che reinterpretarle mediante dei concetti e un linguaggio tradizionali e normalizzati. Le due studiose più influenti che utilizzano questo tipo di decostruzione sono Tejaswini Niranjana e Gayatri Spivak.

Niranjana in primis critica traduttori, etnografi e storici per il loro modo di porsi nei confronti delle culture coloniali, sostenendo che la traduzione è il campo dove le relazioni impari tra lingue e culture differenti sono state più ampiamente perpetrate. L'adozione di una traduzione trasparente, oggettiva e fedele, infatti, ha permesso a politici e istituzioni coloniali di creare un Altro “esotico” eterno e immutabile, che ha avuto un impatto drammatico sulla comprensione in Occidente delle culture cosiddette “del terzo mondo”, ma anche sulla percezione che tali paesi emergenti avevano di se stessi. La traduzione quindi deve essere invece un flusso reciproco, che rinforzi o trasformi date nozioni di cultura e identità.

Niranjana non solo critica gli studiosi tradizionali, affermando che la traduzione trasparente rinforza l'egemonia coloniale e ne cancella la storia, ma è severa anche nei confronti di Toury e i sostenitori delle teorie polisistemiche, in quanto ignorano il ruolo che la traduzione ha avuto nell'assoggettamento delle popolazioni colonizzate: al contrario delle loro convinzioni, la traduzione ha avuto un forte impatto sulla cultura di partenza (riferimento in particolare alla situazione della popolazione Hindi). Il decostruzionismo invece rappresenta un'ottima teoria a sostegno della traduzione post-coloniale in quanto:

1. sostiene che l'origine è sempre eterogenea. Senza una presenza primordiale da rappresentare, gran parte della filosofia e storia occidentali crollano

2. critica le tradizionali nozioni di traduzione

3. propone strategie di double-writing e sovversione dall'interno, ponendo il ruolo del significante in primo piano rispetto al significato, aprendo una nuova strada per rivelare il passato o una cultura differente senza sottostare a norme di rappresentazione e concetti

tradizionali e aiutando i traduttori a sfidare le pratiche della dominazione grazie ad immagini alternative meno discriminatorie e più aperte a un'evoluzione culturale.49

Parte della teoria di Niranjana, inoltre, si trova d'accordo con le posizioni di Venuti. Entrambi sostengono infatti una strategia “estraniante, che trasporti differenza”, una strategia che si spinge oltre, sfidando le interpretazioni tradizionali e offrendo nuovi modi di pensare traduzione, storia, evoluzione culturale e formazione dell'identità. La sua strategia, dunque, consiste nell'usare la traduzione per illustrare le divergenze e la natura costruita del testo originale, la cui coerenza deriva da un progetto coloniale.

Un'altra studiosa, Gayatri Spivak, conscia del modo in cui le culture indigene sono state manipolate dalla lingua e dalle istituzioni del potere colonizzatore, sostiene che la traduzione post-coloniale e la traduzione possono collaborare per distruggere ciò che lei chiama “ a massive historical metalepsis” e per ricollocare i soggetti coloniali, mostrando gli effetti del discorso occidentale sulla loro comprensione di se medesimi.

Spivak fa un ulteriore passo avanti, chiedendosi di chi sono realmente rappresentati gli interessi in questi studi sulle popolazioni dei paesi del “terzo mondo”. Per indagare tale aspetto, prende come oggetto di ricerca i margini della società, i paesani illetterati, gli strati più bassi del subproletariato urbano, gli intoccabili, ecc., cercando di comprendere gli effetti della colonizzazione su di loro in specifiche situazioni storiche. La risposta che emerge dalle sue ricerche è il fatto che i traduttori occidentali possono avere un accesso solo parziale alla situazione di tale strato sociale e solo attraverso il non-detto, imparando a leggere i silenzi e le contraddizioni. In questo senso, la decostruzione è utile per analizzare e misurare tali silenzi ed intervenire50.

A livello traduttologico pratico, Spivak, nella sua traduzione di tre storie di Mahasweta Devi raccolte in “Imaginary Maps” (1995), usa la sua conoscenza della cultura indiana e bengali per aiutare il lettore occidentale a immaginare non un “Altro” astratto e politicamente corretto, ma le reali differenze culturali nelle sue forme specifiche. Per far ciò, usa informazioni contestuali, quali prefazioni, postfazioni ecc, marcando il proprio ruolo di mediatore, stabilendo una tendenza che sarà caratteristica delle traduzioni post-coloniali. Il traduttore deve avere familiarità con la storia del la lingua, la storia del momento storico in cui scrive l'autore, la storia della lingua-in-traduzione. La sua traduzione, dunque, può essere considerata un primo passo verso un cambiamento di mentalità sulla traduzione, in quanto rappresenta un tentativo di misurare le differenze culturali in situazioni storico-culturali specifiche.51

49 MUNDAY, Introducing Translation Studies, cit., pp.132-134

50 Gayatri SPIVAK, “The politics of translation”, in Lawrence Venuti (a cura di), The Translation Studies Reader,

London and New York, Routledge, 2004, pp.369-88

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