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Pensiero giapponese – pensiero occidentale: relazione sé/altro

Capitolo 2: Tradurre da lingue “altre”

2.4 Pensiero giapponese – pensiero occidentale: relazione sé/altro

“Translation is a continuous negotiation, so translation is not only a matter of transmitting but a process of forming yourself7”. La traduzione, come abbiamo visto finora, è un processo strettamente legato al pensiero e all'identità di un popolo, in questa sezione pertanto vorrei analizzare il concetto di traduzione proprio in relazione al pensiero giapponese, opposto al pensiero occidentale. Nelle facoltà di Studi Asiatici per il mondo, si trovano spesso corsi di “storia del pensiero del Giappone”. Ma cos'è questo “pensiero”? È davvero possibile darne una definizione univoca? Nonostante darne una definizione immediata risulti difficile, se non impossibile, concepiamo questo “pensiero del Giappone” come qualcosa che è possibile studiare e su cui è possibile indagare. Tuttavia, se considerassimo un “pensiero marziano”, nonostante darne una definizione sia ugualmente impossibile, non la considereremmo mai una materia di studio possibile. Questo perché, se da un

7 Naoki Sakai in un'intervista rilasciata a Siri Nergaard presso la Nida School of Translation Studies di Misano Adriatico, 31 maggio 2012

lato possiamo giustificare l'esistenza del pensiero giapponese con la presenza dei giapponesi e della cultura giapponese come ambiente in cui esso si colloca, non possiamo dire lo stesso per quanto riguarda il pensiero marziano. Partiamo infatti dal presupposto che ci sia un modo di pensare proprio di un gruppo unito di persone chiamate “giapponesi” che popolano il territorio geografico chiamato “Giappone”. È evidente dunque che un “ pensiero giapponese” esista, eppure analizzando gli studi in materia a partire dal periodo Meiji, ci si accorge che la produzione di opere senza riferimenti espliciti o impliciti alla storia del pensiero occidentale è quanto mai esigua. La storia del pensiero giapponese sembra esser stata creata come equivalente simmetrico della storia del pensiero e della filosofia occidentale, in una sorta di desiderio mimetico. Questa sorta di sudditanza, se così si può definire, della storia del pensiero giapponese non ne implica comunque una mancanza di autenticità o l'arretratezza. Il tentativo di creare la storia della propria nazione attraverso le dinamiche di relazione e repulsione rispetto all'Occidente è una pratica manifesta tra gli intellettuali non occidentali, in quanto l'ossessione verso la propria etnicità non può avere senso se non in relazione al suo opposto. Allo stesso modo la relazione verso il sé non può essere determinata se non è stata determinata la relazione con l'altro. Secondo Sakai, l'aspirazione verso il “pensiero giapponese” è invocata attraverso il già citato schema della co-raffigurazione all'interno del cosiddetto regime della traduzione. Il regime della traduzione è un'ideologia secondo cui i traduttori immaginano il loro lavoro di traduzione come uno scambio simmetrico tra due lingue. La nozione convenzionale di traduzione, diciamo dall'inglese al giapponese, presuppone che entrambe le lingue siano due entità unitarie e che la traduzione stabilisca tra esse uno scambio equivalente di valori. Una traduzione è tanto più accurata quanto più lo scambio di valori è equivalente e sua condizione di esistenza è il fatto che le due lingue siano ben distinguibili l'una dall'altra e non si sovrappongano. La rappresentazione della propria lingua come unità sistematica è strettamente correlata, nello schema della co-raffigurazione, alla rappresentazione di una cosiddetta “lingua partner”, ossia una lingua straniera. La nostra lingua non viene prima o dopo la lingua straniera, entrambe esistono nello stesso momento, in quanto la nostra lingua è sua volta considerata straniera da colui che per noi è straniero, e la relazione autoreferenziale alla nostra lingua assume lo schema della co-raffigurazione. Se consideriamo la storia dell'arcipelago giapponese come un patchwork di storie frammentate e discontinue, di continue ascese e cadute di diversi sistemi di governo, ci rendiamo conto come sia opportuno caratterizzarla in termini di multilinguismo e formazione culturale ibrida. È evidente dunque che la storia del pensiero giapponese non potrebbe esistere se avulsa dall'opposizione bilaterale della lingua giapponese e di una lingua straniera, con tutte le regolarità discorsive che fanno apparire la moderna nazione (kokumin) e l'ethnos (minzoku) come due entità transtoriche.

Il pensiero concepito come diametralmente opposto a quello giapponese, d'altronde, non può che essere quello occidentale. Si è cercato più volte di porre a confronto il pensiero giapponese con quello cinese, coreano, ecc... In particolare negli ultimi decenni molti intellettuali hanno modificato il proprio orientamento di pensiero dal precedente “Datsua Nyūō” (lasciare l'Asia per entrare nell'Occidente) a “Datsuō Nyūa” (lasciare l'Occidente per entrare in Asia). Tuttavia ciò non cambia il modo in cui il pensiero giapponese viene relativamente identificato, per effetto della natura stessa dell'Occidente come potenza globale onnipresente. È l'Occidente che ha creato l'organizzazione del mondo moderno attraverso cui le informazioni vengono selezionate e trasmesse a livello globale. I mezzi di comunicazione transcontinentale, dall'uso delle lingue dei colonizzatori (francese, spagnolo, inglese) fino ai recenti network mondiali (CNN, BBC...) sono stati monopolizzati dall'Occidente, si sono espansi, trasformati, evoluti grazie alla sua influenza. Gli intellettuali del “non-Occidente” si sono trovati inglobati in questa forma di dominazione e hanno dovuto costruire le proprie identità in una dinamica di assimilazione a o repulsione verso l'etnocentrismo occidentale. Anche la storia del pensiero giapponese dunque ha dovuto inserirsi in questa dinamica, che non è altro che il già citato regime della traduzione. Gli studiosi acquisiscono una graduale comprensione del pensiero giapponese solo attraverso il pensiero occidentale e si collocano quindi in una posizione equivalente a quella del traduttore nei confronti dei suoi lettori. Solo conoscendo entrambi i poli saranno in grado di parlare del pensiero giapponese come specifico dei giapponesi. Nella traduzione, la simmetria è di solito tra due lingue nazionali, ad esempio francese-giapponese o giapponese-italiano. Facendo un parallelismo tra traduzione e storia del pensiero dunque, ci aspetteremmo una giustapposizione con il pensiero francese o quello italiano. Tuttavia il pensiero giapponese rientra spesso in una simmetria con l'entità Occidente in generale, assumendo il ruolo di rappresentante dell'Oriente. Motivo di questa confusione è il fatto che la simmetria viene a crearsi più che tra due oggetti definiti, tra due idee indipendenti da tali oggetti. Si possono trovare innumerevoli esempi, infatti, di intellettuali non occidentali che, nel tentativo di discutere riguardo alla propria cultura nazionale, identificano il pensiero orientale con il pensiero del proprio specifico paese, sia esso Cina, Iran, India, ecc... E questa tendenza è facilmente comprensibile se consideriamo il fatto che gli intellettuali non occidentali non riescono a trovare un modo di riferirsi alle proprie rispettive culture e tradizioni senza porre l'Occidente come punto di riferimento generale.

Allo stesso modo, la condizione di esistenza del pensiero giapponese è che sia dipendente dall'idea di Occidente. Per articolare la particolarità del Giappone, bisogna dare per scontata l'universalità dell'Occidente. E coloro che vogliano concettualizzare tale particolarità devono porsi come traduttori del pensiero, astanti nell'incontro delle civiltà, che da una posizione dominante rispetto ai

due opposti simmetrici potranno finalmente definire il Giappone e l'Occidente secondo lo schema della co-raffigurazione.

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