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Largamente inserito nel dibattito nazionale ed europeo relativo ad un rinnovamento delle strutture e delle forme dello Stato Sociale, il nascente partito democratico-cristiano italiano si pose come obiettivo programmatico da realizzare negli anni della ricostruzione postbellica l'estensione dei confini della politica sociale alla categorie di classe media, ed in particolar modo ai lavoratori indipendenti1.

Come sottolineato in un minuzioso articolo apparso nella Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali, nel quale venivano esposte le posizioni dei diversi partiti italiani in merito alla riforma della previdenza sociale, la Democrazia Cristiana si poneva un obiettivo più che ambizioso. In primo luogo si trattava di garantire ai lavoratori tre benefici fondamentali: una indennità in caso di perdita del lavoro, l'assistenza sanitaria in caso di infortunio o malattia, ed infine una serie di assegni e premi per la tutela e il sostegno alle famiglie. Di pari passo si doveva procedere ad un riordino amministrativo delle varie strutture che intervenivano nel settore della previdenza sociale. Decisamente più importante era l'idea che lo Stato dovesse concorrere allo sviluppo della Previdenza Sociale soprattutto dal punto di vista finanziario. In un sistema che prevedesse prestazioni sostanzialmente legate alle retribuzioni, l'intervento finanziario dello Stato doveva servire in primo luogo alla garanzia degli standard minimi, ed in seconda battuta a sovvenzionare un efficiente sistema di assegni familiari proprio per i lavoratori indipendenti2.

Non è difficile intravedere in questo ambizioso programma della Democrazia

1 Cfr. Loreto Di Nucci, Lo Stato Sociale in Italia tra Fascismo e Costituente: la ricezione del

piano Beveridge e il dibattito alla Costituente, in Carlotta Sorba (a cura di), Cittadinanza: individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea: atti del Convegno annuale SISSCO, Padova, 2-3 dicembre 1999, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali,

Direzione generale per gli archivi, 2002, pp. 161-188.

2 Emanuele Cabibbo, I partiti politici e la Previdenza Sociale, «Rivista degli Infortuni e delle Malattie Professionali», I, 1944, (Gennaio-Dicembre), pp. 25-32.

Cristiana l'eco delle proposte del piano Beveridge, anche se riviste alla luce delle particolari caratteristiche ed esigenze del sistema italiano. Decisamente più problematico, invece, risulta essere l'individuazione di un rapporto coerente fra le idee indicate dal partito democristiano e il dibattito interno al variegato mondo del movimento cattolico italiano.

I tentativi di “ammodernamento” della Dottrina Sociale della Chiesa, che proprio negli anni del secondo conflitto bellico subirono una sorta di accelerazione soprattutto in seguito agli interventi di Pio XII3, riguardavano in particolar modo la ridefinizione delle strutture economiche. L'obiettivo ultimo era quello di evitare che tali strutture potessero essere di ostacolo al libero sviluppo della persona umana, ma che al contrario partecipassero alla definizione di un contesto globale di protezione e sicurezza rispettoso della dignità dell'uomo. Che poi tale “contesto” potesse assumere le forme di un moderno Stato Sociale poteva anche rientrare nelle intenzioni di alcuni settori del movimento cattolico italiano, ma esso non rappresentava di certo un obiettivo così largamente condiviso tale da poter diventare un indirizzo programmatico realmente perseguibile da quel partito democristiano che si poneva l'obiettivo della rappresentanza politica del mondo cattolico italiano, inteso nella sua complessità.

Resta tuttavia il fatto che, superata la prima fase della ricostruzione postbellica, per tutti gli anni Cinquanta il partito democristiano può essere considerato a tutti gli effetti un attore imprescindibile dello sviluppo dello Stato Sociale in Italia e dell'allargamento dei suoi confini a quei settori della classe media indipendente ancora largamente esclusi dai benefici della politica sociale. La necessità di assicurarsi il consenso elettorali di questi segmenti sociali giocò indubbiamente – e per molti versi legittimamente – un ruolo importante nel cambiamento della strategia della Democrazia Cristiana. Tuttavia un tentativo di spiegazione basato su questo singolo elemento risulta essere fondamentalmente insufficiente. Per comprendere in maniera più completa il nuovo atteggiamento della Democrazia Cristiana può essere utile riflettere su due elementi. In primo luogo risulta essere

3 Particolarmente rilevanti a tal proposito furono il Radiomessaggio a Commemorazione del 50°

Anniversario della Rerum Novarum, pronunciato l'1 giugno 1941 e il Messaggio Natalizio del

necessario ritornare a quel dibattito sulle nuove relazioni fra economia, politica e società che si sviluppò negli anni del conflitto bellico, sottolineando soprattutto quei limiti di natura ideologica il cui superamento avrebbe contribuito a far sì che il partito democristiano potesse intravedere nello Stato Sociale non solo un esito possibile, ma addirittura quello preferibile e per molti versi più adatto alle forme che l'economia e la società assumevano man mano che dalla fase della ricostruzione si passava a quella dello sviluppo degli anni Cinquanta. Il secondo elemento che merita una qualche considerazione per spiegare la maggiore incisività dell'azione democristiana nello sviluppo dello Stato Sociale riguarda la natura stessa del partito, ovvero la sua evoluzione da un complesso “contenitore” delle varie anime del cattolicesimo italiano ad un soggetto in grado di porsi come mediatore politico fra l'azione dello Stato e dei soggetti pubblici e le richieste e le esigenze della molteplicità degli attori economici e sociali della realtà italiana.

1. Dottrina Sociale e “Nuova Cristianità” nel movimento cattolico italiano degli anni Trenta

L'influenza del dibattito che negli anni del secondo conflitto mondiale interessò le correnti più attive del movimento cattolico italiano sui futuri orientamenti e posizioni della élite democristiana è stata oggetto di ampia analisi da parte della storiografia sulla Democrazia Cristiana4.

Una parte rilevante di quel dibattito riguardava in particolar modo la ridefinizione delle strutture economiche. Il fallimento del capitalismo, o meglio di quella particolare forma che il capitalismo aveva assunto nel corso degli ultimi decenni, richiedeva una riflessione approfondita sulle misure da introdurre affinché le dinamiche dello sviluppo economico fossero compatibili con quei tre elementi che la Dottrina Sociale della Chiesa, anche alla luce degli interventi di Pio XII, poneva alla base della vita sociale ed economica: l'uso dei beni materiali (e di conseguenza

4 Particolarmente significativa all'interno di questa storiografia rimane la posizione espressa da Agostino Giovagnoli, Le premesse della ricostruzione: tradizione e modernità nella classe

la proprietà), il lavoro e la famiglia. Si trattava in sostanza di dare effettiva consistenza a quel principio personalista attraverso il quale realizzare il primato dell'uomo sui vari campi dell'agire umano, dall'economia alla politica, dalla tecnica al diritto5.

La volontà di riformare il sistema economico capitalista, “suggerita” dal pontefice attraverso i suoi interventi, e approfondita dai settori più attivi del movimento cattolico italiano, la FUCI, il Movimento dei Laureati, il gruppo legato all'Università Cattolica, merita una precisazione che metta in rilievo due aspetti particolari: in primo luogo bisogna vedere fino a che punto si spingeva la critica al modello di sviluppo capitalista; in seconda battuta bisogna considerare quale era il “valore pratico” di tali orientamenti riformistici.

Rispetto al primo elemento, è interessante notare che proprio nel momento in cui la critica al capitalismo diventava più precisa, le riflessioni sulla riforma del sistema economico e sugli strumenti per arrivare a tale cambiamento recuperavano in qualche modo alcuni degli elementi tipici dello stesso modello capitalista. Quella espressa nei confronti di tale sistema, quindi, non era una condanna tout court, quanto piuttosto una opposizione alle conseguenza che lo sviluppo economico privo di controlli poteva avere sulla dinamiche sociali. Tale orientamento non solo accomunava settori consistenti del movimento cattolico italiano, ma era rinvenibile soprattutto nelle posizioni di personalità il cui ruolo all'interno della Democrazia Cristiana sarebbe stato più che centrale: Ezio Vanoni o Pasquale Saraceno, ma soprattutto Amintore Fanfani.6

L'analisi condotta dal professore aretino sulle origini del capitalismo aveva come obiettivo essenziale quello di individuare le possibilità per una rifondazione del sistema a partire dagli iuxta propria principia del capitalismo stesso. Il fallimento di questo sistema economico, incapace di permettere la piena espansione della persona umana, era stato causato dalla perdita dell'obiettivo del bene comune in

5 Sull'influenza dei messaggi pontifici di Pio XII nella definizione delle nuove forme dello Stato Sociale si veda Mario Toso, Welfare society. La riforma del welfare, cit., pp. 107-114. Cfr. Piero Barucci, Antonio Magliulo, L'insegnamento economico e sociale della Chiesa, cit., pp. 96-104.

favore della ricerca del massimo rendimento. Ecco perché, sosteneva Fanfani, era essenziale definire una “nuova economia”, consistente «non tanto in nuove tecniche, [ma] in nuovi fini».7 E' interessante notare che per Fanfani il raggiungimento di tali nuovi fini era possibile attraverso la conservazione del principio della massima efficienza, da abbinare tuttavia a nuovi strumenti redistributivi che, facendo superare l'egoismo individuale, avrebbero permesso a ciascun consociato di ottenere la quantità di beni necessaria allo sviluppo e all'affermazione della sua personalità.8

L'obiettivo della “rifondazione” del capitalismo, attraverso il quale recuperare pienamente la funzione della persona umana all'interno del sistema economico, legava il pensiero di Fanfani a quelle riflessioni sulla “Nuova Cristianità” che emersero all'interno del movimento cattolico nell'Europa degli anni Trenta e che nel contesto italiano ebbero una risonanza del tutto particolare proprio in considerazione della situazione politica dell'Italia.

In Italia, dove il fascismo aveva più a lungo condizionato la vita culturale, la speranza di una nuova cristianità ebbe particolare risonanza: nei meno giovani, gli uomini della cosiddetta «prima generazione», che avevano conosciuto il prefascismo, quella speranza riaccendeva antichi ideali; ma nella «seconda generazione» e poi nella terza – nelle generazioni cioè che si erano formate negli anni del fascismo e più avevano sentito il crollo dei miti del regime – essa era destinata a diventare quasi un elemento di identità culturale, sopratutto nelle classi dirigenti.9

Como sottolineato da Scoppola, il progetto di derivazione maritainiana di creare una Nuova Cristianità, pur non essendo affatto “alternativo” a quello perseguito dalla Chiesa fin da quando l'ordine Cristiano era stato messo in crisi dalla Riforma

7 Giovanni Michelagnoli, Amintore Fanfani fra genesi e riforma del Capitalismo, in Piero Barucci (a cura di), I cattolici, l'economia, il mercato, cit., p. 96.

8 “Si consideri poi che, a giudizio di fanfani, il capitalismo è un'istituzione economica che ha portato all'uomo benessere e prosperità, e non è un male da estirpare. Va anzi salvaguardato, sanzionando il primato dell'uomo, del quale bisogna ripristinare la centralità nel mondo; per farlo bisogna realizzare un controllo sociale sull'attività economica”. Ibidem, p. 97.

e dal liberalismo, in qualche modo ne era «un arricchimento [e] un superamento».10 Non si trattava in sostanza di un ritorno al passato, ma un tentativo di comprensione del presente per immaginare e costruire il futuro.

Ora appare chiaro quale sia lo scopo del fucino nel campo culturale: non deve rigettare a priori quanto questi secoli hanno prodotto. Non deve appellarsi alla scolastica della Controriforma e giù di lì, saltando a piè pari duecento anni in cui il pensiero umano ha lavorato e prodotto. L'ideale nostro è quello di risalire alla verità della scolastica attraverso questi due secoli, di prendere quello che di vero in questo tempo è stato prodotto […]. Inoltre dobbiamo essere anche uomini del nostro secolo: dobbiamo cogliere e vagliare le varie manifestazioni della vita dal campo filosofico a quello economico-sociale.11

La forte carica identitaria ed ideale che il progetto della Nuova Cristianità portava con sé, dunque, non doveva essere e non fu da ostacolo all'affermazione all'interno di specifici settori del movimento cattolico italiano di un atteggiamento “laico” nei confronti delle dinamiche economiche e delle “esigenze” dello sviluppo12. Questo atteggiamento è fondamentale per comprendere quella capacità di adattamento delle riflessioni teoriche alle reali condizioni dell'economia italiana nel secondo dopoguerra, da cui derivò un atteggiamento sì cauto, ma per molti versi pragmatico alle riforme. Certo questi adattamenti non mancarono di causare dei dissidi all'interno del partito democristiano, dissidi la cui natura non era solo ed esclusivamente politica. Ma è altrettanto corretto vedere in questa capacità di adattamento uno dei motivi del successo della politica della Democrazia Cristiana, la quale si trovava ad operare in un contesto economico le cui dinamiche spesso erano tutt'altro che coincidenti con le previsioni della teoria economica, fosse essa

10 Ibidem, p. 16.

11 Articolo di Azione Fucina del 23 marzo 1930, in Maria Crsitina Giuntella, I fatti del 1931 e la

formazione della «seconda generazione», in Pietro Scoppola, Francesco Traniello (a cura di), I cattolici tra fascismo e democrazia, Bologna, Il mulino, 1975, pp. 204-205. Cfr. Maria Cristina

Giuntella, Influenze culturali sui movimenti intellettuali, in Maria Cristina Giuntella, Renato Moro, Dalla Fuci degli anni '30 verso la nuova democrazia, Roma, AVE, 1991, pp. 9-30. 12 “Esigenze intrinseche allo sviluppo economico ed esigenze etiche dunque sembrano saldarsi nel

mettere in evidenza la necessità di superare il capitalismo classico e avviare la nascita di un nuovo ordine economico più efficiente e al tempo stesso più giusto”. A. Giovagnoli, Le

quella di orientamento liberista o quella più prettamente keynesiana13.

Questa sorta di approccio “laico” ai problemi dello sviluppo non deve tuttavia farci dimenticare i limiti, soprattutto in termini di “portata pratica”, del dibattito sulla trasformazione dell'economia che il movimento cattolico affrontò nel periodo bellico. Se da una parte, infatti, è utile sottolineare le novità di quel dibattito, dall'altra è quanto mai doveroso indicare che «anche in campo economico-sociale [si debba parlare] di un indirizzo e di un proposito che solo per gradi giunse ad assumere il carattere di una definita volontà politica» 14.

2. Il problema dell'organizzazione nel movimento cattolico italiano nell'Italia fascista

Interrogarsi sul perché della difficoltà di trasformare idee, propositi ed orientamenti in un preciso e fattibile programma di azione politica significa in sostanza porsi in qualche modo il problema dell'organizzazione. Ponendosi in una prospettiva comparata rispetto al caso francese, la carenza dell'elemento organizzativo risulta essere un dato che può fornire indicazioni interessanti per comprendere alcune delle debolezze del partito democristiano nel secondo dopoguerra. A bene vedere il problema dell'organizzazione non riguardava esclusivamente quel soggetto che in una democrazia moderna ha il compito di trasformare gli orientamenti in concrete proposte politiche, ovvero il partito, ma interessava l'intera struttura del movimento cattolico italiano.

Come si è avuto modo di vedere, la trasformazione secondo la linea della specializzazione dell'Action Catholique de Jeunesse Française contribuì in maniera notevole ad aprire il mondo cattolico francese ad una seria riflessione

13 Tale specificità del contesto italiano era ben presente nelle visioni di personaggi legati al mondo cattolico quali Pasquale Saraceno, che fin da subito si oppose per esempio ad una linea economica keynesiana, ritenendola inadatta alla situazione italiana, caratterizzata da una disoccupazione strutturale e non congiunturale. Si veda Pasquale Saraceno, Intervista sulla

ricostruzione, 1943-1953, [a cura di Lucio Villari], Roma Bari, Laterza, 1977.

sulla natura e sul ruolo delle classi sociali nel mondo contemporaneo15. L'Azione Cattolica Italiana non era completamente estranea a questo tentativo di specializzazione. A metà degli anni Trenta, come sottolinea Renato Moro, il problema organizzativo divenne un problema di centrale importanza all'interno del movimento:

...al modello tradizionale prevalente, […] che privilegiava una struttura accentrata con carattere accentuatamente interclassista […], venne ad affiancarsi […] una seconda tendenza, principalmente rappresentata dalla FUCI do G.B. Montini e I. Righetti, che intendeva spingere verso strutture «specializzate» che si rivolgessero, secondo l'esempio straniero ed in particolare francese, a determinati ambienti sociali, anche con metodi propri e peculiari e con una maggiore valorizzazione dell'azione dei laici”16.

Il successo della FUCI e del Movimento dei Laureati, come pure l'esplosione dei movimenti specializzati creati nell'immediato dopoguerra, non risolveva tuttavia il problema del rapporto fra il movimento cattolico e le classi sociali. La difficoltà di affrontare tale questione secondo quella stessa novità che interessava il dibattito sulle riforme economiche era riscontrabile anche nella Democrazia Cristiana, all'interno della quale si ripropose il classico tema dell'interclassismo, senza che questo portasse ad una nuova visione non solo dei rapporti sociali, ma anche delle relazioni fra il partito e i vari segmenti della società italiana.

Nel periodo del lento ritorno dell'Italia alla democrazia, dunque, il nascente partito democristiano poteva contare su due elementi di forza estremamente importanti: in primo luogo la ricchezza del dibattito sulla riforma dell'economia (e in qualche modo anche dello Stato) realizzatosi all'interno del movimento cattolico, in

15 Con la nascita della JOC (Jeunesse Ouvrière Chrétienne) alla fine degli anni Venti, l'Aziona Cattolica Francese intraprese un cammino di differenziazione delle strutture interne finalizzato alla creazione di “sezioni” specifiche per la gioventù delle varie classi sociali, con l'obiettivo essenziale di permettere una maggiore penetrazione sociale dell'organizzazione cattolica e una sua più completa “democratizzazione”. V. Infra, pp. 51-53.

16 Renato Moro, Azione Cattolica Italiana, in Francesco Traniello, Giorgio Campanini (a cura di),

Dizionario storico del movimento cattolico in Italia, 1860-1980, 1.2, I fatti e le idee, Casale

Monferrato, Marietti, 1981, pp. 185-186. D'altra parte il “problema organizzativo” era per molti versi il riflesso di quel “distacco dal mondo” che caratterizzò l'orientamento dei gruppi intellettuali di Azione Cattolica in Italia. Cfr. Agostino Giovagnoli, Le premesse della

secondo luogo la presenza di una nuova élite cattolica, che unita non senza problemi alla vecchia guardia di provenienza popolare, poteva garantire al partito un inserimento nel dibattito generale sulle forme che il nuovo stato doveva assumere17. Al tempo stesso permanevano alcune difficoltà di fondo. La lunga assenza dalla politica attiva non poteva non avere delle conseguenza sulla capacità del partito di sintetizzare quelli che erano degli orientamenti di carattere prevalentemente intellettuale. Il successo elettorale della Democrazia Cristiana, come pure il crescente numero di militanti che il partito riuscì a raccogliere intorno al suo progetto, non erano elementi sufficienti a farne un partito di massa in grado di mettere in atto un meccanismo coerente fra la fase ideale e programmatica e quella successiva delle riforme. E' questo forse uno dei motivi tali per cui la Democrazia Cristiana, se da una parte riuscì a dare una forte impronta alla Costituzione della Repubblica Italiana, in particolar modo nella parte relativa ai principi del nuovo stato, dall'altra dovette in qualche modo “apprendere” ed esercitarsi nell'“arte” di governare. In questa ottica la famosa politica dei tre tempi non era in sostanza un semplice adattamento del partito democristiano ai condizionamenti strutturali dell'economia italiana, ma anche una risposta a quelli che erano precisi limiti interni allo stesso partito.

17 L'“apporto” del Partito Popolare alla DC in termini di personale politico fu estremamente rilevante: appartenevano alla “vecchia guardia” personalità quali Paolo Cappa, Umberto Tupini, Giovanni Gronchi, Attilio Piccioni, Mario Scelba, Antonio Segni, Adone Zoli e Giuseppe Cappi. Come sottolineato da Guido Formigoni, si trattava di una generazione profondamente segnata dalle esperienze del cattolicesimo sociale del primo Novecento, e il cui ruolo politico nell'Italia repubblicana fu marcato dalle esperienze acquisite nelle “battaglie più o meno

direttamente e apertamente compiute sul terreno della democrazia” sia durante il pontificato di

Pio X, sia al momento della formazione del Partito Popolare. Appartenevano invece alla variegata «seconda generazione», proveniente fondamentalmente dall'Azione Cattolica e dalla Fuci, personalità quali Aldo Moro, Mariano Rumor, Emilio Colombo, Oscar Luigi Scalfaro, Benigno Zaccagnini, Giuseppe Lazzati, Piero Malvestiti, nonché altre due importanti figure dal profilo politico alquanto particolare, come Guido Gonella e Giulio Andreotti. Guido Formigoni,

L'associazionismo cattolico e la formazione della classe politica in Italia, in Giovanni Orsina,

Gaetano Quagliariello (a cura di), La formazione della classe politica in Europa, 1945-1956, Manduria, P. Lacaita, 2000, pp. 273-280. V. Renato Moro, La formazione della classe dirigente

3. I programmi della Democrazia Cristiana fra giustizia e sicurezza sociale

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