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Lo sviluppo del welfare state nei decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale è stato caratterizzato da un'ampia partecipazione dei partiti socialisti alla definizione e implementazione di quelle politiche sociali che maggiormente hanno contribuito a delineare i caratteri essenziali dei vari sistemi di welfare1.

Il percorso attraverso cui i vari partiti di ispirazione socialista sono arrivati a diventare degli attori essenziali in tale processo di sviluppo non è stato affatto omogeneo nei vari paesi europei. Se la socialdemocrazia svedese o il Labour britannico sono stati fra i partiti all'avanguardia nel sostegno dato allo sviluppo di politiche sociali i cui destinatari appartenevano a gruppi socio-economici decisamente più ampi rispetto a quelli definiti dai primi interventi in campo sociale2, altri partiti socialisti dell'Europa continentale, ed in particolar modo quelli maggiormente caratterizzati dall'ideologia marxista, si sono caratterizzati per un supporto decisamente più cauto all'espansione delle politiche di welfare, evidenziando spesso una sorta di scarto fra il sostegno dato a livello parlamentare a tutta una serie di misure di carattere sociale e la rilevanza del welfare state nella definizione identitaria degli stessi partiti socialisti.

Le tappe storiche attraverso cui i vari partiti socialisti sono arrivati, con tempi e modi differenti, ad una sostanziale accettazione del welfare state come modello

1 Per una disamina generale del ruolo dei partiti socialisti nello sviluppo dello Stato Sociale nel secondo dopoguerra si veda Gianni Silei, Welfare state e socialdemocrazia: cultura, programmi

e realizzazioni in Europa occidentale dal 1945 ad oggi, Manduria, P. Lacaita, 2000; Donald

Sassoon, Cento anni di socialismo: la sinistra nell'Europa occidentale del XX secolo, Roma, Editori riuniti, 1997, pp. 133-189; Albert S. Lindemann, A history of European socialism, New Haven, London, Yale university press, 1983, pp, 340-351; Sheri E. Berman, The primacy of

politics: social democracy and the making of Europes twentieth century, Cambridge, Cambridge

university press, 2006, pp. 177-199; Alexander Hicks, Social democracy & welfare capitalism:

a century of income security politics, Ithaca, London, Cornell University Press, 1999.

2 Partendo dalle assicurazioni per gli operai dell'industria, l'estensione del welfare state ha coinvolto via via altri soggetti del mondo salariato, compresi gli impiegati dello Stato, per coinvolgere infine i lavoratori indipendenti in una prospettiva sempre più “universalistica”. Cfr. Gerhard A. Ritter, Storia dello stato sociale, cit., e Jens Alber, Dalla carità allo Stato sociale, Bologna, Il mulino, 1987.

istituzionale di gestione dei rapporti fra politica, economia e società coincidono in larga misura con quei momenti di trasformazione dei sistemi politici europei a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo. La partecipazione ai meccanismi di competizione partitica in età liberale, l'assunzione dei primi incarichi di governo nel periodo interbellico, la partecipazione intellettuale e pratica alla definizione di modelli e misure di carattere economico volti al superamento della grande crisi degli anni Trenta, furono tutti momenti essenziali nel processo di ridefinizione dei contorni dell'azione dei vari partiti socialisti europei, sia in relazione alla definizione del “programma” con cui tali partiti politici si presentava all'elettorato dei differenti sistemi nazionali, sia in relazione all'individuazione dei gruppi sociali rispetto ai quali i vari partiti socialisti intendevano porsi come intermediari della rappresentanza politica.

1. I Socialisti nella fase emergente dello Stato Sociale

La nascita della politica sociale in senso moderno, intesa pertanto come superamento del vecchio concetto di assistenza, si fa solitamente risalire all'introduzione delle assicurazioni obbligatorie per i lavoratori dell'industria da parte di Bismarck. La storiografia sul welfare state, in sintonia da quanto sostenuto dalla più generale storiografia sul sistema politico tedesco in età imperiale, ha più volte sottolineato le finalità antisocialiste che le misure adottate dallo statista prussiano contenevano3. Tale “riformismo conservatore”, tuttavia, non fu una pratica limitata all'impero tedesco. Così come sottolineato da Gerhard A. Ritter, lo sviluppo delle politiche sociali negli ultimi decenni del XIX secolo rispondeva in larga misura ad una esigenza di legittimazione delle élite nazionali, che proprio attraverso l'offerta di misure concrete volte a migliorare la condizione dei lavoratori dell'industria intendevano in qualche modo contenere e limitare il supporto che tali segmenti sociali potevano offrire al nascente movimento socialista4.

3 Cfr Gustavo Corni, Storia della Germania, Milano, Il saggiatore, 1999, pp. 67-74. 4 Gerhard A. Ritter, cit., pp. 61-85.

Tuttavia, la ricerca storica e politologica non ha mancato di mettere in evidenza come la risposta dei partiti socialisti a questa sorta di riformismo conservatore abbia notevolmente influito non tanto sulla definizione delle misure di politica sociale, quanto piuttosto sui tempi di intervento e più generalmente sul funzionamento del sistema politico nel suo complesso.

Senza la mediazione di processi di mobilitazione e di definizione sociale i problemi socio-economici non avrebbero avuto ripercussioni effettive sul piano della politica sociale. Ciò è dimostrato innanzitutto dal fatto che la fase emergente dell'assicurazione sociale corrisponde strettamente alla fase emergente del movimento operaio. Quasi nessun programma assicurativo fu introdotto prima della costituzione di un partito operaio e laddove tale costituzione avvenne in epoca precoce, vi fu anche precoce assicurazione sociale. Tuttavia, l'assicurazione sociale non rappresentò una risposta diretta alle rivendicazioni dei lavoratori, bensì uno strumento usato ai fini di legittimazione delle élite nazionali, preoccupate di integrare la classe operaia nella società borghese.5

Il procedere delle riforme sociali in età liberale, dunque, offre delle indicazione abbastanza precise sulle modalità di funzionamento dei sistemi politici nazionali, complessivamente investiti, anche se con misure e modalità differenti, dai problemi posti in essere dal processo di industrializzazione e dalla necessità di integrare il movimento operaio nel complesso delle relazioni politiche, sociali ed economiche.

Come suggerisce Peter Baldwin, al di là delle posizioni dei vari attori politici, ciò che risulta essere maggiormente interessante al fine di comprendere le modalità effettive di sviluppo dello Stato Sociale sono proprio le modalità di interazione fra i vari soggetti, nonché i processi di “aggiustamento” che da tale interazione potevano derivare6. Due esempi possono meglio chiarificare questo concetto. Il primo si riferisce a quel momento di espansione delle politiche sociali che

5 Jens Alber, Le origini del welfare state: teorie, ipotesi ed analisi empirica, «Rivista Italiana di Scienza Politica», XIII, 3, dicembre 1983, p. 420.

riguardò una serie di Paesi europei nel primo decennio del XX secolo. Che fosse la Francia dei governi radicali, il Regno Unito delle coalizioni lib-lab o la stessa Italia dei governi Zanardelli-Giolitti, le riforme sociali introdotte in questo periodo, pur mantenendo per molti versi l'obiettivo della legittimazione delle élite al potere, si caratterizzarono per un tentativo più genuino di integrazione del movimento operaio, non solo attraverso la concessione di “benefici”, ma soprattutto attraverso il riconoscimento degli interlocutori “istituzionali” del movimento operaio stesso, fossero essi i sindacati o i partiti operai e socialisti7. Il secondo esempio, invece, si riferisce proprio all'atteggiamento assunto dai “rappresentanti” del movimento operaio. Limitatamente al periodo appena preso in considerazione, se da una parte è vero che «i movimenti […] di ispirazione socialista […] non riuscirono a prendere parte alle scelte di politica interna se non in modo marginale», è altrettanto vero che soprattutto il favore con cui una parte del movimento operaio vedeva le riforme sociali richiedeva una sorta di aggiornamento delle proposte dei partiti socialisti e degli stessi sindacati: per esempio, nel biennio 1911-1912, tanto la CGdL quanto il Partito Socialista Italiano arrivarono ad integrare nei rispettivi programmi il principio dell'obbligatorietà dell'assicurazione sociale, superando l'ostilità a tale principio proprio in corrispondenza con una delle ultime grandi riforme del periodo giolittiano, ovvero la creazione dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni.8

2. Stato Sociale e riformismo nel primo dopoguerra

Fu tuttavia la cesura rappresentata dalla Grande Guerra e dalla rivoluzione bolscevica a costringere i partiti socialisti europei ad una più chiara definizione del proprio orientamento politico e delle proprie scelte programmatiche, una esigenza che la crisi economica degli anni Trenta, in un contesto generale di arretramento della democrazia, rese ulteriormente più drammatico.

7 Cfr. Giulia Guazzaloca, Fine secolo: gli intellettuali italiani e inglesi e la crisi tra Otto e

Novecento, Bologna, Il mulino, 2004; Madeleine Rebérioux, La République radicale?,

1898-1914, Paris, Éditions du seuil, 1975, pp. 3-41.

Al fine della definizione dell'appoggio dei partiti socialisti allo sviluppo complessivo del welfare state, sia in merito alla specificazione delle varie politiche sociali, sia in relazione ai destinatari di tali politiche, il periodo interbellico risulta essere estremamente rilevante. La ridefinizione del programma dei partiti socialisti, infatti, finiva per incidere su degli elementi essenziali su cui si basava l'ideologia e l'identità dei partiti stessi. Il primo di questi elementi si riferisce al rapporto fra movimento operaio e futuro del capitalismo e della società borghese. Il dibattito fra riformismo e massimalismo, esasperato dalla “scelta di campo” che la rivoluzione bolscevica portò con sé, rese a rendere più netta la frattura fra i socialisti di vario orientamento, frattura resa definitiva dalla nascita dei partiti comunisti e della III Internazionale9. Per le frazioni del movimento socialista che optarono per la scelta riformista si rendeva in qualche modo necessario un graduale processo di adeguamento programmatico che individuava nelle riforme il vero obiettivo dell'azione socialista. In questo contesto le riforme sociali, con il passaggio dalle assicurazioni per i lavoratori alle cosiddette assicurazioni sociali, volte cioè ad estendere alla famiglia del lavoratore una serie di diritti e prestazioni sociali10, rappresentarono un terreno pratico attraverso cui i partiti socialisti potettero partecipare alla ridefinizione del confini dello Stato Sociale, dando concretezza a quell'orientamento riformista di cui essi stessi volevano essere portatori. Tuttavia, è bene sottolineare come tale orientamento non risolveva una volta per tutte il rapporto fra movimento socialista e capitalismo. In genere i movimenti socialisti optarono per una sorta di bilanciamento fra le esigenze ideologiche ed identitarie e quelle legate alla partecipazione a coalizione di governo o più in generale ai meccanismi della competizione partitica. Il caso britannico è forse quello più emblematico di tale esigenza compensatrice. Fra i vari partiti europei di ispirazione socialista, il Labour era probabilmente quello che più si avvicinava al modello di partito riformista. Questo non gli impediva di inserire nel nuovo statuto adottato nel 1918 la famosa clausola 4, quella che prevedeva per l'appunto la socializzazione dei mezzi di produzione, vero e proprio

9 Cfr. Alain Bergounioux, Bernard Manin, La social-démocratie ou le compromis, Paris, Presses universitaires de France, 1979, pp. 106-113.

10 Oltre a questo fondamentale passaggio, il periodo fra le due guerre si caratterizzò per i primi schemi assicurativi contro la disoccupazione. Cfr. Gerhard A. Ritter, cit., pp. 108-111.

grimaldello, secondo l'ideologia marxista, per la trasformazione e il superamento del sistema capitalistico11.

Il secondo elemento ideologico ed identitario che in qualche modo veniva ad essere toccato dall'affermazione dell'approccio riformista in senso ad alcune frazioni del movimento socialista e dal conseguente riorientamento programmatico era quello relativo all'idea di partito socialista come intermediario della rappresentanza politica della classe operaia.

Se la nascita dei partiti comunisti sottraeva in qualche modo ai partiti socialisti il “monopolio” della rappresentanza della classe operaia, la partecipazione ai meccanismi della competizione partitica nel vari contesti nazionali rendeva per certi versi opportuno un dibattito sulle eventuali modalità di avvicinamenti ad altri segmenti sociali, ed in particolar modo ad alcuni settori delle classi medie. Tale avvicinamento, in parte già realizzato attraverso la partecipazione a coalizioni di governo in cui erano presenti formazioni politiche estranee al movimento socialista, poteva tuttavia realizzarsi anche in maniera “diretta” attraverso il tentativo di inclusione di differenti segmenti sociali all'interno degli stessi partiti socialisti. In questo modo si veniva ad intaccare un altro elemento centrale dell'ideologia marxista, quello della lotta di classe. Se da una parte il riferimento a questo concetto rimaneva un elemento importante dal punto di vista dell'identità dei partiti socialisti, specie in contesto nel quale la “concorrenza” comunista tendeva a sottolineare le “derive” dei partiti riformisti, dall'altra le dinamiche politiche che interessarono il continente europeo nel corso degli anni Trenta, quasi a conferma di quegli eventi già verificatisi in Italia con l'avvento del Fascismo, rendevano davvero urgente, agli occhi di alcuni settori del movimento operaio, un discorso più schietto sulla opportunità di aprirsi al confronto con le classi medie, al fine di evitare pericolose derive autoritarie12.

11 Sul Labourismo britannico si veda Andrew Thorpe, A history of the British Labour Party, Houndmills, Palgrave Macmillan, 2008; Paul Adelman, The rise of the Labour Party,

1880-1945, London, New York, Longman, 1996; Steven Fielding, The Labour Party: Socialism and society since 1951, Manchester, New York, Manchester University Press, 1997; Luciano

Marrocu, Laburismo e trade unions: l'evoluzione del movimento operaio britannico, 1867 –

1926, Bari, De Donato, 1981.

12 Sul rapporto fra socialismo, democrazia e classi medie nel dibattito degli anni Trenta si veda Mariuccia Salvati, Da Berlino a New York, cit., Milano, Mondadori, 2000.

3. I socialisti nella Crisi: fra modelli economici e gestione della democrazia

Nel corso degli anni Trenta, per il movimento socialista la necessità di approntare delle soluzioni alla crisi economica, anche al fine di evitare delle derive autoritarie, finì per produrre delle dinamiche i cui elementi di novità si presentano per molti versi come una sorta di anticipazione di ciò che si sarebbe prospettato alla fine del secondo conflitto mondiale13.

E' stato Mario Telò in particolar modo a sottolineare l'importanza di tali elementi di novità:

“ […] occorre rilevare che, in almeno tre […] Paesi […] (Gran Bretagna, Belgio e Svezia), i problemi del nesso tra la difesa della democrazia dal pericolo autoritario e l'innovazione economica e istituzionale, vengono impostati su un terreno diverso, storicamente più avanzato, e largamente anticipatore dei termini della lotta politica del secondo dopo guerra. E' già negli anni Trenta che, sul piano politico oltreché culturale, si delineano le fondamentali alternative dello sviluppo economico ed istituzionale delle democrazie uscite dalla crisi dello Stato liberale.”14

Due elementi in particolare risultano essere meritevoli di una specifica considerazione. Il primo elemento si riferisce alla definizione di strumenti di intervento pubblico nell'economia attraverso l'elaborazione di politiche economiche i cui caratteri andavano sostanzialmente al di là dei rimedi fin lì sperimentati nell'ambito dell'economia liberoscambista.

Le difficoltà economiche che erano derivate dal primo conflitto bellico e dalla successiva riconversione erano stati sostanzialmente affrontati con gli strumenti tipici della teoria economica classica. Il ritorno al Gold Standard, pur nella sua versione modificata, rappresentava in qualche modo il raggiungimento di

13 Sulla continuità del “modello corporativo” di gestione del conflitto sociale si veda Charles S. Maier, Le condizioni preliminari del corporativismo, in John H. Goldthorpe (a cura di), Ordine

e conflitto nel capitalismo moderno: studi su economia e politica delle nazioni dell'Europa occidentale, Bologna, Il mulino, 1989, pp. 73-110.

14 Mario Telò, La socialdemocrazia europea nella crisi degli anni Trenta, Milano, F. Angeli, 1985, p. 20.

quell'equilibrio che Charles S. Maier emblematicamente riassume nell'espressione della Ricostruzione dell'Europa borghese15. Rispetto a quel tentativo, le misure ideate ed in parte adottate in specifici contesti nazionali nel corso degli anni Trenta rappresentavano importanti novità, basate in particolar modo sul concetto di misure anti-cicliche piuttosto che sull'adozione di strumenti di carattere essenzialmente monetario con effetti deflazionistici. Era sostanzialmente l'idea del Piano economico, che per i partiti socialisti rappresentava non solo una novità rispetto agli strumenti dell'economia classica, ma anche una grande cesura rispetto ad alcuni tratti essenziali dell'ideologia marxista. E' significativo notare come entrambi gli elementi – cultura economica classica e ideologia marxista – entravano nel “bagaglio culturale” di una parte consistente della classe dirigente dei vari partiti socialisti, specie di quella con uno spiccato orientamento all'adozione di incarichi di governo16. I teorici del planismo, invece, si presentavano come portori di un progetto complessivo di gestione dell'economia contemporaneamente alternativo al modello liberoscambista come pure a quello del marxismo rivoluzionario. Del primo modello i fautori del planismo mettevano in discussione gli automatismi del processo economico, individuando, non diversamente da quanto andava sostenendo Keynes nello stesso periodo, nella differenza fra produzione e consumo un motivo essenziale delle crisi economiche, superabili attraverso l'adozione di politiche anti-cicliche. Proprio tale soluzione, d'altra parte, è utile a sottolineare la distanza rispetto al socialismo rivoluzionario. In particolare:

L'idea di un processo rivoluzionario permanente, che si configuri come 15 Charles S. Maier, La rifondazione dell'Europa borghese, cit.

16 “Il socialismo planista nasce e si sviluppa quasi ovunque sulla base di un'analisi critica e di una lotta politica contro la subalternità all'ortodossia economica ancora dominante, che caratterizza la maggioranza dei partiti socialdemocratici europei. Se si considera che Rudolf Hilferding mostra una sostanziale accondiscendenza verso la politica deflazionistica del governo Brüning […]; che il primo ministro inglese McDonald nel 1929, in nome della tutela del valore della sterlina, determina la scissione del partito laburista britannico […]; che infine Léon Blum nel 1937-38 sacrifica alla parità del bilancio e al liberoscambismo i risultati acquisiti sul piano sociale e politico dal governo del fronte popolare”. M. Telò, La socialdemocrazia europea nella

crisi degli anni Trenta, cit., p. 69. Cfr. Donald Sassoon, Cento anni di socialismo, cit., pp.

69-94; Sheri E. Berman, The primacy of politics, cit., pp. 96-124. Sulle “dimensione internazionale” della socialdemocrazia in Europa nel periodo interbellico si veda Leonardo Rapone, La socialdemocrazia europea tra le due guerre: dall'organizzazione della pace alla

rivoluzione mondiale e come immediata successione di rivoluzione democratica e socialista, viene sostituita, in primo luogo, da un'accentuazione della scansione nazionale, e, in secondo luogo, da una definizione delle tappe intermedie e transitorie e della loro forma economica e istituzionale.17

Se l'idea del piano economico rappresentava, dal punto di vista degli strumenti di gestione dell'economia nazionale, la prima grande novità introdotta dalla riflessione dei partiti socialisti nel corso degli anni Trenta, la seconda riguardava più da vicino la definizione di strumenti istituzionali in grado di risolvere il problema dell'assunzione della decisione politica in un contesto caratterizzato da una pluralità di interessi. Il fallimento dello Stato liberale si era manifestato anche nella sua incapacità di dare risposta alle esigenze di rappresentanza di vasti segmenti sociali e degli interessi di cui essi erano portatori. Il riconoscimento dell'esistenza di una pluralità di interessi, al di là della dicotomia marxista fra capitalisti e proletari, rappresentava per il movimento socialista degli anni Trenta un ulteriore banco di prova in termini teorici e pratici.18 In tale contesto il riferimento alle classi medie rivestiva un'importanza del tutto particolare. La crescita numerica dei nuovi ceti medi, così come il permanere di ampi settori del ceto medio tradizionale, si prestavano ad interpretazioni teoriche tutt'altro che omogenee19. Se per i socialisti rivoluzionari il rapporto con i ceti medi si riduceva

17 M. Telò, La socialdemocrazia europea nella crisi degli anni Trenta, cit., p. 67.

18 “de Man [recognised] that socialists needed to rethink entirely their traditional appeals and relationships to social groups. In particular, he urged socialists to focus on cross-class cooperation, and adapr to the reality of nationalism”. Sheri E. Berman, The primacy of politics, cit., p. 116.

19 Sul mutamento del ceto medio fra il XIX e il XX secolo cfr. Jürgen Kocka, Heinz-Gerhard Haupt, Vecchie e nuove classi nell'Europa del XIX secolo, in Paul Bairoch, Eric J. Hobsbawm (a cura di), L'età contemporanea: secoli XIX – XX, Torino, G. Einaudi, 1996, pp. 676-750. Relativamente al caso italiano, nel periodo fra il 1921 e il 1936 il ceto medio impiegatizio passò dal 3,2 al 5% (9,8 nel 1951 e 13,1 nel 1961) della popolazione attiva, mentre il ceto medio autonomo (negli annuari dei censimenti definita “Piccola borghesia relativamente autonoma”) passò dal 47,3 al 47,1% (44,4 nel 1951 e 37,2 nel 1962) della popolazione attiva: il calo di quest'ultima categoria fu determinato dalla riduzione degli addetti all'agricoltura (coltivatori diretti: 37% nel 1921, 36,5 nel 1936, 30,3 nel 1951 e 21,6 nel 1962), mentre le categorie degli

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