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3. Possibili bersagli terapeutici

3.8 Dendrimeri

Una delle più recenti proposte nel trattamento delle malattie prioniche e delle altre malattie neurodegenerative, è la distruzione degli aggregati amiloidi delle proteine che vanno ad accumularsi al livello cerebrale causando neurotossicità.

Partendo dalla convinzione che le proteine mal ripiegate accumulate siano la principale causa di tossicità e di conseguente neurodegenerazione dei tessuti cerebrali, è logico pensare che gli approcci terapeutici devono essere sempre più mirati a cercare strategie efficaci nella distruzione di queste aggregati anomali. (Sorokina et al. 2016).

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Sulla base di ciò, le nuove tecniche di ingegneria molecolare dimostrano che molecole sintetiche presentano un effetto positivo nella disaggregazione delle placche amiloidi. (Lee

et al. 2014; Conejos-Sanchez et al. 2015).

Infatti, se si considerano le fibrille amiloidi come fonte costante di forme oligomeriche tossiche, una diminuzione delle proteine può costituire un fattore terapeutico.

È importante ricordare che i composti che promuovono la distruzione delle fibrille amiloidi non inducono la formazione delle forme oligomeriche libere, ma distruggono gli aggregati attraverso la formazione di un complesso. I composti studiati sono i polielettroliti, capaci di formare complessi proteina-polielettrolita, agendo in modo differente in base alle proprie caratteristiche. (Semenyuk et al. 2015).

L‘elettrolita agisce sia inibendo la formazione sia prevenendo la riaggregazione. (Muthuraj

et al. 2013; Ojha et al. 2013; Dwivedi et al. 2015).

Sfortunatamente con l‘uso degli elettroliti non si ottengono i risultati sperati, il successo è molto limitato a causa della loro dispersione in ambienti diversi delle macromolecole, inconveniente che non ritroviamo utilizzando i dendrimeri. (Sorokina et al. 2016).

I dendrimeri hanno la capacità di prevenire la formazione delle fibrille amiloidi in quanto combinano tutte le proprietà benefiche dei tradizionali polimeri con la loro ben definita forma e massa molecolare, infatti, grazie alla dimensione ridotta (nell‘ordine dei nanometri), possono interagire abilmente e specificatamente con le strutture biologiche e penetrare facilmente nei sistemi fisiologici. (Fréchet et al. 2001; Tomalia et al. 2005). Si classificano in macromolecole singole o in macromolecole con ramificazioni ripetute, simmetriche attorno ad un core centrale e con una forma sferica tridimensionale. (Sorokina

et al. 2016).

Sono macromolecole caratterizzate dal punto di vista strutturale da tre zone fondamentali: la prima è il ‗core‘ o centro iniziatore, vi è poi una parte intermedia che contiene tutte le ramificazioni secondarie originarie dal core e infine una zona più esterna, dove si trovano le strutture terminali che possono dare origine alle ramificazioni successive. Ogni zona, sebbene con modalità diversa, influenza pesantemente le proprietà chimico-fisiche e strutturali della classe dendrimerica.

Il ‗core‘ ha un‘importanza fondamentale nel caratterizzare la struttura finale, in particolare va ad influenzare la forma e le dimensioni del dendrimero. Il nucleo può essere costituito da un singolo atomo o da una molecola, può essere omogeneo con gli altri componenti

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oppure eterogeneo e può ospitare composti, per esempio atomi metallici, rivestendo funzioni specifiche.

La zona intermedia, denominata regione interna, è caratterizzata da un sistema simmetrico di ramificazioni. Ogni ramificazione successiva è detta generazione (GN).

Questa zona conferisce alla molecola sia proprietà fisiche sia chimiche peculiari, caratterizza la flessibilità dell‘intera molecola e influenza la presenza di volumi interni liberi disponibili ad ospitare altri composti. (Tomalia et al. 1990).

(Fig.15)

Figura 15 Dendrimeri. Esempio di una struttura dendrimerica; in rosso il core, in giallo le ramificazioni laterali e in blu le unità terminali.

La superficie dei dendrimeri non svolge solamente la funzione di protezione dei gruppi interni, ma può anche reagire, grazie ai suoi siti attivi, con reagenti esterni e solventi; inoltre si possono introdurre dei composti chimici che consentano ai dendrimeri stessi di svolgere determinate funzioni o di assumere determinate proprietà.

Esistono due diverse procedure per sintetizzare un dendrimero: la prima è denominata divergente, la seconda, sviluppata successivamente nel tempo, è definita convergente.

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Nella sintesi definita divergente si parte da una molecola polifunzionale, che viene fatta reagire con un'altra specie opportuna, in modo da formare le prime ramificazioni, dirette radialmente verso l'esterno. Partendo da quest'ultimo prodotto la reazione viene ripetuta per varie volte, cosicché la struttura si accresca gradualmente in dimensione. Al procedere dell'accrescimento, il numero di ramificazioni aumenta rapidamente. Al termine del processo di sintesi, il dendrimero possiede una massa molecolare dell'ordine di parecchie migliaia o decine di migliaia. Questa strategia di preparazione si chiama divergente perché procede verso l'esterno, partendo dal core del dendrimero e accrescendo la struttura

radialmente verso la periferia. Con questo metodo sono sintetizzati, per esempio, i dendrimeri detti PAMAM (PoliAMmidoAMmine). Nella sintesi definita convergente, invece, si segue il percorso inverso, muovendosi dalla periferia verso il core del

dendrimero. La sintesi parte dai frammenti che costituiranno le ramificazioni più esterne del polimero, cui si aggiungono via via frammenti dotati di un grado di ramificazione minore, fino a raggiungere il core.

La procedura divergente permette in genere di ottenere dendrimeri maggiormente puri, diminuendo la probabilità dell'insorgere di reazioni parallele non volute, che porterebbero a una serie di prodotti polimerici con strutture differenti. Le due strategie sintetiche vengono talvolta usate congiuntamente per costruire particolari architetture dendrimeriche. (Tomalia

et al. 1990).

Dopo i primi studi in vivo (Supattapone et al. 1999) fatti per evidenziare le potenzialità terapeutiche dei dendrimeri, dove si analizzano neuroblastomi infettati da prioni, esistono poche pubblicazioni e pochi studi dedicati all‘applicazione dei dendrimeri nella distruzione degli aggregati delle proteine prioniche. (Supattapone et al. 2001;

Klementieva et al. 2013).

Tuttavia, ad oggi, gli studi sperimentali si effettuano utilizzando solo due tipi di

dendrimeri: PAMAM e PPI, i quali presentano una struttura molto flessibile e sensibile ai cambiamenti ambientali. (Klementieva et al. 2013).

La carica, la densità di carica e la struttura nello spazio sono peculiarità dipendenti dal pH e dal solvente utilizzato; le catene, inoltre, di questi dendrimeri flessibili hanno la capacità di ripiegarsi, il che si traduce in cambiamenti nel numero di gruppi amminici carichi esposti al solvente e in modifiche nelle interazioni tra i dendrimeri e le proteine. A causa della prevalenza di interazioni di tipo elettrostatico, il massimo effetto del

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anti prioniche, indispensabile nel trattamento di queste patologie, è da ricercarsi nei gruppi amminici terminali. Gli studi dimostrano come questi siti siano pH dipendenti.

(Klajnert et al. 2006; Giehm et al. 2008).

Alla luce di ciò, i primi tentativi sperimentali si conducono con dendrimeri cationici contenenti piridilfenilene, sintetizzati in laboratorio e testati sul processo di accumulo di proteina PrP nelle pecore. (Shifrina et al. 2009).

L‘interazione tra i dendrimeri e i corpi inclusivi di PrP (IB) è fornita dalle porzioni positive di piridinio (acido coniugato cationico di piridina) dei dendrimeri piridilfenilenici , in quanto le piridine quaternarie garantiscono una costanza della carica positiva,

indipendentemente dal pH.

Questo è molto vantaggioso perché permette l‘interazione a diversi pH con proteine aventi differente punto isoelettrico. (Sorokina et al. 2016). Questo studio evidenzia che l‘utilizzo sperimentale dei dendrimeri cationici piridilfenilenici con differenti pesi molecolari (ovvero dendrimeri di seconda, terza e quarta generazione) e quindi diverse dimensioni, costituiscono agenti efficaci per bloccare l‘accumulo e l‘aggregazione delle proteine amiloidi. La rottura degli aggregati di PrP si ottiene efficacemente a pH fisiologico di 7.5 per tutte le generazioni di dendrimeri studiate. Si osserva anche che le piridine quaternarie si possono utilizzare, invece, in un ampio intervallo di pH, garantendo sempre il medesimo effetto sull‘aggregato proteico.

I risultati suggeriscono che le caratteristiche strutturali del dendrimeri, come ad esempio la densità di carica e le dimensioni, giocano un ruolo importante nella loro capacità di eliminare gli aggregati delle proteine prioniche.

I dati attuali dimostrano, quindi, il potenziale impiego dei dendrimeri come nuovi agenti nella cura non solo delle malattie prioniche, ma anche delle malattie neurodegenerative. (Shifrina et al. 2009).

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