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meccanismi molecolari e bersagli terapeutici nella terapia delle malattie prioniche

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DIPARTIMENTO DI FARMACIA

Corso di Laurea Magistrale in Farmacia

TESI DI LAUREA

MECCANISMI MOLECOLARI E BERSAGLI TERAPEUTICI NELLA

TERAPIA

DELLE MALATTIE PRIONICHE

Relatore:

Prof.ssa Maria Cristina Breschi

Candidata: Sofia Cabano

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A mia madre e a mio padre,

per avermi insegnato a non arrendermi mai.

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INDICE

INDICE ... 3 1. Introduzione ... 4 1.1 I prioni ... 11 1.2 Trasmissibilità ... 14 1.3 Genetica ... 18 1.4 Neurotossicità ... 23 1.5 Meccanismi di neurotossicità ... 24

1.6 UPR nelle malattie prioniche ... 25

1.7 Neuroprotezione ... 27

2. Le malattie neurodegenerative ... 31

2.1 Relazione tra le patologie neurodegenerative e le malattie prioniche ... 34

3. Possibili bersagli terapeutici ... 36

3.1 Immunoterapie ... 38

3.2 Immunizzazione passiva ... 39

3.3 Immunizzazione attiva ... 40

3.4 Vaccini anticorpali ... 42

3.5 Vaccini DC ... 43

3.6 Trasferimento adottivo di cellule CD4+ ... 48

3.7 Proteine eterologhe ... 50

3.8 Dendrimeri ... 55

4. La disomeostasi dei metalli nelle malattie neurodegenerative ... 60

4.1 La dieta mediterranea nella prevenzione delle malattie prioniche ... 65

5. Conclusioni ... 69

Glossario ... 72

Bibliografia ... 77

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1. Introduzione

Le encefalopatie trasmissibili spongiformi (EST), o malattie da prioni (così chiamate dal nome dell‘agente causale) comprendono una serie di disordini neurologici caratterizzati da perdita neuronale, degenerazione spongiforme e attivazione di astrociti o microglia: il loro periodo di incubazione è sempre molto lungo (anni) e l‘esito fatale. (Fig.1)

Con il supporto degli esami di diagnostica (risonanza magnetica, elettroencefalogramma e dosaggio della proteina Tau e della proteina 14.3.3. nel liquor) si nota, in diverse aree dell‘encefalo in base al tipo di malattia prionica, la presenza di caratteristici buchi larghi nei quali vi è racchiuso del liquido, da qui il nome di encefalopatia spongiforme, ovvero a forma di spugna. Si evidenzia una vacuolizzazione all‘interno delle cellule neuronali e depositi intra-extra cellulari di proteina prionica. (Zerr et al. 2000).

Figura 1 Microfoto di sezione di cervello di bovino affetto da BSE. La presenza di vacuoli in questa

sezione del tessuto infetto, come microscopici ―buchi‖ nella materia grigia, fa assumere alla sezione in esame, il caratteristico aspetto di spugna, tipico di queste malattie.

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Sono patologie progressive che portano ad una neurodegenerazione fatale (i pazienti muoiono ad un anno dalla diagnosi della malattia), sono più frequenti negli animali e rare negli uomini, dove causano come sintomo primario demenza accompagnata da disfunzioni motorie, atassia cerebellare, mioclono, segni piramidali ed extrapiramidali.

Negli uomini i disordini neurologici prionici comprendono:

 Kuru

 Malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD)

 Nuova Variante della malattia Creutzfeldt-Jakob (v CDJ)

 Malattia di Gerstmann- Straussler- Scherinker (GSS)

 Insonnia Familiare Fatale (FFI).

(Tab.1)

Le malattie dei prioni vengono classificate in:

1. Ereditarie (15%)

 Malattia di Gerstmann-Stäussler-Scheinker (GSS)

 Insonnia Familiare Fatale (FFI) 2. Sporadiche (85%)

 Malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD, è la più diffusa nell‘uomo) e nuova variante (vCJD)

3. Iatrogeniche o acquisite

Tutte presentano caratteristiche istopatologiche comuni:

• Vacuolizzazione spongiforme del SNC. • Astrocitosi (proliferazione di cellule gliali).

• Deposito e accumulo di amiloidi che contengono la proteina prionica PrP. • Perdita di neuroni.

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Nell‘uomo le malattie da prioni hanno tre cause distinte:

 Autosomica dominante (come risultato della mutazione nella codificazione del gene di PrP, ovvero il gene PRNP).

 Occorrenza sporadica (CJD sporadica, per esempio, situazione molto più comune delle forme ereditarie).

 Acquisizione attraverso l‘esposizione ambientale a prioni: tramite procedure mediche o ingestione di cibo infetto. (Collige et al. 2016).

In passato, la trasmissione della malattia era anche collegata a fenomeni di cannibalismo. La storia menziona il primo caso di malattia prionica umana nel 1950, dove si è verificata un‘alta incidenza, circa il 20%, di malattia Kuru nella tribù Fore in Nuova Guinea causata da proprio da questo fenomeno. Lo sviluppo della malattia è andato poi progressivamente diminuendo, sino a scomparire. (Burchell et al. 2016).

Negli animali, invece, le malattie prioniche includono:

 Malattia devastante cronica (CWD) nelle alci e nei cervi.

 Scrapie nelle pecore e nelle capre.

 Encefalopatia spongiforme bovina (BSE) nel bestiame (meglio nota come ―mucca pazza‖).

Le malattie prioniche, solitamente, si verificano sporadicamente con un‘incidenza annuale in tutto il mondo di circa 1/1 milione e la sintomatologia si sviluppa dopo mesi o anni dall‘esposizione.

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Figura 2 Aree del cervello coinvolte nelle malattie prioniche.

Le lesioni della CJD e della vCJD sono localizzate a livello della corteccia celebrale, mentre quelle della GSS e della Kuru sono nel cervelletto. FFI è localizzata nel talamo e la BSE nel tronco encefalico.

La Creutzfeldt-Jakob (CJD) colpisce tipicamente i soggetti > 40 anni (in media soggetti intorno ai 60 anni).

Si verifica in tutto il mondo; l'incidenza è più alta tra gli ebrei e nord africani. La maggior parte dei casi sono sporadici, ma tra il 5 e il 15% sono familiari, con trasmissione

autosomica dominante. Nella forma familiare, l'età d'esordio è più precoce e la durata della malattia è più lunga.

La CJD può essere trasmessa iatrogenicamente (per esempio, dopo trapianti corneali o durali da cadaveri, con l'uso di elettrodi intracerebrali stereotassici oppure per l'utilizzo dell‘ormone della crescita preparato da ipofisi umane).

La vCJD (nuova variante della Creutzfeldt-Jakob) è più frequente in Gran

Bretagna; si sviluppa in un età media più bassa (< 30 anni) rispetto la CJD sporadica e le sue lesioni si localizzano nella corteccia cerebrale.

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All'inizio degli anni '80, a causa delle leggi meno gravi per il processamento dei prodotti di origine animale, si introducono, nel mangime per bovini, dei tessuti provenienti da pecore infettate da scrapie. Si sviluppa, così, l'encefalopatia spongiforme bovina, meglio

conosciuto come morbo della mucca pazza. Alcuni soggetti che si sono nutriti di carni provenienti da bestiame infetto, sviluppano, quindi, la vCJD. Siccome la durata

dell'incubazione dell'encefalopatia spongiforme bovina è lunga, una connessione tra la malattia e mangimi contaminati non è riconosciuta nel Regno Unito fino a quando l'encefalopatia spongiforme bovina diventa un'epidemia vera e propria, controllata successivamente con la macellazione di massa del bestiame. Nel Regno Unito, il numero annuale di casi di vCJD a partire dal 1995 ha raggiunto un picco di 28 nel 2000, e poi ha subito una costante diminuzione, con solo 5 casi/anno segnalati tra il 2005 e il 2007 e solo 1 caso nel 2008; a partire dal dicembre 2008, il numero totale dei casi è pari a 167. Tuttavia, nel 2006, 2 casi su 3 si ricollegano alle trasfusioni di sangue. Non è chiaro se esiste un gruppo di persone che non manifestano sintomi, nonostante abbiano ricevuto trasfusioni di sangue, che quindi potrebbero essere a rischio per lo sviluppo di vCJD. Sebbene la vCJD sia limitata al Regno Unito e all'Europa, l'encefalopatia spongiforme bovina si riscontra in un piccolo numero di bovini del Nord America.

Per quanto riguarda la sintomatologia, circa il 70% dei pazienti si presenta con perdita di memoria e confusione, che infine si riscontra in tutti i pazienti; il 15-20% presenta incoordinazione e atassia, che spesso si sviluppano nelle fasi precoci della malattia. Il mioclono provocato da rumore o da altri stimoli sensitivi (mioclono riflesso) spesso si sviluppa a partire dagli stadi intermedi e permane fino agli stadi avanzati della malattia. Nonostante la demenza, l'atassia e il mioclono siano i sintomi più caratteristici, altre anomalie neurologiche possono verificarsi come per esempio allucinazioni, convulsioni, neuropatie, vari disturbi motori, inoltre sono frequenti anche disturbi oculari (come difetti del campo visivo, diplopia, diminuzione od offuscamento della visione, agnosia visiva). ll decesso di solito si verifica dopo 6-12 mesi, in genere per polmonite. L'aspettativa di vita è più lunga nel caso della vCJD (in media 18 mesi).

La diagnosi può essere difficile soprattutto perché le conclusioni si sviluppano nel tempo, infatti in molti casi i sintomi precedono i risultati degli esami diagnostici. La RM

(risonanza magnetica) può mostrare atrofia cerebrale. La RM mostra frequentemente anomalie nei gangli basali e nella corteccia. Il LCR (prelievo del liquor) è tipicamente normale ma viene spesso individuata la caratteristica proteina 14-3-3. L'EEG

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(elettroencefalogramma) può mostrare caratteristiche onde periodiche aguzze. Di solito non è necessaria la biopsia cerebrale.

La Gerstmann-Stäussler-Scheinker (GSS) si verifica in tutto il mondo ed è simile, ma circa 100 volte meno frequente, rispetto alla CJD.

Essa insorge in età più giovane (40 contro 60 anni) e l'aspettativa di vita media è più lunga (5 anni contro 6 mesi), le lesioni si concentrano maggiormente nel cervelletto, come nel caso del Kuru.

I pazienti presentano disfunzione cerebellare con andatura incerta, disartria e nistagmo. Sono anche frequenti le paralisi dello sguardo, sordità, demenza, parkinsonismo,

iporeflessia e risposte plantari in estensione. Il mioclono è molto meno frequente rispetto alla CJD.

La GSS deve essere presa in considerazione nei pazienti con sintomatologia caratteristica e un'anamnesi familiare positiva, in particolare se hanno ≤ 45 anni, inoltre i test genetici possono confermare la diagnosi.

L'insonnia familiare fatale (FFI) è una malattia molto rara, localizzata nella regione talamica, solitamente deriva da una mutazione autosomica dominante, ma sono identificati diversi casi sporadici. L'età media di insorgenza è 40 anni (tra la fine dei 30 e l'inizio dei 60 anni).

Comuni sintomi precoci sono difficoltà ad addormentarsi e intermittenti disfunzioni

motorie (come mioclono e paresi spastica). Questo stadio può durare per mesi progredendo verso un'insonnia grave, mioclono, iperattività simpatica (con conseguente ipertensione, tachicardia, ipertermia, sudorazione) e demenza. Il decesso si verifica in media dopo 13 mesi.

L'insonnia fatale deve essere presa in considerazione nei pazienti con disturbi motori, disturbi del sonno e un'anamnesi familiare positiva e i test genetici possono confermare la diagnosi. (Doria et al. 2001).

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Tabella 1 Classificazione delle malattie prioniche animali e umane e relativi meccanismi patogenetici

che caratterizzano le diverse tipologie di infezione. (Doria et al. 2001; elaborato personale)

Malattia da prioni Ospite Meccanismi patogenetici

Scrapie Pecora Infezione in pecore

geneticamente suscettibili

Encefalopatia Spongiforme

Bovina (BSE) Bovino Infezione mediante carne ed ossa contaminate da prioni

Malattia di Creutzfeldt-Jakob

(CJD) Uomo Infezione da ormone della crescita umano o strumenti chirurgici contaminati

Sindrome di

Gerstmann-Sträussler-Scheinker (GSS) Uomo Mutazioni del gene PrP

Kuru Uomo Infezione attraverso

cannibalismo rituale (popolazione indigena della Nuova Guinea)

Insonnia fatale familiare (FFI) Uomo Mutazioni del gene PrP

Variante della CJD (vCJD) Uomo Infezione attraverso consumo di carne e derivati bovini contaminati da BSE

È importante ricordare che in tutta queste patologie cerebrali sono degenerative,

progressive, mortali e incurabili e il denominatore comune è l‘agente eziologico il quale è da ricercare nei prioni.

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1.1 I prioni

I prioni devono il loro nome a Stanley Prusiner che nel 1982 conia il termine ―prion‖ acronimo di ―proteinaceus infective only particle‖, ovvero particella infettiva solamente proteica; infatti, con questa definizione, si intende un ipotetico agente infettivo non convenzionale. (Prusiner et al. 1982).

Si tratta di un isomero conformazionale di una glicoproteina normalmente espressa, soprattutto a livello neuronale, costituita da un dominio NH2 – T (sequenza ripetuta) e un

dominio COOH – T patogenetico che può strutturarsi in aggregati amiloidi proteasi resistenti.

Figura 3 Schema della struttura primaria della proteina prionica cellulare. La proteina prionica (PrPc) è costituita da 253 amminoacidi (aa). Presente un dominio N-terminale e un dominio C-terminale. Durante la maturazione di PrPc, l‘aa 22 N-terminale del peptide segnale viene rimosso insieme all‘aa 23 della sequenza segnale C-terminale per promuovere il legame di GPI all‘aa 231. La parte N-terminale possiede il sito formato da 5 ripetizioni di optameri, deputati al legame con il rame. Il C-terminale è altamente strutturato e possiede due siti di glicosilazione (Asn-181 e Asn-197) e due residui di cisteina (aa 179 e aa 214) che agiscono per formare un ponte disolfuro.

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Nella sua forma matura è costituita da circa 253 aminoacidi e si trova per lo più localizzata sulle membrane citoplasmatiche. Parte della proteina, però, dopo essere arrivata in superficie, torna ciclicamente all‘interno della cellula ove subisce un taglio ed un processo di maturazione in corrispondenza dei terminali carbossilico ed amminico, per essere poi ricondotta in superficie, e prevalentemente localizzata a livello di ancoraggio del glicosilfosfatidilinositolo (GPI) in un microdominio resistente ai solventi. Dopo l‘aggiunta del glicosilfosfatidilinositolo aSer-231 viene rimosso il peptide segnale N-terminale (amminoacido 22) e i residui 23 C-terminali.

I residui 179 e 214 sono collegati da un ponte disolfuro e Asn-181 e Asn-197 sono siti di glicosilazione della proteina nativa. (Zahn et al. 2000).

Tale processo comporta, a sua volta, la formazione di una proteina di 209 aminoacidi. Da questo momento in poi la PrP può essere liberata in seguito al taglio dell‘ancoraggio al GPI, oppure internalizzata tra il compartimento endocitico e la superficie cellulare. (Fig.3) PrP è considerata analoga ad un virus patogeno sebbene le sue proprietà biochimiche si discostino, in quanto priva di acidi nucleici.

I prioni presentano fattori patogeneticamente importanti:

 Marcata risposta immunitaria o infiammatoria.

 Elevata resistenza alla degradazione.

 Estrema resistenza a numerosi agenti chimici o fisici in grado di disattivare altri microrganismi.

Il momento patogenetico centrale comune a tutte queste EST è rappresentato dalla modificazione conformazionale di una proteina cellulare denominata PrPc (proteina prionica cellulare) nella sua isoforma patologica PrPsc. (Prusiner et al. 1989). E‘ assodato che PrPc

e PrPsc abbiano la stessa sequenza amminoacidica, le stesse modifiche post-traduzionali (N - glicosilazioni che danno origine a tre isoforme: monoglicosilata, diglicosilata e non glicosilata, la rimozione proteolitica di un peptide di 22 amminoacidi all'estremità N-terminale, la sostituzione del C-terminale con un complesso

glicosilfosfatidilinositolo (GPI) per l' ancoraggio della proteina alla membrana

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la medesima struttura primaria, ma differiscono nella secondaria e nella terziaria.(Halliday

et al. 2014).

Si osserva, inoltre, sulla base di studi biochimici sulla proteina PrPsc , che le caratteristiche molecolari della proteina patologica (peso molecolare della banda non glicosilata della PrPsc, rapporto tra le glicoforme di e monoglicosilata) siano identiche per la vCJD e la BSE e tutte le patologie ad esse correlate. La PrPsc, a differenza della proteina normale, è insolubile in molti tensioattivi non ionici e caratterizzata da una parziale resistenza sia alle proteasi sia alle radiazioni ionizzanti e, per queste ragioni, tende a depositarsi sotto forma di fibrille amiloidi nel sistema nervoso centrale (SNC) nei soggetti colpiti. Tali fibrille, di 20 nm di diametro, 100-200 nm di lunghezza e composte da 2-3 protofilamenti diritti o talvolta attorcigliati, di 4-6 nm di diametro, si organizzano in depositi presenti a livello cerebrale in tutte le malattie prioniche.

Le PrP sc si accumulano nel SNC e nel SNP (è maggiormente localizzata a livello

cerebrale, ma è presente anche nelle cellule del sangue, linfociti e cellule intestinali), sono prioni aberranti derivanti da un anomalia delle PrPc e causano morte neuronale. Le proteine PrPc , nell‘uomo, infatti, sembrano essere impiegate nella trasmissione

dell‘impulso nervoso, in alcuni meccanismi fondamentali per la memoria a lungo termine e, inoltre, sembra essere loro attribuito un ruolo nella neuroprotezione.

Come fa il prione a raggiungere il SNC?

Il prione, inizialmente si trova nelle cellule del lume intestinale.

A livello intestinale, i prione è localizzato precisamente all‘interno delle cellule M della mucosa, da qui viene trasportato nei macrofagi e nelle cellule dendritiche follicolari (FDC) che lo trasferiscono ai linfociti T e B (si nota, infatti, che per la funzionalità dei linfociti B e dei processi a loro annessi è necessaria per la propagazione del prione nel SNC).

Successivamente il prione è trasferito al sistema nervoso enterico per entrare, definitivamente, nel cervello attraverso il nervo vago o il midollo spinale.

Una volta che il prione è entrato nel cervello, l‘ipotesi più plausibile è quella che la proteina fisiologica PrPc sia convertita in PrPsc , ovvero la proteina anomala e alterata, a causa di una mutazione del gene PRNP o a causa di un contatto con un‘altra proteina PrPsc

. (Burchell et al. 2016).

Tutte le cellule dei mammiferi contengono, infatti, un gene PRNP (localizzato nel braccio corto del cromosoma 20 per l‘uomo e nell‘analoga regione del cromosoma 2 per il topo) che codifica la proteina PrPc.

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PRNP PrPc

La PrPc codificata dal gene PRNP è costituita da 253 aminoacidi, è glicosilata a livello di due asparagine in posizione 181 e 197.

La PrPc si ancora (mediante un gruppo glicosil-fosfadil-inositolo) allamembrana delle cellule neuronali, ma anche in tutte le cellule degli organi dove è normalmente espressa come polmoni, cuore, rene, pancreas, testicoli,leucociti e piastrine.

1.2 Trasmissibilità

La trasmissione delle EST da una specie all'altra incontra una più o meno evidente ―barriera di trasmissione‖, ovvero una difficoltà nel passare alla nuova specie.

La trasmissione delle malattie da prioni, infatti, è ristretta fra i mammiferi da una sorta di ―barriera di specie‖, ovvero nella trasmissione sperimentale da una specie A ad una specie B, solo una parte degli animali da esperimento della specie B sviluppa la malattia, che si manifesta dopo un periodo di incubazione mediamente più lungo e variabile di quello che caratterizza la trasmissione intraspecifica. (Collinge et al 2007).

Le basi molecolari di tale barriera risiedono, in parte, nel livello di omologia della

sequenza amminoacidica della PrP della specie che trasmette l'infezione e di quella che la contrae.

Questo è provato dal fatto che in topi transgenici, aventi il gene della PrP della specie che trasmette l'infezione, non esiste una barriera interspecifica e i tempi di incubazione della malattia risultano molto brevi.

È questo il caso di topi portatori della PrP umana inoculati con CJD; tuttavia, se gli stessi topi vengono inoculati con la vCJD (quindi sempre nelle stesse condizioni di omologia di sequenza), i tempi di incubazione arrivano essere addirittura più lunghi di quelli che si osservano nei topi wild-type.

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Il gene della PrP è altamente conservato nei mammiferi ed è suggerito che esiste un numero limitato, ma significativo di conformazioni della PrPsc e rappresentano il range di proni osservabile. (Freser et al 1973).

Nell‘ambito di una singola specie di mammifero, solo una parte di queste conformazioni sarebbe possibile. Qualora vi sia sostanziale analogia nelle conformazioni favorite della PrPsc di due specie, la trasmissione interspecifica verrebbe facilitata, al contrario, lì dove non vi siano conformazioni preferenziali in comune, la trasmissione incontrerebbe difficoltà. (Prusiner et al. 1990).

È nota da tempo l‘esistenza di ceppi di prioni che, pur patogeni per una certa specie, non producono malattia quando trasmessi ad un‘altra specie.

È stato riscontrato, a tal proposito, che i prioni mostrano una vera e propria variabilità (basti pensare che la comparsa dell‘agente della BSE è responsabile di oltre 180000 casi di malattia nella specie bovina) spiegabile solo con l‘esistenza di ceppi diversi, capaci di modificarsi, mutarsi con differente patogenicità.

Il sistema di sorveglianza attiva in Italia, a partire dal gennaio 2001 fino a marzo 2005, permette di identificare 126 casi di BSE a fronte di 2.929.573 test effettuati. Tutti i casi sono stati confermati mediante esame istologico, immonoistochimico e Western blot. In 6 casi sono identificati i modelli immunoistochimici e molecolari comunemente conosciuti:

 presenza di depositi di PrPsc di tipo granulare, gliale e a tratti lineari, prevalentemente localizzati nel tronco encefalico e nel talamo.

 peso molecolare della banda non glicosilata della PrPsc di 19 kDa e rapporto delle glicoforme a vantaggio della banda diglicosilata.

Aspetti decisamente nuovi e diversi emergono negli ultimi 2 casi i quali presentano un modello immunoistochimico caratterizzato da placche amiloidi e depositi granulari di PrPsc a livello extracellulare e gliale.

Il tronco encefalico risulta essere debolmente positivo e il nucleo motore del nervo vago non è colpito, mentre il talamo, la sostanza bianca subcorticale e il bulbo olfattivo

appaiono ricchi di placche amiloidi. Si riscontra un peso molecolare inferiore nella banda non glicosilata e un rapporto tra le glicoforme spostato verso la forma monoglicosilata, caratteristiche che ritroviamo in un particolare sottotipo della di CJD sporadica.

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È, inoltre, interessante osservare che i due casi riscontranti queste nuove caratteristiche, denominata Encefalopatia Spongiforme Bovina Amiloidotica (BASE), si verifica in bovini in età adulta, con età superiore ai 10 anni, a differenza dei bovini con BSE classica. Alla luce di questi nuovi casi di malattie prioniche atipiche individuati in Italia e in Europa è necessario e doveroso condurre nuovi studi allo scopo di valutare le caratteristiche molecolari dei diversi ceppi infettivi attraverso l‘analisi del quadro clinico-patologico indotto in topi da laboratorio inoculati sperimentalmente, al fine di esaminare i diversi ceppi prionici e dimostrare l‘esistenza di una variabilità fenotipica. Ciascun ceppo mostra peculiarità in termini di durata del periodo di incubazione, localizzazione topografica cerebrale e severità della degenerazione e dell'accumulo di PrPsc.

I diversi quadri sono caratteristici per ogni ceppo e si mantengono costanti nel corso di ripetuti passaggi nella stessa linea murina. Un numero limitato di conformazioni mal ripiegate di PrP nei mammiferi possono propagarsi come prioni in vivo e solo un sottoinsieme di questi sono compatibili con ogni sequenza di PrP di mammifero. I prioni trasmettono facilmente tra individui della stessa specie che esprimono la stessa PrPc e potrebbe trasmettere facilmente tra individui con differenti sequenze di PrPc, se vi è una sovrapposizione di conformazioni ammissibili (per esempio tra le specie I e le specie II).

Quando vi è poca o nessuna sovrapposizione, come nel caso tra le specie I e la specie III, si pone un notevole ostacolo di trasmissione e il ceppo potrebbe essere sottoposto ad una mutazione e, tra individui della stessa specie, possono essere introdotti polimorfismi. Un ceppo può propagare fedelmente in un individuo della stessa specie che esprime un identico PrPc (specie I, sequenza A) o di un componente minore del ceppo che potrebbe essere selezionato dall‘insieme quando i prioni colonizzano un individuo della stessa specie che esprime un diverso PrPc (specie I, PrP sequenza B).

Un ceppo, inoltre, potrebbe propagarsi in una specie diversa che ha una compatibilità PrPc (specie II, PrP sequenza C).

Se, invece, il ceppo non è compatibile con una specie separata (specie III, PrP sequenza D), la sua mutazione non può essere individuata nel complesso originale, ma deve verificarsi per stabilire l‘infezione. (Collige et al. 2016).

(Fig.4)

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Figura 4 Propagazione dei prioni.

a) La trasmissione dei prioni è controllata da un meccanismo noto come selezione conformazionale. (Collinge et al. 1999; Collinge et al. 2007).

Nei mammiferi, un numero limitato di conformazioni PrP mal ripiegate può propagarsi e solo un sottoinsieme di queste sono compatibili con ogni sequenza PrPc. I prioni si trasmettono facilmente tra individui della stessa specie che esprimono la stessa PrPc e potrebbero trasmettersi, anche, tra specie con diverse sequenze PrPc (per esempio, specie I e II) se esiste una sovrapposizione di conformazioni ammissibili. Quando c'è poca o nessuna sovrapposizione, come tra specie I e III specie, si verifica una notevole barriera trasmissione e la trasmissione stessa potrebbe portare ad una mutazione del ceppo. La barriera di trasmissione tra individui della stessa specie può introdurre a polimorfismi PrP. (Collige et al. 2016).

b) Un ceppo può propagare in un individuo della stessa specie che esprime unaPrPc identica (specie I, PrP sequenza A), o può essere scelto dal sistema un componente minore del ceppo quando i prioni colonizzano un individuo che esprime un diverso PrPc (specie I, PrP sequenza B). Un ceppo può anche propagare in una specie diversa che ha, però, una PrPc compatibile (specie II, PrP sequenza C). Se il ceppo non è compatibile con una specie (specie III, PrP sequenza D), la sua mutazione non può essere rilevata come originale del sistema. (Collige et al. 2016).

Le mutazioni sono fenomeni da tempo riconosciuti con metodi biologici. Tale evento può verificarsi sia quando il prione infetta una nuova specie sia quando agisce nella stessa specie, quando la sequenza PrP amminoacidica del prione inoculato differisce da quella dell‘ospite. (Collinge et al 1996; Hill et al. 1997; Wadsworth et al. 2004).

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I ceppi di prione, inoltre, possono essere biologicamente clonati e intrinsecamente instabili tanto da tornare facilmente ad un altro ceppo. (Bessen et al. 1994).

Recenti studi con metodi biochimici e fisici su prioni isolati mostrano una notevole

eterogeneità: si osserva una diversità nei siti di scissione proteasica N- terminali, indicatore di una diversità di conformazione, e una glicosilazione di PrP complessa e molto variabile. Mostrano, inoltre, un‘eterogeneità in termini di inattivazione termica. (Taylor et al. 1998).

In conclusione si può affermare che i ceppi di prioni possono essere considerati come sottotipi di un insieme di PrP mal ripiegate con necessarie e indispensabili proprietà e con una cinetica tale da eludere le difese della cellula ospite, capaci di propagare in modo esponenziale e in grado di agire come agenti patogeni efficaci. (Collinge et al. 2016). Altri gruppi di PrP, invece, vengono degradati o formano aggregati altamente stabili, non capaci di diffondersi e relativamente inerti. (Collinge et al. 2007).

La differenza che esiste tra i vari ceppi di prioni potrebbe essere fondamentale per l‘adattamento di un ceppo nell‘ospite e permetterne la sua sopravvivenza e diffusione e potrebbe, inoltre, spiegare perché alcuni amiloidi sono patogeni infettivi e altri no. (Collinge et al. 2016).

1.3 Genetica

Dalla scoperta del fondamentale ruolo della PrP nelle EST, molti studi si

concentrano sul suo gene codificante (PRNP), identificato nel 1986 e sul ruolo che esso assume in ambito epidemiologico, diagnostico e terapeutico.

Come già descritto, il gene è localizzato nel braccio corto del cromosoma 20 dell‘uomo. Contiene 3 esoni (per topi, bovini e pecore) o 2 esoni (per criceti e uomo) di cui solo uno codifica le proteine PrPc. (Horiuchi et al. 1998; Premzl et al. 2005; Choi et al. 2006). Il controllo dell‘espressione genica PRNP è attribuita alla sequenze della regione adiacente 5‘ all‘interno del primo introne e alle sequenze 3‘ non tradotte. (Rafael et al. 2008).

Da studi biochimici, non è identificata la TATA BOX, mentre nella maggior parte dei casi è ritrovata la sequenza CCAAT. L‘analisi della regione adiacente 5‘ indica che l‘attività promotrice richiede sequenze con un peso di 80-150 bp per l‘esone 1 e il grado di analogia

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di potenziali sequenze promotrici tra le diverse specie di mammiferi è variabile. (Baybutt

et al .1997; Inoue et al.1997; Mahal et al. 2001).

Le mutazioni a carico di questo gene sono responsabili del 10-15% di tutte le EST.

A tal proposito nella struttura tridimensionale del gene PRNP, è fondamentale individuare il codone 129, sito di riconoscimento per la metionina (M) e la valina (V), ma anche sito del polimorfismo del gene stesso, il quale risulta essere un marcatore genetico riconosciuto per la suscettibilità alla malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD) nella popolazione caucasica. Il polimorfismo nei soggetti sani costituisce un importante punto di partenza per la valutazione del rischio CJD nella popolazione generale.

Gli studi, infatti, evidenziano che nella popolazione caucasica il 52% è omozigote MM, il 36% è eterozigote MV e il 12% è omozigote VV ed emerge che l‘omozigosi MM

costituisce il fattore di rischio per la CJD e vCJD e ne modifica la storia naturale della malattia (età di esordio, caratteristiche cliniche e durata). (Burchell et al. 2016). (Tab.2)

Tabella 2 Polimorfismi al codone 129 che influenzano la suscettibilità alla CJD. (Doria et al. 2001).

N° casi % M/M % M/V % V/V %omozigosi Casi controllo 261 37 52 11 48 CJD sporadica 73 78 12 10 88 CJD iatrogena 63 90 11 29 89 CJD nuova variante 22 100 0 0 100

Si osserva, inoltre, che il fenotipo della malattia, se familiare, sporadica o infettiva è diverso in base al genotipo del codone 129 e proprio per questo motivo si ipotizza che il codone 129 possa agire come modificatore del fenotipo della malattia prionica nell‘uomo. (Fig.5)

(20)

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Figura 5 Struttura molecolare del gene PRNP. Il codone 129 (evidenziato in rosso) è quello coinvolto nel

polimorfismo.

Geneticamente la proteina PrPc è identificata nella PrPsen , ovvero una proteina sensibile alle proteasi che, a causa di una modifica del gene PRNP che la codifica, si altera in PrPsc definibile come PrPres , ovvero resistente alle proteasi e predisposta all‘accumulo nel SNC e SNP.

La PrPsc (proteina alterata) differisce da PrPc (proteina normale) per la sua conformazione tridimensionale in quanto la proteina normale ha una struttura più aperta contenente tre segmenti ad elica e un numero minimo di foglietti , situazione che non ritroviamo nella proteina anomala che, invece, presenta una struttura più compatta e più stabile mostrando un aumento considerevole del numero di foglietti . (Burchell et al. 2016).

Per comprendere, però, la transizione conformazionale che accompagna la formazione di PrPsc è essenziale conoscere la struttura tridimensionale di PrP. La risonanza magnetica nucleare (NMR) evidenzia come un frammento di PrP umano presenti tre filamenti ad  elica intervallati da due foglietti  antiparalleli. Il secondo foglietto  e la terza  elica sono connesse da un grande loop con interessanti proprietà strutturali, ovvero è

(21)

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La prima regione contiene un segmento con 5 ripetizioni di sequenze amminoacidiche optameriche, fondamentali per il legame con il rame e coinvolte nei processi patogenetici. La seconda regione, a valle rispetto alla prima, ha un profilo conservato e è altamente idrofobica.

PrPc si può trovare in forma non/mono o diglicosilata corrispondente alla capienza variabile dei residui Asn 181 e Asn 197 nella proteina umana e Asn 180 e Asn 196 nella proteina murina.

Il ruolo della glicosilazione è indirizzato sia in riferimento alla suscettibilità alla conversione conformazionale, nonché sulla diversità delle EST.

La glicosilazione è, inoltre, molto importante perché permette il riconoscimento della proteina da parte di diversi anticorpi monoclonali sia nel cervello sia in altri tessuti e si evidenziano svariate risposte a determinati anticorpi monoclonali per cellule che portano forme distintamente glicosilate di PrPc.

Infine, ritroviamo sulla superficie della proteina, una grande varietà di N-glicani che risultano contribuire nella stabilità stessa della proteina.

Quando la proteina cellulare viene convertita nella sua isoforma patologica si presume che avvenga un ripiegamento della regione corrispondente ai residui 108-144 dei foglietti . Il singolo legame disolfuro che unisce le eliche COOH-terminali rimane intatto dal momento che è richiesto un ponte disolfuro per la formazione di PrPsc.

L‘eliminazione di regioni fondamentali o della struttura secondaria putativa, eccetto per l‘amminoacido 66 NH2-terminale e l‘amminoacido 36, porta alla formazione di PrPsc,

come verificato sperimentalmente nell‘infezione da scrapie in coltura cellulare. Le proteine mutate si aggregano per formare fibrille molto compatte impossibili da degradare dagli enzimi proteolitici, come descritte precedentemente. (Rafael et al. 2008). Il cambiamento di conformazione potrebbe creare a livello cerebrale neurotossicità perché verrebbe a mancare la presunta attività neuroprotettiva che sembra essere una peculiarità delle PrPc. .

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Figura 6 Meccanismo di conversione dalla proteina prionica. A sinistra, la proteina normale PrPc

composta in maggior parte da  eliche, a destra la proteina anomala PrPsc, nella quale aumenta il numero di foglietti  che rendono la struttura più rigida e meno stabile.

Ad ogni modo, ad oggi, gli studi di come le proteine prioniche possano trasformarsi dalla forma fisiologica, normalmente espressa nei mammiferi, alla forma patologica sono tuttora in corso e il vero meccanismo di conversione è ancora da definire.

Vengono, però, ipotizzate due possibili teorie. (Aguzzi et al. 2009).

La prima si basa sulla convinzione che la proteina anomala PrPsc funga da catalizzatore per la reazione di conversione della proteina normale PrPc.

La formazione della proteina alterata provoca una cascata di mal ripiegamenti (misfolding) delle proteine PrPc vicine, creando una conseguente auto-propagazione.

Secondo questa prima ipotesi le malattie prioniche rappresenterebbero un nuovo modello patogenetico basato su alterazioni strutturali-conformazionali di proteine dotate di auto-propagazione caratterizzate da una particolare forma di ―infezione‖ da parte della PrPsc, la quale non replica se stessa, ma induce la proteina normale PrPc ad assumere la forma alterata e perdere la sua struttura primaria fisiologica.

In accordo con la seconda teoria si ritiene plausibile un meccanismo di polimerizzazione nucleata, in cui la stabilizzazione di PrPsc si verifica solo in seguito alla formazione di un oligomero abbastanza grande da costruire un nucleo stabile. (Burchell et al. 2016). Questo significa che PrPc diventerebbe PrPsc solo in presenza di aggregati di PrPsc che incrementano la stabilità. (Aguzzi et al. 2009).

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Questa conversione è controllata termodinamicamente, è un processo non catalitico ed è una reazione reversibile.(Burchell et al. 2016).

1.4 Neurotossicità

Nelle malattie da prioni, la replicazione prionica comporta la conversione dalla fisiologica proteina prionica (PrPc) nella sua isoforma associata (PrPsc ), resistente alle proteasi, la quale tende ad accumularsi nel cervello sviluppando la capacità di trasmettere queste malattie neurodegenerative fatali.

Per questi motivi, l‘isoforma PrPsc

si presume essere la specie neurotossica, anche se, grazie a studi biochimici, iniziati nel 1993, appare chiaro che esiste una dissociazione tra specie tossiche (legata alla morte neuronale) e agente infettivo (moltiplicazione della proteina prionica). (Mallucci et al. 2003; Sandberg et al. 2011).

Lo studio evidenzia che, in assenza di PrPc, PrPsc non risulta essere tossico per il cervello di topi knock-out, in cui viene soppressa l‘espressione del gene PrP; allo stesso modo, solo il tessuto dei topi wild-type in cui il gene PrP è liberamente espresso mostra effetti

neurotossici da infezione da prioni. (Brandner et al. 1996).

Grazie a studi subclinici di infezioni da prioni si è arrivati alla svolta, (Frigg et al. 1999; Thackray et al. 2003) in quanto si osservano e analizzano sia animali da esperimento, portatori asintomatici di infettività con la peculiarità di non sviluppare la malattia clinica per tutta la durata della loro vita, sia animali che sviluppano la situazione opposta nella quale si verifica neurodegenerazione con livelli minimi di PrPsc.

Da questi studi si traggono delle conclusioni interessanti: bloccando la conversione PrPc / PrPsc lungo il corso dell‘infezione da prioni, si incrementa la produzione di astociti, i quali contribuiscono ad una considerevole neuroprotezione e al salvataggio delle cellule nervose dalla tossicità prionica, nonostante il massiccio accumulo extraneuronale di PrPsc.

(Mallucci et al. 2003; Mallucci et al. 2007; White et al. 2008).

Inoltre, la neuroprotezione è garantita dalla rimozione dell‘ancoraggio del

glicosilfosfatidilnositolo da PrP, il quale rilasciando la superficie neuronale, impedisce la neurotossicità.

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Tutti questi risultati sono a favore della tesi che non solo PrPsc non è la specie direttamente tossica per i neuroni e l‘agente responsabile della neurotossicità, ma dimostrano, anche, che il processo di conversione da PrPc a PrPsc è il responsabile degli effetti tossici.

È interessante osservare che questa dissociazione tra infezione e effetto neurotossico è già noto anche in altre malattie neurodegenerative. (Halliday et al. 2014)

1.5 Meccanismi di neurotossicità

Ai fini di una terapia adeguata è fondamentale osservare i meccanismi attraverso i quali si manifestano gli effetti neurotossici e quindi si conducono studi su topi tg37. Questi topi hanno la caratteristica di avere livelli di PrP sovraespressi, circa tre volte maggiori rispetto ai topi wild-type e vanno incontro a decesso nel giro di circa 12 settimane, a causa dell‘infezione prionica. (Mallucci et al. 2002).

Si studia il decorso nell‘infezione e si osserva che, nel contesto della crescente replicazione prionica, si verifica un aumento dei livelli di PrP mal ripiegata (PrPsc) e un‘improvvisa e brusca riduzione del numero delle proteine sinaptiche a circa 9 settimane dopo l‘infezione. Questo fenomeno è correlato sia ad una critica riduzione di numero di sinapsi e della neurotrasmissione sia ad un repertino declino comportamentale.

È evidente che la riduzione dei livelli delle proteine sinaptiche, dopo 9 settimane

dall‘infezione, è un evento disastroso che si verifica in un momento critico dell‘evoluzione della malattia.

Ci si interroga su come accada veramente: si verifica una maggiore degradazione o una minore sintesi delle proteine? (Halliday et al. 2014).

Sembra logico pensare che, venendo inibito il proteosoma ubiquitina nelle malattie prioniche, si abbia una riduzione piuttosto che un aumento di degradazione proteica. (Andre et al. 2012).

Sulla base di ciò, si ricercano e si studiano i meccanismi di controllo traslazionali alterati, responsabili dell‘aumento della degradazione proteica e della riduzione della sintesi proteica globale.

A tal proposito, si esamina la UPR: unfolded protein respose (risposta a proteine mal ripiegate).

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1.6 UPR nelle malattie prioniche

UPR è un meccanismo di risposta di stress cellulare situato a livello del reticolo endoplasmatico che si attiva in seguito ad un accumulo di proteine mal ripiegate o dispiegate nel lume del reticolo. (Ron et al. 2007).

La sua induzione è un fenomeno transitorio.

UPR è attivato in condizioni di stress, dato dalla presenza di proteine mal ripiegate e può:

 Rispristinare la funzionalità normale della cellula attraverso l‘interruzione della sintesi proteica.

 Incrementare la produzione di chaperoni molecolari (famiglia di proteine con funzione di prevenzione di associazioni non corrette) coinvolti nel ripiegamento proteico.

Se non si raggiungono questi due obiettivi, UPR programma e attiva la morte cellulare (apoptosi).

Strutturalmente, UPR è costituita da tre rami principali, tutti attivati nel momento in cui aumentano i livelli di proteine mal ripiegate.

1. ATF6 2. IRE1

3. PERK / elF2

I primi due rami sono responsabili di modifiche trascrizionali che aumentano l‘espressione del chaperone per migliorare il corretto ripiegamento delle proteine, il terzo, invece, determina una cascata di segnalazioni che porta al blocco transitorio della sintesi proteica. (Fig.7)

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Figura 7 UPR. Il reticolo endoplasmatico (ER) in condizione di stress, proteine mal ripiegate legano e sequestrano le immunoglobuline a catena pesante (BIP), attivando così l'UPR. L'UPR è formato da tre rami: ATF6IRE1 PERK/elF2. (Wang et al.2014).

Il meccanismo del ramo PERK / elF2 è regolato da una serie di fosforilazioni: UPR si attiva grazie a proteine mal ripiegate, con il conseguente rilascio di PERK che si autodimerizza e autofosforila.

PERK P, una volta fosforilato, fosforila elF2 che impedisce la formazione del complesso ternario che carica il ribosoma 40S sul filamento di mRNA da tradurre. (Asano K. et al. 2000).

Una volta fosforilato elF2 (elF2 P) si lega saldamente a elF2, fattore di scambio della guanina, che fornisce l‘energia necessaria per la formazione del complesso ternario, impedendogli di fornire GTP, indispensabile per la proteina. (Halliday et al. 2014).

Come detto in precedenza, questa attivazione del sistema UPR e la cascata di fosforilazioni è un evento transitorio in quanto elF2 P è rapidamente defosforilata dall‘espressione di enzimi fosfatasi GADD34 / PP1 che consentono il riavvio della normale traslazione delle proteine. (Novoa et al. 2001).

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Nelle malattie prioniche, si evidenzia un‘attivazione di UPR con conseguente riduzione della sintesi proteica causata da crescenti livelli di accumulo di proteina prionica durante il corso della malattia.

Si osserva, quindi, un progressivo aumento di PERK P e elF2 col progredire della

malattia, ma non si evidenziano cambiamenti nel livelli di GADD34 suggerendo che la sua quantità è insufficiente per defosforilare l‘aumento di elF2

In conclusione, questi studi dimostrano che il ramo PERK / elF2 viene attivato dalle malattie prioniche, inibendo la traduzione di proteine e portando ad una conseguente riduzione dei livelli di proteine sinaptiche. (Halliday et al. 2014).

In laboratorio si misurano i tassi di sintesi proteica totale nell‘ippocampo mediante l‘incorporazione di metionina radioattiva e si osserva una diminuzione del 50% nella sintesi proteica globale con una contemporanea diminuzione del numero complessivo di ribosomi. (Moreno et al. 2012).

1.7 Neuroprotezione

Il sistema UPR, nonostante sia un evento transitorio, è molto vantaggioso, in quanto lo stress che subiscono le cellule a causa del mal ripiegamento proteico e gli elevati livelli persistenti di elF2 P sono dannosi.

Come raffigurato nell‘immagine, l‘aumento di livelli di proteine mal ripiegate sono rilevati da proteine di legame per le immunoglobuline (BIP) nel reticolo endoplasmatico.

Questo evento attiva PERK che, autofosforilandosi, a sua volta fosforila elF2 con conseguente riduzione della traduzione.

La diminuzione della sintesi delle proteine sinaptiche porta alla perdita di proteine fondamentali, ad un conseguente fallimento della trasmissione sinaptica e

neurodegenerazione.

Per queste ragioni, si conducono studi su elF2 P per verificare il suo coinvolgimento, più o meno diretto, nelle neurodegenerazione e valutare se, la sua eventuale riduzione,

potrebbe rappresentare un fattore di neuroprotezione.

Attualmente, gli studi si basano sull‘utilizzo di un vettore lentivirale (ovvero un vettore retrovirale) in cui viene sovraespresso GADD34, in modo tale da ridurre i livelli di elF2

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P e dove è attivato, parallelamente, un RNAi (ovvero frammenti di RNA in grado di interferire - spegnere - l'espressione genica) capace di rimuovere la fonte di attivazione di UPR e prevenire la formazione di elF2 P. Oltre a questo, esistono altri plausibili siti d‘azione:

1. GSK2606414, inibitore specifico di PERK 2. Lentivirus mediato da RNAi (LV-shPrP)

3. Lentivirus con iperespressione della fosfatasi elF2P 4. GADD34/PP1 (LV-GADD34)

1 e 2 inibiscono o prevengono la fosforilazione di PERK, 3 e 4 si occupano della defosforilazione di elF2P , ripristinando la funzionale sintesi proteica. (Halliday et al. 2014).

(Fig.8)

Figura 8 Rappresentazione schematica del ramo PERK di UPR che conduce alla repressione della traduzione. L'aumento dei livelli di proteine mal ripiegate sono rilevati dal legame immunoglobulina (BiP)

nel ER, attivando PERK, che autofosforila, e a sua volta fosforila elF2. La riduzione drastica nella sintesi delle proteine porta alla perdita di proteine chiave, ad un fallimento sinaptico e quindi a neurodegenerazione. Sono evidenziati i punti di azione di GSK2606414, (un inibitore specifico di PERK), di shPrP e di LV-GADD34. Inibendo o prevenendo la fosforilazione di PERK (utilizzando GSK2606414 e LV-shPrP) o defosforilando elF2 P (utilizzando LV-GADD34), viene ripristinata la sintesi proteica. Salubrinal impedisce la defosforilazioneelF2 P, aggravando la riduzione della traduzione. (Halliday et al. 2014).

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In laboratorio si trattano, a 9 settimane dall‘infezione prionica, topi iniettati con lentivirus che esprimono GADD34, i quali mostrano livelli di PERK P come in topi non trattati, a dimostrazione del fatto che UPR è ancora in fase attiva, ma con livelli di elF2 P decisamente ridotti. (Moreno et al. 2012).

Questo significa che GADD34, mediante RNAi, impedisce l‘aumento di PERK P e elF2 P, tipico degli animali non trattati, rispristinando i tassi di traduzione normali.

Di conseguenza lo studio dimostra che i livelli di proteina sinaptica, la trasmissione sinaptica e il numero di sinapsi nei topi, affetti da malattie prioniche, trattati con GADD34 sono protetti in modo equivalente a quelli di topi non infetti. A conferma di questo

risultato, recentemente si studiano gli effetti del trattamento con salubrinal, un inibitore specifico degli enzimi eIF2α fosfatasi, utilizzato principalmente in ambito sperimentale. (Halliday et al. 2014).

Il trattamento con salubrinal ha effetto opposto in quanto, viene impedita la

defosforilazione di elF2 P, pertanto i livelli di elF2 P rimangono nettamente superiori, causando un‘ulteriore repressione della traduzione globale, provocando una grave perdita neuronale con conseguente accelerazione significativa della malattia, rispetto ai topi infetti non trattati.

I dati riportati da questi studi sperimentali confermano certamente che la manipolazione genetica di UPR garantisce una sorprendente neuroprotezione e l‘inibizione farmacologica del ramo PERK / elF2 P potrebbe assicurare una notevole protezione contro le malattie prioniche. La sostanza protettiva utilizzata è l‘inibitore GSK2606414, altamente PERK selettivo, già visto precedentemente. (Moreno et al. 2012).

Questo composto, precedentemente utilizzato come antitumorale a livello sperimentale, è somministrato in topi tg37 prione-infetti, per via orale, a circa 7 settimane dopo l‘infezione restaurando, in poco tempo, i livelli normali di sintesi proteica e, di conseguenza limita i livelli di elF2 P. Il dati dimostrano che i topi, dopo il trattamento, sono clinicamente guariti e vi è uno stato di neuroprotezione in tutto il cervello. (Moreno et al. 2013). Nonostante gli effetti positivi evidenziati a livello neuronale vi è una tossicità pancreatica esocrina associata al composto che porta ad una cessazione dell‘esperimento a causa di una drastica diminuzione di peso.

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Figura 8 La manipolazione della UPR salva la traduzione ed è neuroprotettiva nei confronti dei topi affetti da malattie prioniche.

a) Il trattamento con LV-shPrP (barra blu) e LV-GADD34 (barra verde) riduce i livelli di elF2 P. b) Confronto tra numero di sinapsi, i tassi di sintesi proteica globale e il numero di cellule neuronali rispetto ai topi malari non trattati. Si osserva come salubrinal (barra arancione) abbia avuto un effetto negativo negli stessi esperimenti.

c) Immagini al microscopio di tessuto dell‘ippocampo di topi con malattie da prioni. Si osservano le modifiche al tessuto con i vari trattamenti. (Moreno et al. 2012).

Ad oggi, si pensa che l‘induzione di UPR sia dovuta ai crescenti livelli di sintesi di PrP totale, piuttosto che ad un effetto diretto legato all‘aggregazione di PrPsc

, certamente è appurato che, durante l‘infezione da prioni, la quantità totale di PrP aumenta i livelli di mRNA e l‘incremento di sintesi globale di PrP può causare misfolding (mal ripiegamento) e attivazione del meccanismo UPR grazie all‘induzione di marcatori UPR.

È interessante sottolineare che non solo le malattie prioniche presentano queste caratteristiche genetiche, ma anche altre malattie neurodegenerative.

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Il morbo di Alzheimer, il morbo di Parkinson, le Taupatie, la sclerosi laterale amiotrofica condividono tutte un aumento dei livelli di attivazione UPR, con induzione del ramo PERK / elF2, anche se il meccanismo di iperattivazione UPR non è chiaro.

(Hoozemans et al. 2009; Hoglinger et al. 2011; Stutzbach et al. 2013).

Sicuramente possiamo affermare che l‘apprendimento e la memoria dipendono dalla sintesi proteica, quindi una riduzione delle proteine sinaptiche causa deficit cognitivi, pertanto è fondamentale bloccare questa via per aumentare la cognizione nei topi wild-type e

impedire la loro morte neuronale. (Costa-Mattioli et al. 2007; Sidrauski et al. 2013; Ma et

al. 2013).

2. Le malattie neurodegenerative

Studi recenti (Polymenidou et al. 2012; Prusiner 2012; Prusiner et al. 2015) dimostrano un parallelismo tra le malattie prioniche e le altre malattie neurodegenerative in termini di meccanismo patologico e neurotossicità.

Il mal ripiegamento delle proteine, infatti, non riguarda solo le malattie prioniche, ma anche tutta la categoria di malattie neurodegenerative meglio note come:

 Morbo di Alzheimer (AD)

 Morbo di Parkinson (PD)

 Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA)

 Corea di Huntington (HD)

Le malattie neurodegenerative sono patologie del SNC che comportano la perdita di funzione o la morte progressiva e selettiva delle cellule nervose. In funzione del numero, posizione e tipo di cellule danneggiate, i sintomi di queste patologie possono variare, ma l‘esito finale è sempre gravemente invalidante.

Il morbo di Alzheimer oggi colpisce circa il 5% delle persone con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila ammalati. Dal punto di vista neuropatologico, i cervelli

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dei pazienti colpiti sono caratterizzati da placche costituite dall‘accumulo di proteina

amiloide e dalla formazione di grovigli (ammassi neurofibrillari della proteina Tau). Un aumento nella produzione del peptide Aβ42, che si verifica sia in presenza che in assenza di cause genetiche, innesca l‘accumulo sotto forma di placche dello stesso peptide, del peptide Aβ40 e di altri componenti, come i proteoglicani. Ciò attiva una risposta infiammatoria, con produzione di citochine, che porta a danno cellulare con alterazione della omeostasi ionica. Ne risulta uno squilibrio nel bilancio tra chinasi e fosfatasi che porta alla iperfosforilazione delle proteine Tau e ad un danno neuronale esteso, con compromissione dell‘attività dei neurotrasmettitori, che provoca la demenza.

Il morbo di Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato principalmente da degenerazione di alcune cellule nervose situate in una zona profonda del cervello denominata sostanza nera. Queste cellule producono un neurotrasmettitore, cioè una sostanza chimica che trasmette messaggi a neuroni in altre zone del cervello. Il neurotrasmettitore in questione, chiamato dopamina, é responsabile dell‘attivazione di un circuito che controlla il movimento. Con la riduzione di almeno il 50% dei neuroni dopaminergici viene a mancare un‘adeguata stimolazione dei recettori. I neuroni

dopaminergici della sostanza nera, sofferenti, osservati al microscopio, mostrano al loro interno corpuscoli sferici denominati corpi di Lewy composti prevalentemente da

-sinucleina, che sono considerati una caratteristica specifica del morbo di Parkinson e che fa rientrare questa malattia nel più ampio gruppo delle sinucleinopatie. La malattia di Parkinson si riscontra più o meno nella stessa percentuale nei due sessi ed è presente in tutto il mondo.

La patologia è caratterizzata da tre sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza dei movimenti (bradicinesia) ai quali si associano disturbi di equilibrio, atteggiamento curvo, impaccio all'andatura e molti altri sintomi definiti secondari perché sono meno specifici.

La sclerosi laterale amiotrofica (SLA) è una patologia rara (incidenza: 1-3 casi ogni 100.000 individui all'anno) e, nella quasi totalità dei casi, sporadica (le forme

familiari sono circa il 10% del totale dei pazienti). È caratterizzata dalla morte di entrambi i tipi di motoneuroni, superiori e inferiori e si manifesta nel cervello, nel tronco encefalico, e nel midollo spinale. Prima della morte, i motoneuroni sviluppano inclusioni ricche di proteine nel loro corpo cellulare e negli assoni. Questo può essere dovuto, in parte, a difetti

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nella degradazione di proteine. Spesso queste inclusioni contengono ubiquitina e, di solito, incorporano proteine associate alla patologia: SOD1 (superossido dismutasi 1) e TDP-43.

La corea di Huntington è una delle più gravi malattie neurodegenerative che colpisce circa 4/100.000 individui ed è caratterizzata da movimenti involontari di tipo coreico, disturbi psichici e demenza. L‘età di insorgenza è assai variabile potendosi manifestare a 2 come a 90 anni, anche se in genere i primi sintomi appaiono in media all‘età di 40 anni circa.

Si osserva una degenerazione cellulare all‘interno dei gangli della base, della corteccia cerebrale e con il progredire della malattia anche il coinvolgimento di cellule della

corteccia e dell‘ipotalamo alterando le capacità cognitive. Ha un andamento ingravescente, per cui i sintomi e il disturbo cognitivo peggiorano col progredire della malattia. Il gene responsabile della malattia è denominato IT15 (interesting transcricpt 15) ed è stato

localizzato sul braccio corto del cromosoma 4. Questa patologia appartiene al gruppo delle malattie degenerative del sistema nervoso il cui difetto genico risiede nell‘espansione instabile di brevi sequenze nucleotidiche ripetute. Il gene IT15 contiene all‘interno della regione codificante una sequenza trinucleotidica CAG ripetuta in numero variabile di volte. Nei cromosomi normali la sequenza CAG è ripetuta tra 6 e 35 volte ed è trasmessa in modo mendeliano, mentre nei cromosomi che trasmettono la malattia la stessa sequenza nucleotidica è ripetuta più di 40 volte ed anche oltre le 100.

Le ripetizioni di CAG numericamente superiori a 36 presentano un‘instabilità meiotica. Queste ripetizioni eccessive della tripletta provocano un incremento del numero di copie dell‘amminoacido glutammina.

Tale aumento, definito espansione a poliglutammina, provoca la formazione di una

proteina anomala, che non soltanto è incapace di mantenere la propria funzione (stimolare la trascrizione del fattore per il differenziamento e la sopravvivenza dei neuroni), ma forma degli aggregati all‘interno del nucleo e del citoplasma cellulare divenendo insolubile e tossica e provocando quindi la morte delle cellule nervose.

Da questa descrizioni è intuibile come il mal ripiegamento proteico e l‘accumulo di queste proteine alterate non sia una sola caratteristica delle malattie prioniche, ma anche delle più note malattie neurodegenerative.

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Nella malattie prioniche, infatti, abbiamo il mal ripiegamento delle proteine PrP e l‘accumulo della forma alterata PrPsc

, nelle malattie neurodegenerative, a livello cerebrale, ritroviamo:

 Accumulo di proteine amiloidogeniche A42 e proteina Tau, per il morbo di Alzheimer.

 Accumulo di -sinucleina nei corpi di Lewy, per il morbo di Parkinson.  Espansione di poliglutammine (Poly Q), per la corea di Huntington.  Accumulo di superossido dismutasi 1 (SOD1) e TDP-43, per la SLA.

Le proteine mal ripiegate sono coinvolte nell‘instaurarsi e nella progressione della malattia perché le proteine aggregate possono acquisire una funzione tossica e/o perdere la loro normale funzione.

2.1 Relazione tra le patologie neurodegenerative e le malattie

prioniche

Le malattie da prioni differiscono da AD, PD, HD, e SLA in quanto possono essere sia di origine infettiva (cioè, da una fonte esogena) o legate ad un meccanismo di auto-propagazione (in grado di convertire le proteine vicine alla forma patologica). Viceversa, è estremamente improbabile che ci sia un agente infettivo esogeno coinvolto nelle malattie neurodegenerative; tuttavia, ci sono prove che confermano la teoria dell‘auto-propagazione anche per quest‘ultime. (Burchell e Panegyres 2016).

La teoria dell‘auto-propagazione è rafforzata da studi fatti su modelli di topi transgenici di AD.

Si dimostra come le placche A si possano generare nei topi transgenici a cui è stato iniettato, a livello intracerebrale, del tessuto cerebrale di pazienti affetti da AD. Con questi dati si riscontra, inoltre, che il tessuto cerebrale, e non necessariamente la placca A stessa, può attivare la formazione della placca. (Kane et al. 2010).

Alla luce di questi studi, si ipotizza, quindi, che AD, PD, HD e SLA, se pur non

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35

le medesime immunoterapie utilizzate per le malattie prioniche e la ricerca di un vaccino per quest‘ultime potrebbe essere utile e vantaggioso per rallentare o arrestare la

progressione di tutte patologie neurodegenerative. (Burchell e Panegyres 2016).

Tabella 3 Confronto tra i meccanismi di neurotossicità delle malattie prioniche e delle malattie neurodegenerative. (Burchell et al. 2016; elaborato personale)

Patologie Proteina

mal ripiegata

Autopropagazione Trasmissione Perdita

neuronale Esito Fatale

Malattie prioniche PrP Sì Sì Sì Sì Morbo di Alzheimer ATau  Sì No Sì Sì Morbo di Parkinson sinucleina -Sì No Sì Sì Sclerosi Laterale Amiotrofica SOD1 TDP-43 Sì No Sì Sì Corea di

Huntington Ripetizione di PolyQ Sì No Sì Sì

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3. Possibili bersagli terapeutici

Gli approcci terapeutici attuali partono dal presupposto che la proteina PrP venga convertita in PrPres e successivamente che questa vada ad accumularsi nel sistema nervoso centrale e periferico.

Alla luce di ciò, le terapie contro le malattie prioniche vanno ad agire su diversi livelli:

 Inibizione diretta della conversione PrP PrPres .

 Degradazione di PrPres .

 Alterazione dell‘espressione e/o della localizzazione nella superficie cellulare di PrPc.

 Interferenza con molecole vitali accessorie, come i glicosaminoglicani.

 Rottura del legame con l‘antigene. (Burchell et al. 2016).

In prima battuta l‘interesse è rivolto alle piccole molecole. (Panegyres et al. 2013). Il primo potenziale bersaglio, candidato nella terapia contro le malattie prioniche, è il recettore ad alta affinità per prioni chiamato laminina (LPR/LR).

Questa molecola è una glicoproteina che agisce come recettore per entrambe le isoforme (PrPc e PrPres) e può agevolare l‘internalizzazione cellulare di PrPres. (Leucht et al. 2004; Gauczynski et al. 2006).

Studi recenti (Gauczynski et al. 2006) dimostrano che i glicani polisolfato sono in grado di inibire la sintesi di PrPres attraverso l‘inibizione del recettore LPR/LR e quindi, di bloccare il legame recettore-prione nelle cellule bersaglio. Inoltre, i glicani polisolfato hanno anche la capacità di indurre una downregulation del recettore.

In altri studi, invece, si utilizza un RNA antisenso per abbattere il recettore LPR/LR. Nonostante l‘individuazione di alcune molecole capaci di inibire LPR/LR, si necessita di altri studi per indentificare nuovi ligandi più efficaci che abbiano come target questo recettore. (Gauczynski et al. 2006).

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37 L‘attenzione si, quindi, rivolge alle grandi molecole:

1) Pentosano polisolfato (PPS)

PPS è una grande molecola che si pensa possa agire, in modo competitivo, con i

proteoglicani endogeni (come l‘eparina solfato) come corecettore per PrP sulla superficie cellulare. (Larramendy-Gozalo et al. 2013).

PPS non attraversa la barriera ematoencefalica dopo somministrazione orale o parenterale. (MacGregor et al. 1984).

Studi su topi dimostrano che l‘infusione continua intracerebrale è ben tollerata considerando un ampio range di dosaggio (11-110 mg/kg/die) garantendo una sopravvivenza prolungata. (Farquhar et al. 1999).

Ad oggi, però, si tratta con PPS solo un numero limitato di pazienti affetti da CJD. Uno dei primi casi è quello di un uomo di 22 anni, affetto da una forma di CJD, il quale è trattato con un‘infusione continua intracerebrale di PPS (32 mg/kg/die) dopo 19 mesi

dall‘insorgenza dei primi sintomi, per un periodo complessivo di 31 mesi. PPS dimostra di poter essere ben tollerato e di aver prolungato l‘aspettativa di vita, per un totale di 52 mesi. (Parry et al. 2007).

Uno studio inglese valuta l‘effetto e le conseguenze di una terapia ad infusione continua intracerebrale con PPS in sette pazienti. I risultati dimostrano che, anche in questo caso, PPS è ben tollerato a bassi e alti dosaggi da tutti i pazienti. Si verificano complicanze dovute al cateterismo intracerebrale in quattro pazienti su sette. Tuttavia, la sopravvivenza di tutti i sette pazienti trattati con PPS supera la sopravvivenza media dei pazienti non trattati. (Bone et al. 2008).

Ad oggi, non è possibile individuare e stabilire una dose sicura ed efficace di PPS nell‘uomo, infatti come già detto, il dosaggio varia ampiamente e ciò può costituire un problema e una limitazione nel trattamento farmacologico.

Inoltre il numero limitato di casi nei quali è testato il trattamento è così limitato che è difficile estrapolare informazioni farmacologiche e tossicologiche. (Burchell et al. 2016).

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2) Quinacrina

Studi evidenziano la capacità della molecola di inibire la formazione di PrPres in cellule di neuroblastoma infettate da scrapie e si pensa che il suo meccanismo terapeutico sia legato alla catena laterale dell‘anello di chinolina. (Doh-ura et al. 2004; Muramakami-Kubo et al. 2004).

È un farmaco ampiamente studiato e testato in tutti i suoi effetti e utilizzato nella terapia antimalarica. Tuttavia è utilizzato in un numero limitato di casi affetti da CJD che riportano effetti benefici scarsi o nulli. (Haik et al. 2004; Collinge et al. 2009).

3) Amfotericina B

È un antibiotico che mostra qualche effetto benefico in studi in vivo su animali, ma i medesimi risultati non su riscontrano nell‘uomo. (Demaimay et al. 1997).

Uno studio clinico su alcuni pazienti affetti da CJD non evidenzia nessun miglioramento terapeutico significativo. (Masullo et al. 1992).

3.1 Immunoterapie

Da circa 10 anni, si ipotizza una teoria secondo la quale gli anticorpi possono bloccare la propagazione dell‘infezione prionica in vitro in cellule infettate e in vivo in topi affetti da scrapie. (Enari et al. 2001; Peretz et al. 2001; Heppner et al. 2001; White et al. 2003).

Risultati analoghi si ottengono anche per il morbo di Alzheimer (Schenk et al. 1999) e il morbo di Parkinson (Masliah et al. 2005) a conferma dell‘ipotesi che il riscontro positivo ottenuto per le malattie prioniche potesse estendersi anche al trattamento delle malattie neurodegenerative più classiche, basandosi sulla convinzione che queste patologie sono tutte caratterizzate dall‘accumulo di proteine a livello cerebrale.

È, quindi, fondamentale studiare un‘immunoterapia efficace in grado di garantire anticorpi anti PrPres contro le malattie prioniche e anti amiloide e anti -sinucleina contro,

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L‘ipotesi di vaccini contro la neurodegenerazione rappresenterebbe la svolta nel limitare i devastanti effetti neurologici causati da queste patologie, nel migliorare la condizione di vita nei soggetti affetti e nel prolungare l‘aspettativa di vita, aprendo prospettive favorevoli per il futuro. (Burchell et al. 2016).

3.2 Immunizzazione passiva

La prima strategia di immunizzazione studiata è quella passiva, ottenuta grazie alla somministrazione di preparati ricavati dal plasma di soggetti già immuni che sviluppano un adeguato livello anticorpale nei confronti dell'agente patogeno in causa.

Si sviluppa un potenziale vaccino che abbia come target un epitopo PrP presente dopo l‘anomalo ripiegamento proteico in grado di produrre una risposta anticorpale PrPsc

specifica. (Madampage et al. 2013).

Questo anticorpo policlonale (SN6b) si lega ad una proteina prionica bovina con una mutazione T194A [bPrP (T194A)], la quale è identica alla mutazione umana T183A, nota per causare demenza familiare con insorgenza precoce. (Grasbon-Frodl et al. 2004). I risultati di questi studi mostrano sostenuti livelli di IgG PrPsc specificinel siero, senza effetti negativi per la salute dell‘animale.

Anche la vaccinazione di topi Tga20 prioni-sensibili con l‘antigene SN6b ha successo, garantendo l‘assenza di evidenze cliniche della malattia, fino a 255 giorni dopo la vaccinazione. (Määttänen et al. 2013).

Nel complesso, l'immunizzazione passiva contro malattie da prioni mostra un significativo prolungamento dei tempi di sopravvivenza e un‘inibizione importante della scrapie dopo l'infezione.

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3.3 Immunizzazione attiva

Un secondo approccio è, invece, quello dell‘immunizzazione attiva grazie alla quale si introducono nell'organismo sostanze che stimolano l'organismo stesso a produrre per lungo tempo anticorpi a carattere difensivo. Questo processo è definito vaccinazione e, nel contesto sperimentale, utilizzando modelli di roditori con infezione da prione, una serie di studi (Servida et al. 2007) riportano modesti incrementi nel prolungamento della fase preclinica della malattia. Si dimostra come attraverso la vaccinazione per via sottocutanea utilizzando PrP ricombinantidi topi wild-type come immunogeni addizionati all‘adiuvante completo di Freund (costituito da un'emulsione di acqua e olio minerale, un agente

emulsionante e micobatteri) si possa ottenere un aumento del 10% della sopravvivenza nei topi infettati dal prione 139° della scrapie. Questo beneficio si raggiunge solo quando i topi sono immunizzati 14 giorni prima dell‘inoculazione dell‘agente patogeno, mentre non vi è alcun beneficio quando l‘immunizzazione avviene poco dopo o durante l‘inoculazione. (Sigurdsson et al. 2002; Servida et al. 2007).

Le vaccinazioni devono, infatti, suscitare una risposta immunitaria nell‘organismo e, nel caso delle malattie prioniche, devono dar vita ad una risposta anti-PrP più forte e più specifica possibile. Affinché ciò avvenga, si può utilizzare, per esempio, un adiuvante come la deossicitidiloligonucleotidedeossiguanosina (CpG) che è in grado di stimolare le cellule T e le cellule B, le quali agiranno contro le PrP. In altri studi, invece, si utilizzano vettori virali e batterici altamente immunogenici che codificano la sequenza PRNP (gene che codifica le PrP). (Rosset et al. 2004; Nikles et al. 2005;Goni et al. 2008). Un‘altra soluzione è quella di utilizzare un intracorpo, ovvero un anticorpo progettato per essere espresso a livello intracellulare e diretto verso un antigene bersaglio specifico.

L‘intracorpo, infatti, si lega ad una determinata proteina che nel nostro caso potrebbe essere un prione e garantire un‘importante risposta terapeutica contro le malattie prioniche in quanto possono essere progettati determinati intracorpi in grado di legare

specificatamente diversi epitopi di PrP. (Cardinale et al. 2013).

È fondamentale, quando si attua una strategia di vaccinazione, somministrare il vaccino in concomitanza o subito dopo l‘infezione.

È necessaria, infatti, una diagnosi precoce della malattie e ciò è molto difficile se si considera che le patologie causate dai prioni nell‘uomo possono essere asintomatiche anche per anni dopo l‘infezione.

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