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P ARTE I. P ANORAMA CRITICO , STRUMENTI E METODOLOGIE

1.1 Di cosa parliamo quando parliamo di rivolta

Ogni studio deve partire necessariamente dalla definizione del proprio oggetto; a rigore, ogni studio deve partire da una “ricerca” nel senso etimologico della parola. Come ha spiegato Giorgio Agamben, infatti, «a differenza del termine “ricerca”, che rimanda a un girare in circolo senza ancora aver trovato il proprio oggetto (circare), lo studio, che significa etimologicamente il grado estremo di un desiderio (studium), ha sempre già trovato il suo oggetto». Ne risulta che «nelle scienze umane, la ricerca è solo una fase temporanea dello studio, che cessa una volta identificato il suo oggetto».1

Nel caso di questa tesi sulla “macchina mitologica” della rivolta in azione nei romanzi del “decennio lungo” 1968-1980, proprio la ricerca, la definizione dell’oggetto di studio, è stata forse la fase più difficoltosa. L’intenzione primigenia era difatti definire una “mitologia” della rivolta, ricercando le radici profonde dei motivi ricorrenti nelle narrazioni romanzesche delle contestazioni del lungo Sessantotto italiano; tentando dunque di illustrarne la connessione con archetipi e macro-tematiche antropologiche. Si trattava, insomma, di fornire una mappa di queste narrazioni, racchiudendole nel senso compiuto di una dinamica mitologica e nella schematizzazione narratologica di motivi e funzioni ricorrenti, per comprenderne meglio il lascito nell’immaginario dei nostri giorni: un immaginario strettamente relativo a quegli anni, tramandato dalla memoria pubblica e dai media, ma anche un immaginario universale in merito alle forme di sollevazione e di protesta delle comunità in rivolta. Occorreva per prima cosa definire precisamente un tale oggetto, la “rivolta”; e questa ricerca ha preso infatti le mosse da una riflessione sul concetto di rivolta come rituale festivo, come epifania mitica.

Furio Jesi: sopravvivenze del mito nella cultura contemporanea

È questa una delle tesi di Spartakus. Simbologia della rivolta, che uno studioso militante di Torino, Furio Jesi (1941-1980), scrisse attorno al 1969, al crocevia tra l’ondata delle rivolte operaie e studentesche del Sessantotto e l’ombra incombente della lotta armata di pari passo con l’inaugurazione a Piazza Fontana della “strategia della tensione”. Figura a dir poco poliedrica, quella

1 GIORGIO AGAMBEN, Studenti, <https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-studenti>, 15 maggio 2017 (18 settembre 2017).

di Jesi, che nella sua pur breve parabola (morì a soli 39 anni per un banale incidente domestico), attraversò differenti esperienze di studio: dall’egittologia alla scienza delle religioni, all’antropologia, alla letteratura mitteleuropea e alla traduzione, sino alla “critica mitologica” di prodotti culturali decisamente pop e di consumo. Il fil rouge che lega tutte queste discipline esercitate da Jesi, soprattutto a partire dalla fine degli anni Sessanta, è una tensione alla decostruzione dei prodotti culturali che potremmo definire “illuministica”: si tratta di svelare il legame tra i sostrati mitici, che riecheggiano nella letteratura come nella stessa scienza mitologica, e una “religione della morte” che si incarna nella concezione del mito come sostanza e che si può celare anche dietro ogni preteso umanesimo.

Un’analisi simbolica della rivolta divenne progressivamente centrale negli studi di Furio Jesi, che fu un intellettuale immerso completamente nella lotta e nella contestazione politica e culturale di quegli anni. Egli svolse infatti attività sindacale nella CGIL dei lavoratori poligrafici e cartai (per poi abbandonare la confederazione, criticandola da posizioni di sinistra), scrisse su riviste legate alla Neoavanguardia («Quindici» e «Uomini e idee») o alla lotta politica («Resistenza. Giustizia e libertà» e «Nuova Sinistra. Appunti torinesi», di cui fu cofondatore), e nel 1977 partecipò attivamente alle proteste studentesche e alle occupazioni dell’ateneo di Palermo, dove aveva cominciato a insegnare Lingua e Letteratura Tedesca l’anno precedente. Questa militanza marxista-libertaria di Jesi – con «anche un penchant operaista»2 – fa sì che mano a mano, dopo un’attenta riflessione in merito alla scienza mitologica compendiata successivamente nella piccola enciclopedia Mito (1973),3 sia l’utilizzo strumentale e politico del mito a diventare l’oggetto principale delle sue ricerche, a partire dalla ricognizione dei Miti nella cultura tedesca del ‘900 che viene compiuta in Germania segreta (1967).

Jesi adotta la definizione di “mito tecnicizzato” coniata dal suo maestro, lo studioso ungherese di religioni Károly Kerényi (1897-1973),4 per superarla successivamente: essa non può infatti essere totalmente soddisfacente dal momento che contempla, a contrario, la possibilità dell’esistenza di un mito “genuino”. Nel superamento successivo di questa stessa definizione, proprio la concezione sostanziale del mito genuino, come qualcosa che esiste di per sé, viene decisamente confutata dallo studioso torinese, poiché fatta propria dalle culture reazionarie che mirano ad ammantare di una dimensione extrastorica quelle che non sono se non tecnicizzazioni ramificate; a sfruttare cioè un

2 ANGELO D’ORSI, Furio, uomo dello scandalo. Conversazione con Enrico Manera, in MARCO BELPOLITI,ENRICO

MANERA (a cura di), «Riga», 31, Milano, Marcos y Marcos, 2010, pp.70-78, p.7.

3 FURIO JESI, Mito, Milano, Mondadori, 1980.

4 Cfr. KARL KERÉNYI,Dal mito genuino al mito tecnicizzato (1964), in Scritti italiani (1955-1971), Napoli, Guida, 1993,

passato cristallizzato per legittimare con narrazioni fondazionali il presente. Furio Jesi, giunto alla concezione di mitologie «quali prodotti storicamente apprezzabili, dinanzi al problema dell’esistenza del mito non può che esitare; per tutti i tentativi di nominare quell’origine, per tutte le parole segnate da Ur- e da Arche-, non può che provare una ripugnanza sincera»,5 sintetizza efficacemente Andrea Cavalletti, uno dei maggiori interpreti contemporanei dell’opera del mitologo torinese.

A questa contestazione della scienza mitologica reazionaria si aggiunge progressivamente la contemplazione della possibilità di un utilizzo genuino della narrazione mitica a scopi di lotta politica. Una prospettiva totalmente negata da Kerényi, che vedeva con sospetto ogni sconfinamento del mito dal “recinto” della materia religiosa: «tra i miti della storia delle religioni e i miti della storia politica moderna si apre un abisso»,6 sentenziò lo studioso. La definizione di mito tecnicizzato nasce infatti in parte come confutazione di un testo fondante del sindacalismo rivoluzionario dei primi del Novecento, le Considerazioni sulla violenza di Georges Eugène Sorel, dove si proponeva l’assunzione “in blocco” di immagini mitologiche che evocassero sentimenti di impulso per la lotta socialista contro la società moderna.7 Il percorso del mitologo torinese deve però passare forzatamente dalla definizione, pur manichea, del maestro ungherese, nella misura in cui «la distinzione tra epifanie genuine del mito e tecnicizzazioni del mito, o pseudo epifanie, aiuta Jesi a circoscrivere il tema della sua indagine: il problema delle fonti di legittimazione»,8 come spiega David Bidussa. Il punto d’arrivo di un tale passaggio non può però che essere la critica della concezione sostanziale del mito, inscindibile dalla religio mortis che ancora riecheggia in Kerényi e che segna la definizione di una mitologia reazionaria, la quale troverà un’accurata descrizione nell’ultima opera pubblicata in vita, Cultura di destra (1979).9 Un testo che identifica il lavoro di Jesi con una critica culturale a 360 gradi, dove una ricognizione dei residuati mitici nelle culture esoteriche ereditate dal nazismo storico, e conseguentemente dal neofascismo italiano, si lega alla critica del

kitsch nei prodotti letterari di consumo come i romanzi rosa di Liala. Con questo allargamento nel

campo degli studi culturali si esprime definitivamente dunque la vocazione a quella che Enrico Manera definisce una

sistematica applicazione di categorie antropologiche e storico sociali all’analisi del presente, con particolare riferimento alla dimensione mitico-sacrale, per interpretare fenomeni storici dell’attualità,

5 ANDREA CAVALLETTI, Festa, scrittura e distruzione, in F.JESI,Il tempo della festa, cit., pp.7-26, p.11.

6 K.KERÉNYI, Dal mito genuino al mito tecnicizzato (1964), cit., p.117.

7 Cfr. GEORGES SOREL, Considerazioni sulla violenza, Bari, Laterza, 1970.

8 DAVID BIDUSSA,La macchina mitologica, in M.BELPOLITI,E.MANERA (a cura di), «Riga», cit., pp.234-243, p.236.

come la resistenza vietnamita, la guerra dei Sei giorni, la dittatura dei colonnelli in Grecia; oppure l’uso di categorie sacrificali per interpretare la strategia della tensione e la stagione delle stragi.10

Proprio questa attitudine dello studioso torinese, per cui la riflessione sui sostrati mitici è strumento per interpretare la sua attualità (che da una differente prospettiva storica è l’oggetto di questo studio), lo rende tanto più interessante per una definizione della rivolta in senso mitologico.

Nel frattempo, si consuma pertanto l’ineludibile rottura con il maestro, con cui il mitologo aveva intrattenuto sin dal 1964 una amichevole e proficua corrispondenza;11 un carteggio che oggi ci testimonia il dissidio fondamentale tra i due, avvenuto forse non a caso in quello stesso 1968 in cui la passione politica che anima gli studi jesiani vira il suo interesse principale sul tema della rivolta. In quell’anno viene infatti pubblicata la raccolta Letteratura e mito, in cui troviamo il saggio “galeotto” che portò alla polemica tra il maestro e l’allievo, “Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito”. Come ricostruisce Francesco Cassata sulla rivista «L’indice»,

Jesi giudica qui Kerényi come “devoto della religione della morte”, poiché la possibilità di un’evocazione genuina del mito resta “mascheratura umanistica” di una presenza estranea alla vita, se i confini del tempo storico non vengono distrutti in quell’evocazione. E Kerényi, all’ombra della Primavera di Praga, etichetta il concetto di “mascheratura” come “italo-comunista”.12

Colpiscono le parole con cui Jesi risponde alla polemica del maestro, senza nessun tipo di accondiscendenza né di timore reverenziale, ma rivendicando con orgoglio quella che Kerényi lanciava come un’accusa: «se il mio discorso davvero rispecchia l’ideologia “italo-comunista”», dice, «non vi è da parte mia alcuna mascheratura, poiché […] in ogni discorso politico mi sono sempre espresso a favore del comunismo». Egli accetta in pieno, anzi, la frattura generazionale, la lotta dei figli contro i padri, evocando i «tempi oscuri» di «una crisi che si dispiegherà nelle vie e che si combatterà con le armi, una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera».13 L’intestazione della lettera dice: «Torino, 16 maggio 1968»; e vi si può infatti riconoscere in tutto e per tutto un clima sessantottesco.

10 A.D’ORSI,Furio, uomo dello scandalo, cit., pp.71-72.

11 Questa si trova oggi raccolta in F.JESI,K.KERÉNYI,Demone e mito. Carteggio1964-1968, a cura di MAGDA KERÉNYI

e ANDREA CAVALLETTI, Macerata, Quodlibet, 1999.

12 FRANCESCO CASSATA, Da Spartakus alle lettere con Kerényi, in «L’indice», 11, 2000, <https://www.carmillaonline.com/2004/09/05/jesi-spartakus/> (27 ottobre 2017).

Un’analisi simbolica della rivolta, per colmare le lacune del marxismo

Come nota sempre Cassata14, la frattura tra i due studiosi avviene proprio nel momento in cui il mitologo torinese intraprende la scrittura di Spartakus. Il testo fu completato infatti nel 1969, ma per complesse vicende editoriali ha visto la luce solo nel 2000; e non è forse un caso che pochi anni dopo la sua pubblicazione l’interesse per l’opera teorica di Jesi ha conosciuto una meritata reinassance.

Spartakus è la summa e l’apice di una riflessione sulla possibilità utopica di un legittimo uso politico

del mito, di una propaganda genuina che non si riduca a mera tecnicizzazione da parte di chi detiene un potere; nella sua pars costruens è la teorizzazione di «una consapevole mitopoiesi “leggera”, racconto infondato che mostra i segni del lavoro dell’autore» e di una «concezione della ricezione come intermittenza, lampeggiamento e ricorsività, focalizzata sul soggetto di ogni “attualità”»,15

aggiunge Marco Belpoliti.

Se il testo si presenta come una rassegna delle componenti simboliche decantate e attive in un episodio storico e in una sua raffigurazione artistica ben circoscritti dall’autore (l’insurrezione spartachista avvenuta a Berlino nell’inverno 1919 e il dramma di Bertolt Brecht Trommeln in der

Nacht) è molto difficile pensare che la riflessione del mitologo nato a Torino non avesse preso spunto

dai numerosi episodi dell’autunno caldo cittadino, iniziato ben prima dell’anno fatidico 1968: dai moti operai di Piazza Statuto alla rivolta di Corso Traiano all’occupazione di Palazzo Campana, e così via. L’insurrezione spartachista, dunque, dice Belpoliti, «è solo lo spunto, dal momento che a Jesi interessa mettere a fuoco un tema che si lega ai mesi appena trascorsi, quelli della contestazione studentesca e l’autunno caldo delle fabbriche italiane».16 Come possiamo vedere, Spartakus è pertanto un testo complesso e variamente stratificato: l’analisi storico-politica dell’insurrezione spartachista culminata nell’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht e quella letteraria dell’opera di Brecht conducono non solo alla definizione di una simbologia della rivolta, ma anche a un’accurata riflessione sulla mitopoiesi politica e sulla scrittura. Tutti aspetti legati a un’unica tensione utopica che mira a restituire al mito, pur all’interno di una concezione strettamente materialistica, il suo ruolo di impulso alla coesione di una collettività in lotta per emanciparsi.

Ben si presta dunque il libro di Jesi a una lettura che vada oltre il caso di studio; non semplicemente

Spartakus, ma una vera e propria Simbologia della rivolta, con pretese di universalità, e non di meno

con un intento ben preciso: ribaltare la classica svalutazione marxista della rivolta in subordine alla rivoluzione. Questo è infatti il punto più innovativo della teorizzazione politica jesiana; e la qualità mitologica dell’evento insurrezionale gioca un ruolo cruciale in questo ribaltamento. Spartakus va

14 F.CASSATA,op. cit.

15 M.BELPOLITI, Editoriale di «Riga», cit., pp. 8-11, p.11.

infatti a colmare un vuoto, a segnalare un punto debole della teoria marxista ortodossa: il materialismo dialettico, questo uno dei grandi presupposti sottintesi del testo, ha relegato il potenziale simbolico del mito in un cono d’ombra. Come spiega Franco Volpi, l’attimo della rivolta, così come viene concepito da Furio Jesi, «mette in crisi la concezione marxiana della storia e la sua capacità di interpretare gli eventi», in quanto «è soprattutto la scarsa considerazione della simbologia del mito a privare la visione marxista dell’azione politica di quel potenziale esplicativo che invece la mitologia, con i suoi simboli, può sviluppare».17 È questa la grande innovazione apportata da Spartakus in seno alla critica marxista, innovazione tanto più grande se pensiamo che il testo fu composto negli anni Sessanta. Prendendo a prestito le parole di Bidussa, infatti, «si può dire che fino all’inizio degli anni ’70 l’analisi dei fenomeni storico-politici nella cultura della sinistra conosca uno strano destino: sembra esistere una percezione sociologica del comportamento associato, ma non una antropologica. O meglio: l’analisi dei comportamenti prescinde da un’inchiesta complessiva sulle componenti immaginarie».18 È in relazione a questa debolezza che la nuova prospettiva di Spartakus acquista valore. Il lavoro di Jesi ha inoltre aperto uno spiraglio per la possibilità problematica dell’esistenza di un mito di sinistra, di contro alla diffidenza materialista per le narrazioni propulsive e fondazionali; spiraglio a cui si sono affacciati anche nei tempi più recenti teorici e scrittori (pensiamo alla riflessione del critico francese Yves Citton19 e, in Italia, all’opera romanzesca del collettivo Wu Ming, che si richiama direttamente a Jesi).

Se, anzi, nella teorizzazione rivoluzionaria agisce un elemento mitico-simbolico, questo è quasi un rimosso del marxismo materialista, e consiste nella visione escatologica retaggio dell’origine ebraica di Karl Marx: «non a caso», dice Jesi, «si è osservato che Marx rimase fedele alla sua origine ebraica trasferendo l’immagine del popolo eletto nel proletariato mondiale e il patto di Abramo con Dio nella fatalità delle leggi economiche».20 Si può proseguire questa genealogia giudaico-cristiana del marxismo facendo notare come evidentemente la dittatura del proletariato sia un’età dell’oro, quasi un regno dei cieli, cui la rivoluzione comunista è teleologicamente orientata (come fece notare paradossalmente uno degli studiosi del mito della destra storica, Mircea Eliade); ma per Jesi proprio questa visione escatologica è una zavorra di cui la teoria politica deve sbarazzarsi, affinché «il marxismo […] acquisti verità là dove si emancipi dallo pseudomito dell’età dell’oro di perfetta giustizia per limitarsi […] a rendere veri i soli tempi verbali del presente e del futuro prossimo».21

17 FRANCO VOLPI, Travolti da un insolito ribelle, in «Riga», cit., pp.79-80, p.79.

18 D.BIDUSSA, La macchina mitologica, cit., p.237.

19 Cfr. YVES CITTON,Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra, Roma, Alegre, 2013.

20 F.JESI, Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino, Bollate Boringhieri, 2000, p.18.

Non a caso queste riflessioni sull’escatologia comunista sono collocate in incipit del testo (la seconda citazione proviene da uno degli abbozzi originali del primo capitolo), a conchiudere preliminarmente il discorso di Jesi.

Rivolta e rivoluzione: la sospensione del tempo storico

Ma qual è dunque il discrimine tra la rivolta e la rivoluzione? E in che modo viene rovesciata la concezione marxista classica? L’innovazione di Jesi non consiste tanto in nuove definizioni, quanto nel portare alla luce un aspetto della rivolta sottovalutato dai teorici marxisti della rivoluzione: l’esperienza del tempo. La tesi fondamentale di Spartakus è che l’attimo della rivolta costituisca una sospensione del tempo storico, di più, un «rifugio» da quel tempo storico, che, in quanto assimilato dal tempo del lavoro e della produzione capitalistica, costituisce il vero nemico di ogni insurrezione. Probabilmente Furio Jesi, intriso com’era di cultura tedesca, scrivendo il primo capitolo di Spartakus dedicato a La sospensione del tempo storico aveva in mente alcune reminiscenze delle tesi Sul

concetto di storia di Walter Benjamin, il quale affermava che «la consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione» (un

passaggio che citerà in seguito nel saggio sulla Conoscibilità della festa, 1972).22 In particolare, tra queste reminiscenze, c’è un’immagine dell’insurrezione della Comune di Parigi del luglio 1871, molto suggestiva per comprendere la rivolta come atto di rottura del tempo storico:

Giunta la sera del primo giorno di scontri, avvenne che in più punti di Parigi, indipendentemente e contemporaneamente, si sparò contro gli orologi dei campanili. Un testimone oculare, che forse deve alla rima la sua divinazione, scrisse allora:

Qui le croirait! on dit qu’irrités contre l’heure De nouveaux Josués, au pied de chaque tour, Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour.23

Si tratta dunque di un vero e proprio congelamento dell’istante in cui si fanno patenti i simboli con la loro potenza: «ogni rivolta», asserisce Jesi, «si può […] descrivere come una sospensione del tempo storico. […] Nello scontro della rivolta si decantano le componenti simboliche dell’ideologia che ha

22 F.JESI, Conoscibilità della festa, in ID.,Il tempo della festa, cit., pp.59-113, p.94.

23 WALTER BENJAMIN, Sul concetto di storia, in ID.,Opere complete. Scritti 1938-1940, vol.VII, a cura di ROLF

messo in moto la strategia, e solo quelle sono davvero percepite dai combattenti». In funzione di questo emergere degli elementi simbolici, ogni atto non è più veramente inquadrato in una strategia, in un continuum storico, ma vale di per sé. Tutto viene vissuto in modo assoluto, «l’avversario del momento diviene veramente il nemico, il fucile o il bastone o la catena di bicicletta divengono veramente l’arma, la vittoria del momento – parziale o totale – diviene veramente, di per se stessa, un atto giusto e buono per la difesa della libertà, la difesa della propria classe, l’egemonia della propria classe».24 In queste pagine la trattazione jesiana si fa densa, tratteggia immagini concrete della rivolta; si può nondimeno notare en passant come lo studioso torinese abbia inserito in queste righe alcuni riferimenti, alcune strizzate d’occhio che fanno pensare alla Torino degli anni Sessanta piuttosto che alla Berlino del 1919 (quella «catena di bicicletta» tra le armi dei rivoltosi). E questa dimensione temporale alterata non si riflette nella storia, ma viene esperita direttamente e istantaneamente dai singoli che compongono la comunità in lotta: come spiega Enrico Manera, «mentre il tempo della rivoluzione è lineare, storico e quotidiano, il tempo percepito nella rivolta è lampeggiante, mitico e festivo», e di conseguenza il gesto collettivo dei rivoltosi, che pure sembra relegato in un breve arco temporale che non consente di incidere significativamente sullo stato delle cose a lungo termine, «sopravvive miticamente, oltre e meglio delle realizzazioni storiche di una rivoluzione riuscita».25Si apre dunque uno squarcio verso una dimensione negata al lungo termine della progettazione rivoluzionaria: qui risiede l’epifania mitica. La differente esperienza del tempo vissuta dai rivoltosi porta a una diversa concezione del tempo nella teorizzazione politica. Tornando

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