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P ARTE II MITOPOIESI

P ARTE II. M ITOPOIESI

2.1 Una foto, una dinamica mitologica

Nelle pagine precedenti, per definire il contesto storico in cui si svolgono le rivolte rappresentate nei testi oggetto di questo studio, abbiamo utilizzato il termine “Sessantotto” in un’accezione ampia, definendolo come un decennio lungo della contestazione che (almeno) dall’anno eponimo giunge (almeno) fino al 1980. In realtà, è noto come, in storiografia così come nella memorialistica e nel discorso pubblico, si parli anche di un “Settantasette”, cioè di un nuovo corso della contestazione con forme e caratteri nuovi rispetto al precedente, e in complessa interazione storica con esso. Che si ponga però l’accento sulle continuità o sulle discontinuità tra Sessantotto e Settantasette, in ogni caso trova ampio consenso tra gli storici il fatto che l’attestarsi di una nuova ondata delle rivolte operaie e studentesche sarebbe stata una peculiarità tutta italiana: mentre in altri paesi europei come la Francia o la Germania Ovest i movimenti popolari erano andati via via affievolendosi o rapprendendosi esclusivamente in sacche di lotta armata, in Italia si può parlare, con Diego Giachetti, di «una specie di maggio strisciante, continuo e prolungato nel tempo»; per cui, al di là delle numerose differenze che pure lo storico mette in evidenza, si può tranquillamente affermare che «il movimento del ’77 era il derivato, la conseguenza dell’onda lunga del ’68 italiano». Più precisamente, «in questa continuità temporale, il movimento del ’77 va considerato come elemento di transizione e di passaggio tra la fase che si era aperta con le lotte del biennio ’68-’69 e quella successiva, quale si delinea grigiamente sul finire degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta».1

Se si compila schematicamente una lista delle differenze sostanziali tra Sessantotto e Settantasette, come fa Giachetti, tra queste se ne trova una fondamentale, che costituisce in un certo senso la “dominante” della dinamica della contestazione, dal suo impennarsi sino alla totale decadenza negli anni Ottanta, ricordati come periodo del cosiddetto “riflusso”; e cioè il fatto che «il ricorso alla

violenza fu nel ’68 una risposta alla repressione statale. […]Nel ’77 vi fu, invece, da parte di settori del movimento la ricerca deliberata dello scontro violento». Questa componente, l’utilizzo massiccio

della violenza da parte dello Stato e dei manifestanti, sfociando nella proliferazione incontrollata della lotta armata, avrebbe determinato la “sconfitta” del Settantasette e l’abbandono dei movimenti di massa da parte di componenti che pure avevano appoggiato la contestazione. Per “digerire” in una

1 DIEGO GIACHETTI,Un confronto tra il ’68 e il ‘77, in G.BORGHELLO (a cura di),Cercando il ’68, cit., pp.1084-1091,

narrazione questo emergere perturbante dello scontro armato, per conservare quanto di positivo c’era nelle lotte e nelle innovazioni apportate da Sessantotto e Settantasette condannando allo stesso tempo la violenza, la memoria pubblica ha dovuto sovente ridursi a un certo manicheismo, operando una scissione: innanzitutto tra Sessantotto e Settantasette, e poi, anche all’interno dello stesso movimento “settantasettino”, tra le componenti armate e clandestine e quelle più esistenziali e artistiche (la cosiddetta “ala creativa” del movimento, emersa soprattutto nelle esperienze del DAMS di Bologna e degli Indiani Metropolitani romani). Anche Giachetti, attraverso una semplificazione che pure non manca di inquadrare lucidamente la violenza nel contesto repressivo, riassume:

si potrebbe quasi dire che il movimento del ’68 era originariamente “buono” non tanto nei suoi intenti e propositi, quanto negli strumenti che utilizzava per perseguirli: occupazioni, proteste pacifiche, non violenza, resistenza passiva agli sgomberi. Fu il contesto in cui si trovò a operare (repressioni poliziesche, campagne diffamatorie dei giornali, strage di Milano del 12 dicembre 1969) che lo resero “cattivo”, costringendolo a cercare una risposta che fosse adeguata a quella messa in atto dagli apparati repressivi legali e non […].2

La festosa contestazione del Sessantotto, in seguito a quell’acceleratore storico che è stata la strage di piazza Fontana, si sarebbe dunque mutata in quel tetro periodo ricordato come “anni di piombo”: i movimenti di massa sarebbero dunque dapprima egemonizzati dai e poi degenerati nei gruppi armati, guidati dalla funesta «consapevolezza che, superato l’entusiasmo per lo scoppio spontaneo della rivolta studentesca e operaia, il percorso di lotta contro lo Stato e il capitalismo avrebbe inevitabilmente previsto anche momenti di scontro cruenti».3

La situazione, dal punto di vista storico, è sicuramente più complessa e sfumata di così, dal momento che «il ricorso sistematico alla violenza fu teorizzato da componenti significative del movimento» e «lo scontro con la polizia divenne da parte di alcune componenti un modo di stare in piazza e di manifestare», per cui «non si trattava più di difendersi dalle cariche e dalle aggressioni, ma di attaccare le forze dell’ordine»,4 come ricorda Giachetti. A problematizzare suggestivamente la questione basterebbe poi una delle telefonate giunte alla bolognese Radio Alice l’11 marzo 1977, dopo i violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine svoltisi nella zona universitaria della città in seguito all’omicidio del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso da parte della polizia, in

2 Ivi, pp.1089-1090.

3 Ivi, p.1090.

cui si rivendicava la violenza come consapevole strumento di massa e non come appannaggio di sparuti gruppuscoli di estremisti “infiltrati” e volti a egemonizzare il movimento:

[…] ricordiamo dunque che di tutti i fatti avvenuti oggi a Bologna, tutti i compagni prendono la piena responsabilità. Tutti facevano parte di questo gigantesco servizio d'ordine che si è deciso di fare, tutti insieme, eravamo con le bottiglie incendiarie, con i sanpietrini in tasca, perché quella di oggi era una manifestazione violenta, che tutti avevamo deciso di fare violenta perché questo era l’unico modo per restare vivi […]5

Resta, in ogni caso, il fatto che il nodo della violenza fu cruciale per le sorti del movimento di massa nato con il Sessantotto, determinandone in qualche modo la degenerazione e il suo consumarsi, dal momento che «mai si riuscì ad affrontare il problema della violenza nei termini di una disamina storico-politica che prendesse in considerazione categorie quali la sua inutilità, dannosità o necessità a seconda dei contesti e delle circostanze».6

Lo scopo di questo elaborato non è però mettere in questione da un punto di vista storiografico la

vulgata sulla violenza come fattore di rapida decomposizione del Sessantotto, bensì verificare come

la letteratura di quegli anni (che non eluse affatto il problema, come dimostra La violenza illustrata di Balestrini) si è rapportata a questa norma dinamica del movimento, dalla lotta di massa non violenta (o quantomeno non armata), all’isolamento dei “violenti” e alla loro conseguente sconfitta. Si tratta infatti, in tutto e per tutto, di una dinamica narrativa che assume proporzioni mitologiche nel momento in cui la si guarda attraverso le lenti di alcune macro-categorie antropologiche. Il passaggio dalla dimensione collettiva della lotta a quella individuale, in effetti, segue il pattern di un rituale festivo, che, dopo l’epifania che svela alla comunità la propria coesione (quella stessa epifania di cui parla Jesi in Spartakus), sfocia nel sacrificio violento, allo stesso tempo apoteosi e annuncio della conclusione della festa stessa.

È pacifico infatti parlare, per quanto riguarda i movimenti degli anni Settanta, di una vera e propria “ideologia della festa” che emerse con le sue contraddizioni in almeno due eventi traumatici7 che ne

5 Dall’archivio multimediale Le voci di Radio Alice (Marzo 1977), disponibile in

<https://www.radioalice.org/index.php?option=com_content&view=article&id=6&Itemid=108> (19 marzo 2018).

6 D.GIACHETTI,op. cit., p.1091.

7 L’utilizzo della nozione di “trauma” è senza dubbio problematico: nel presente elaborato il concetto è stato impiegato in un senso elastico ed estensivo, che non comporti forzatamente una visione psicologizzata della società per cui il discorso scientifico che rende conto delle esperienze individuali viene affermato pacificamente come chiave per descrivere in modo altrettanto valido anche le esperienze collettive. Alla base di una simile visione ci sarebbe infatti la convinzione che la società risulta dalla sommatoria di più individui, senza tener conto della relazione tra loro e del fatto

decretarono il fallimento, tetre premonizioni di una degenerazione della dimensione festiva e vitale in scontro mortifero: il Festival di parco Lambro (Milano) del 1976 e il Convegno contro la repressione tenutosi a Bologna nel settembre 1977. Nella festa del proletariato giovanile organizzata a Milano dalla rivista «Re Nudo» in collaborazione con Lotta Continua insieme ad anarchici e autonomi, «le contraddizioni politiche e culturali interne al movimento e ai suoi spezzoni organizzati esplodono violentemente rivelando di colpo i limiti dell’ideologia della festa», con il conseguente «trauma per tutti poiché ci si trova di fronte la realtà per come è: solitudine, violenza, miseria materiale moltiplicata per 100.000 giovani».8 Il fallimento del festival di parco Lambro ha lasciato tracce anche nel cantautorato, come per esempio nella canzone Un tranquillo festival pop di paura (1977) di Gianfranco Manfredi, in cui una festa popolata da «feticci vestiti da persone» alle quali «sembra di star bene» suscita questa amara constatazione finale: «ed anche qui nel rito c’è la

contraddizione / nella felicità la nuova repressione / il parco è ormai nascosto è tutto una latrina / abbiamo fatto il punto e niente è come prima».9 Per dirlo invece con le parole più “tecniche” della rivista «A/traverso», «l’ideologia della festa e della vita quando il nuovo soggetto non riesce a comprendere sé stesso come figura interna alla composizione di classe in modificazione è un’ideologia consolatoria, cattolica, e in ultima analisi funzionale al disegno di ghettizzazione ed emarginazione degli strati di tempo sociale liberato dal lavoro»10.

Anche il convegno bolognese, organizzato per una riflessione collettiva sull’azione politica nel contesto dell’inasprimento illiberale della legge Reale seguito ai fatti del marzo 1977, vide una massiccia partecipazione, raccogliendo anche da Parigi l’appello contro la repressione in Italia firmato da un gruppo di intellettuali francesi. L’incontro si mutò, tra le altre cose, in una «“festa continua” vissuta come bisogno di incontrarsi, parlarsi e contarsi nella ricchezza delle reciproche differenti esperienze», con le presenze ingombranti delle «“truppe” dei gruppi politici organizzati» e degli «“osservatori” delle irrobustite formazioni combattenti».11 Tuttavia, quel rinnovamento delle pratiche di lotta che «A/traverso» aveva prospettato uscendo nel giugno dello stesso anno con il titolo

La rivoluzione è finita, abbiamo vinto (non una battuta ironica, come pure fu percepita da molti, ma

l’auspicio della formazione di una comunità utopica che non seguisse più i vecchi schemi politici)

che questa relazione è governata da leggi, norme e gerarchie più o meno esplicite. Il senso dell’impiego del termine in questo contesto sarà comunque chiarito dai successivi riferimenti ai saggi di Daniele Giglioli Senza trauma e Critica della

vittima (v. infra), nei quali viene messo in evidenza l’utilizzo del “trauma” per la costruzione di un sé collettivo fortemente

identitario.

8 N.BALESTRINI,P.MORONI, L’orda d’oro 1968-1977, cit., pp.519-520.

9 Ivi, pp.522-523.

10 Ivi, p.520.

non avvenne: come ricorda uno dei protagonisti del Settantasette bolognese, «tutti erano convenuti a Bologna con grandi attese che erano andate frustrate. Alla domanda di una soluzione postorganizzativa, il quadro politico riproponeva come risposta il vecchio modello, e gli altri non avevano né l’energia né l’invenzione capaci di dare una nuova soluzione politica, perché una soluzione politica non c’era». È evidente qui come il movimento non abbia avuto più la spinta propulsiva della festa per rinnovarsi e fornire modelli di lotta alternativi allo scontro armato. Le incompatibilità tra “ala creativa” e quadri politici affiorano alla coscienza di massa nella consapevolezza della fine:

il corteo che chiude il convegno, imponente e suggestivo, sfila per ore e ore. Nonostante l’aggressività verbale degli slogan non c’è scontro con la polizia. Alla fine un sottile senso di amarezza, di delusione, di frustrazione riaccompagna la gente nei propri territori e luoghi di vita e di lotta. Tutti si ripromettono di continuare, di andare avanti, ma nessuno sa nascondere a sé stesso la drammatica domanda: avanti come? Avanti dove? 12

Vediamo bene dunque come si tratteggi, anche nelle parole dei protagonisti, una parabola mitologica che dall’entusiasmo collettivo porta alla violenza di pochi, dalla festa al sacrificio: pochi mesi dopo il convegno bolognese il rapimento e l’esecuzione di Aldo Moro compatteranno le forze parlamentari contro ogni tipo di insorgenza armata. Questa dinamica mitologica, dominante delle rappresentazioni del lungo Sessantotto, si ritrova nelle narrazioni che prenderemo in esame; prima però è necessario uno sguardo a una singola foto iconica in cui si è immediatamente condensata. Una ricerca sull’immaginario non può infatti prescindere dalle immagini.

Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977

A Milano, il 14 maggio 1977, un grande corteo contro la repressione sfila per le vie della città. L’escalation violenta del marzo passato è culminata, nella città meneghina, il giorno seguente l’omicidio di Lorusso, con l’assalto armato all’Assolombarda avvenuto in contemporanea a una grande manifestazione a Roma contro la stretta repressiva del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Qui il movimento milanese, pur rinunciando all’attacco diretto contro la Prefettura, dimostra un’inedita potenza di fuoco: tra molotov, pistolettate e colpi di fucile sono in tutto circa trecento le armi che vengono scaricate contro la sede della Confindustria.13 Già in tale corteo, (che, ricordano

12 Ivi, pp.580-581.

Paolo Pozzi e Franco Tommei, «non aveva nulla di allegro e festoso»), «si mostra in filigrana l’opposizione tra la violenza anche dura del movimento e il “discorso sulla guerra” che sarà tipico delle organizzazioni combattenti»;14 sarà dunque questo «l’ultimo corteo in cui si era mostrato il più alto livello di scontro e persino di armamento senza l’attacco alle persone, agli uomini».15 Il 14 maggio lo scontro a fuoco è invece deliberatamente diretto contro le forze dell’ordine: solo due giorni prima, a Roma, negli scontri seguiti a una manifestazione indetta dai Radicali per commemorare l’anniversario del vittorioso referendum sul divorzio, è stata uccisa da un colpo di arma da fuoco la giovane militante Giorgiana Masi, e la componente armata del movimento ha predisposto un piano per la manifestazione che prevede lo scontro duro con la polizia. Inizialmente l’utilizzo delle pistole contro gli agenti non è previsto; il troncone dell’autonomia abbandona però il corteo ufficiale, deviando per manifestare sotto il carcere di San Vittore, e casualmente incrocia in via De Amicis la colonna di polizia del III° Celere, che si schiera in assetto difensivo per far sfilare il corteo. Nonostante l’opposizione di una parte dello spezzone, una squadra armata intraprende l’attacco alle forze dell’ordine. Tra l’attacco e la successiva ritirata non trascorre più di un minuto: nel frattempo sul terreno è rimasto il vicebrigadiere Antonio Custra, colpito da un proiettile in piena fronte.16

Al momento dello scontro a fuoco, in via De Amicis sono presenti almeno cinque fotografi: Dino Fracchia, Paola Saracini, Marco Bini, Antonio Conti e Paolo Pedrizzetti. Quest’ultimo scatta una fotografia che è rapidamente assurta, per consenso pressoché universale, a icona degli “anni di piombo” (fig.7): un autonomo, Giuseppe Memeo – non l’assassino di Custra, che la giustizia ha riconosciuto in un altro sparatore di quel corteo, Mario Ferrandi –, in mezzo alla strada con le gambe piegate e le braccia tese, impugna con entrambe le mani una pistola e rivolge dei colpi contro lo schieramento della polizia. La foto viene pubblicata sul «Corriere d’Informazione» (fig.6) e, appena quindici giorni dopo, Umberto Eco redige un celeberrimo articolo su «L’Espresso» intitolato, per l’appunto: Una foto. Lo studioso alessandrino intuisce subito che «la foto dell’individuo in passamontagna, solo, di profilo, in mezzo alla strada, con le gambe allargate e le braccia tese, che impugna orizzontalmente e con ambo le mani una pistola», in cui – dato fondamentale della lettura – «la figura centrale domina isolata», è «una di quelle foto che passeranno alla storia e appariranno su mille libri», al pari di tante altre immagini, ognuna delle quali «è diventata un mito ed ha condensato

14 PAOLO POZZI,FRANCO TOMMEI,Quegli spari che uccisero il movimento a Milano, in SERGIO BIANCHI (a cura di),

Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli «anni di piombo». Contesti e retroscena, Roma, DeriveApprodi, 2011, pp.127-130.

15 Ivi, p.130.

16 Per tutta la ricostruzione della dinamica del corteo cfr. S.BIANCHI,Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La verità giudiziaria, in S.BIANCHI (a cura di), Storia di una foto, cit., pp.44-54.

una serie di discorsi. Ha superato la circostanza individuale che l’ha prodotta, non parla più di quello o di quei personaggi singoli, ma esprime dei concetti».17 Il presupposto del ragionamento di Eco è che «le nuove generazioni hanno proiettato come componenti del loro comportamento una serie di elementi filtrati attraverso i mezzi di massa», per cui «mai come oggi la stessa attualità politica è attraversata, motivata, abbondantemente nutrita dal simbolico. Capire i meccanismi del simbolico attraverso cui ci muoviamo significa fare politica. Non capirli porta a fare una politica sbagliata». Questa foto testimonia dunque la perturbante emersione degli «uomini della P.38», di quelle mani alzate nelle manifestazioni con «il pollice dritto verso il cielo, altre due dita – l’indice e il medio – unite a mimare la canna di un’arma puntata contro il mondo», del “partito armato” formatosi come risposta a una presunta svolta autoritaria non senza un richiamo mitopoietico alla Resistenza, come ricorda Giorgio Boatti: «il transito delle armi dai depositi partigiani ai giovani che si schierano per “l’antifascismo militante” assume nei primi anni Settanta, in molte località, il significato di un tacito rito di passaggio delle consegne, una sorta di investitura da una generazione all’altra rispetto alla vigilanza contro il fascismo e contro i pericoli di svolte autoritarie».18

Andando più in profondità, la foto di Pedrizzetti è inoltre spia dolorosa di un problema politico, poiché se «da varie parti si è chiesto che il movimento li riconoscesse come corpo estraneo», nel contesto dei movimenti del Settantasette «in sintesi si diceva: sbagliano, ma fanno parte di un movimento di massa».19 Ma una foto non è solo una testimonianza, bensì è la condensazione di una dinamica narrativa, mitologica, e precisamente quella che abbiamo descritto in precedenza. «Cosa “ha detto” la foto dello sparatore di Milano?», si chiede Eco. E si risponde evidenziando lo scarto tra lo scatto di Pedrizzetti e la tradizionale iconografia dei movimenti contestatari e rivoluzionari, rintracciandone altrove la matrice, i riferimenti iconografici:

credo abbia rivelato di colpo, senza bisogno di molte deviazioni discorsive, qualcosa che stava circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata, per almeno quattro generazioni, l’idea di rivoluzione. Mancava l’elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell’eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale: il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell’ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del

17 U.ECO,Una foto, in ID., Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983, pp.96-99, p.98.

18 GIORGIO BOATTI,P.38, in «Doppiozero», 21 febbraio 2012,

<http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/speciale-‘77-colpo-di-pistola> (16 marzo 2018).

West – non più cari a una generazione che si vuole di indiani. Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figurative che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l’idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto “individuale”.20

Come ha recentemente evidenziato Sergio Benvenuto, lo scarto, il trauma, non risiede tanto nella mano armata dell’autonomo: «la “narrazione” […] di sinistra ammette difatti la lotta armata purché essa appaia espressione di un moto di massa, così come la grande onda che si frange fragorosa sullo

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