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P ARTE I. P ANORAMA CRITICO , STRUMENTI E METODOLOGIE

1.4 Una “macchina mitologica” del Sessantotto

Sin dalla descrizione dei presupposti metodologici del presente studio è risultata evidente la difficoltà di dare una definizione univoca del Sessantotto. Questa diventa problematica già nel momento stesso di doverne definire i confini temporali, sia in qualità di termini ante che post quem: come abbiamo visto, prodromi della contestazione sono rintracciabili nelle rivolte operaie dei primissimi anni Sessanta (i moti di Piazza Statuto a Torino sono del 1962); ma Vassalli, per esempio, faceva paradossalmente iniziare il Sessantotto italiano nel 1969, con l’acuirsi dello scontro sociale e della strategia della tensione. Per quanto riguarda la conclusione del fenomeno, è abbastanza pacifico far coincidere il termine della contestazione con il 1980 della “marcia dei Quarantamila” e della strage alla stazione di Bologna; ma, a sua volta, ciò presupporrebbe bypassare ogni analisi delle differenze evolutive tra il Sessantotto e il Settantasette, la “seconda ondata” della rivolta, considerando i due fenomeni in una continuità che storicamente esiste ma che non è scevra di mutamenti significativi. Come per la definizione di “anni di piombo”, pesa anche in questo caso l’influenza di una categorizzazione nata in ambito extra-italiano, ossia quella del Mai 1968 parigino; ciò non toglie, in ogni caso, che un fenomeno così complesso e disperso nella linea del tempo, tra prodromi e lunghi strascichi, non possa essere facilmente compresso in un’etichetta di comodo.

Così come fu disperso nel tempo, il fenomeno fu anche variamente caratterizzato a livello di attori: infatti la cronologia e l’etichettatura del Sessantotto sono fortemente influenzate dalla componente che si vuole porre in risalto, tra quella studentesca, quella operaia o quella culturale in senso più ampio. Un accento sulla componente operaia della rivolta porterebbe per esempio a spostare il fenomeno indietro nella linea del tempo, come abbiamo detto; e così anche una rigorosa evidenza posta sui movimenti universitari, dal momento che la prima occupazione di una facoltà (quella di Sociologia, a Trento) risale al 1966. Ma anche in questa definizione cronologica legata alla categoria sociale ha influito il modello del “Maggio francese”, movimento eminentemente studentesco, che pure possiede determinate peculiarità non assimilabili al contesto italiano. Così, l’accento su una componente piuttosto che un’altra di un fenomeno così sfaccettato ed eterogeneo, porta a giudizi diametralmente opposti anche nel campo dell’interpretazione ex post: da una parte, come abbiamo accennato, c’è chi sottolinea la sussunzione della contestazione a opera del sistema neocapitalistico, dall’altra chi rivendica i progressi a lungo termine in campo di diritti sociali (lo Statuto dei lavoratori del 1970) e civili (il referendum sul divorzio del 1974 e la legge Basaglia del 1978), o anche solamente una vittoria “a strascico” nel campo della morale e del costume (fino all’estremizzazione del

Sessantotto realizzato da Mediaset). Tutto ciò senza nemmeno considerare le difficoltà di una

fermenti contestatari del movimento che più si può descrivere in una corrispondenza omologica con le rivolte, si sviluppano almeno cinque anni prima dell’annata eponima e collassano su sé stessi proprio in corrispondenza dell’esplosione della protesta. Uno sfasamento che non permette di stabilire linee di coincidenza forte tra il campo artistico e quello sociale, e che rendono ancora più difficile racchiudere il fenomeno in una nomenclatura onnicomprensiva.

Così, sembra che il lungo decennio delle contestazioni, compresso nella definizione monumentale di “Sessantotto”, venga ipostatizzato, assuma vita di per sé, laddove un’analisi accurata ci porta a disgregare questa etichetta in tante disomogenee espressioni epifenomeniche, come risulta più evidente nel momento in cui ci si focalizza sulle sue espressioni e rappresentazioni letterarie. Viene dunque il sospetto che non esista, a livello sostanziale, il Sessantotto, ma solo una serie di moti di rivolta più o meno in continuità tra loro appiattiti in una definizione passe-partout non dissimile da quella di “anni di piombo”. Eppure, esiste un Sessantotto visto dalla nostra prospettiva di una cinquantina di anni dopo: esiste il Sessantotto tratteggiato nella memoria collettiva, nella narrazione pubblica e nella memorialistica dei reduci, per non parlare dei riflessi nella letteratura che sono l’oggetto principale del presente elaborato. «Ma l’impressione di chi al Sessantotto guarda da dopo […]», ha detto Andrea Cortellessa, «è che esso – e, si può dire sin da sùbito, nel pieno succedersi degli eventi – sia sempre stato un Mito. Una favola d’identità collettiva, cioè, della quale è impossibile, e in ultima analisi probabilmente inutile, chiedersi l’originaria verità». Sarebbe dunque controproducente tentare di conferire uno “statuto ontologico” al Sessantotto e al suo Mito, dal momento che «la vita del Mito ovvero la sua persistenza nel tempo, ha spiegato Hans Blumemberg, consiste infatti delle sue interpretazioni, delle sue deformazioni, delle sue negazioni: non meno, si vuol dire, che delle sue – per quanto perentorie – affermazioni».1

Le parole del critico romano ci rimandano a quell’immagine del vuoto che, nelle prime pagine della tesi, rintracciavamo al fondo di una ricerca della rappresentazione della rivolta come tema chiave della letteratura coeva: diviene così patente una concezione del Sessantotto come una “forma cava” da riempire a ogni rievocazione, letteraria o no, con dei significati. Anche l’impostazione della ricerca partiva dunque da questo presupposto errato, causato dalla fascinazione indotta dall’oggetto ipostatizzato e considerato come esistente di per sé, al di là di barriere che ne celano la vista e ne impediscono un accesso diretto. Il presente studio non può dunque pensare di prendere in considerazione l’inattingibile “Mito del Sessantotto”, ma solo i prodotti letterari apprezzabili concretamente che a esso rimandano: non si può assumere il mito come oggetto della ricerca, ma solo una mitologia. La problematica che abbiamo progressivamente tratteggiato in queste righe,

problematica di impostazione epistemologica e di «concezione narratologica»2 allo stesso tempo, non è altro che la descrizione del funzionamento di un modello che Furio Jesi stabilì al centro delle proprie ricerche a partire dai primi anni Settanta e che definì “macchina mitologica”.

La macchina mitologica: nascita del modello

Nel 1972 Jesi pubblica sulla rivista «Comunità» il saggio Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, un’originale analisi critica della poesia, in cui vengono inclusi numerosi inserti testuali da Spartakus, libro che aveva terminato di scrivere tre anni prima ma che per vicissitudini editoriali era rimasto inedito (e tale sarebbe restato fino al 2000, venti anni esatti dopo la sua morte). «Se quel libro non era una storia del movimento spartakista ma una “fenomenologia della rivolta”, se in quelle pagine la Parigi del 1968 conosciuta da Jesi si trasfigurava nella Berlino del 1919», spiega Andrea Cavalletti, «qui è Berlino che torna ad essere Parigi, mentre le barricate del Maggio si sovrappongono a quelle della Comune»;3 e pertanto «bisognerà inserire questa lettura di Rimbaud nel contesto ricco e contraddittorio delle lotte per l’emancipazione nell’Italia degli anni Settanta», come ha scritto Martin Rueff.4 La modellizzazione della macchina mitologica nasce dunque strettamente intrecciata alla riflessione simbolica sulla rivolta. Nella Lettura dell’opera rambaldiana, infatti, le immagini dell’infanzia si incrociano con il tema della rivolta dei «diversi», e l’analisi di Jesi trae suggestione dalla leggenda secondo la quale il giovane Rimbaud avrebbe preso parte ai moti della Comune di Parigi del 1871: il componimento fu scritto «“perché lo vedano quelli di Parigi”»,5 pare dichiarasse il poeta a Ernest Delahaye, e «quelli di Parigi», nella lettura di Jesi, sono gli “adulti” dietro le barricate della Comune, a cui la poesia viene portata come un dono, o meglio, come una merce di scambio.

Per conferire alla propria poesia questa qualità di merce, perché possa essere davvero oggetto di uno scambio con «quelli di Parigi» che devono “vedere” non solo la poesia stessa, ma l’entrata di diritto del poeta nel mondo degli adulti, Rimbaud deve costruire il componimento con quelli che Jesi definisce «luoghi comuni»; ed è attorno a questa nozione (già affrontata nel giovanile Le connessioni

archetipiche, 1958) che si sviluppa il saggio. «Luogo comune, nel nostro contesto», specifica il

mitologo, «è una categoria di materia poetica denunciata dalla funzione di merce che è conferita dal

2 E.MANERA,Memoria e violenza. Immagini della macchina mitologica, in «Riga», cit., pp.325-339, p.330.

3 A.CAVALLETTI,Festa, scrittura e distruzione, cit., pp.12-13.

4 E.MANERA,La prima volta della “macchina mitologica”. Immaginazione e costruzione della realtà, in «Riga», cit.,

pp.136-141, p.136.

poeta a una sua determinata opera».6 Si tratta di un’espressione esposta a un’«oscillazione semantica» tale che, «se da un lato essi garantiscono che la novità per eccellenza può oggettivarsi nei novissima, nelle “cose della fine ultima”, e dunque si colora di profezia, dall’altro essi inducono a ricordare che

novissimi in latino significa anche la retroguardia» (come forse avrebbero dovuto ricordare gli

avanguardisti Novissimi nel comporre le loro poesie quando anch’esse, come nel caso di Balestrini, erano consapevolmente materiate di luoghi comuni-parole mercificate). I luoghi comuni sono «moneta cattiva» che «caccia la moneta buona», cioè, fuor di metafora, «non-novità» che, «non appena entra in circolazione, caccia la novità e nel modo più radicale». Così, ammesso che «vi sono opere d’arte che hanno il privilegio d’essere materiate di luoghi comuni e di divenire esse stesse un luogo comune alla superficie della creazione dell’artista», non sarebbe Rimbaud a essersi impadronito dei luoghi comuni per adoperarli; piuttosto, «egli si è aperto ad essi, si è posto a loro disposizione: essi sono giunti, si sono impadroniti dell’esperienza creativa, l’hanno adoperata, così che nell’istante in cui si attuava divenisse una di loro nella sua totalità».7

Andando più nello specifico, i luoghi comuni, nella concezione jesiana, sono atti linguistici affastellati, che secondo Enrico Manera edificano un «mito moderno», facendosi strumenti «di un rituale composto da formule eternizzanti capaci di rinviare a un tempo immobile o cliché nel senso di frasi fatte di un discorso squalificato […]. L’utilizzo di questi topoi consunti, che si direbbero inutilizzabili, è», fuori da ogni intenzione di sterile citazionismo, «la sorgente di una poetica capace di fondere peculiarità dei materiali linguistici e sovversione politica».8 Nel contesto del presente studio, vengono in mente le poesie “composizionali”, i collages e i cut-up operati dal Balestrini “novissimo” tramite il ritaglio di espressioni linguistiche banalizzate e squalificate, in cui la sovversione neoavanguardista si attua proprio attraverso «un uso del linguaggio in cui le parole hanno “un valore di edificazione anziché un valore semantico”».9 Tutto questo nel momento preciso in cui il senso viene sospeso, poiché, come in Rimbaud, «il potere del mito e del suo linguaggio continua a esercitarsi anche in virtù di un nuovo valore semantico di cui si carica quando, perso il significato “primo”, rimane puro significante».10 Se «ogni mito è sempre un prodotto della lingua»,11 i luoghi comuni linguistici sono i mattoncini su cui un mito viene edificato, i “materiali mitologici”, per dirlo con Jesi, che sono le espressioni concretamente apprezzabili del mito stesso.

6 Ivi, p.36.

7 Ivi, p.30.

8 E.MANERA,La prima volta della “macchina mitologica”, cit., p.137.

9 Ivi, p.139.

10 E.MANERA,Memoria e violenza, cit.,p.327.

La riflessione sul Bateau Ivre punta però a problematizzare la fonte di questi “materiali”. Conseguentemente, si pone la questione della loro sostanzialità: «pare legittimo chiedersi in quale misura e in qual modo i luoghi comuni (nel nostro significato) posseggano oggettività. Li abbiamo considerati fino a questo momento come vere e proprie entità, cose, che giungono nell’esperienza creativa dell’artista e se ne impadroniscono. Da dove giungono?»,12 si chiede il mitologo. Il problema della fonte dei “materiali mitologici” costituisce una questione centrale nella riflessione di Jesi degli anni Settanta: il distacco personale da Kerényi si affianca infatti, a partire dal 1968, all’emancipazione intellettuale del giovane studioso torinese dal maestro in merito alla problematica cruciale della sostanzialità del mito. La modellizzazione della macchina mitologica serve infatti a Jesi per superare la distinzione kerényiana, tracciata in una celebre conferenza del 1964, tra «mito genuino» e «mito tecnicizzato»:13 pur distaccandosi, nell’analisi della tecnicizzazione, dalla concezione sostanziale del mito nata in seno ai mitologi della destra storica, Kerényi contemplava ancora la possibilità di una “fonte genuina” del mito. Questo non può essere accettabile, nel contesto del materialismo illuminista di Jesi; occorre invece «rifiutare che il mito sia sostanza, poiché accettare che esso sia tale equivarrebbe ad una colpa di leso umanesimo razionalistico».14 Chiaramente è anche la non trascurabile sfumatura politica della questione che sta a cuore al mitologo torinese: come ricorda Crescenzo Fiore, «il mito come sostanza e realtà operante, magari pienamente significativa solo per pochi iniziati, è sempre stato rivendicato dagli intellettuali di destra e dai fascisti in genere»15

(l’esempio più eccellente in questo senso è costituito dallo studioso di religioni rumeno Mircea Eliade).

Il punto cruciale attorno a cui gira la sua riflessione mitologica è dunque proprio il problema delle fonti: la capacità fascinatoria e fondazionale del mito, così come dei luoghi comuni nel momento in cui essi assumono materia in una mitologia o in un’opera letteraria, risiede esattamente nell’allusione a una dimensione altra, celata e interdetta alla sfera dell’umano, da cui le immagini e le espressioni poetiche attingerebbero. «Così come i miti», i luoghi comuni, per Jesi, sono «innanzitutto qualcosa di cui un’esperienza creativa insiste nel farci credere l’esistenza, tenendocene al tempo stesso ben celata l’essenza»: è qui che il mitologo torinese individua «in funzione una vera e propria macchina mitologica, la macchina mitologica, che produce mitologie e induce a credere, pressante, che essa stessa celi il mito entro le proprie pareti non penetrabili». Chi però indaghi il mito alla luce dello

12 F.JESI, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, cit., pp.49-50.

13 Cfr. K.KERÉNYI, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, cit.

14 F.JESI, Mito, cit., p.106.

stesso «umanesimo razionalistico» di matrice illuminista di Furio Jesi, non può accettare l’esistenza di un’altra dimensione, dalla quale affiorerebbe il mito attraverso gli epifenomeni definiti “mitologie”; così, all’interno della macchina mitologica non può trovarsi che un vuoto:

se i luoghi comuni posseggono esistenza ed essenza oggettive, autonome, essi provengono da un “altro mondo”, poiché solo così possiamo designare un mondo che non è il nostro essendo abitato da loro di fianco a noi, autonomamente da noi, senzachein alcun modo interagiscano con noi: per toccarci, devono giungere. Credere a ciò equivale a credere che il mito esista autonomamente entro la macchina mitologica, situata – come essa stessa suggerisce di credere – al confine dei due mondi. […] Non credere a ciò equivale a non credere nell’esistenza autonoma del mito entro la macchina mitologica; equivale ad essere persuasi che la macchina mitologica sia di fatto vuota (o piena soltanto di sé, che è lo stesso), e che il mito, così come l’essenza dei luoghi comuni […] sia unicamente un vuoto cui la macchina mitologica rimanda.16

Ritorniamo dunque ancora una volta all’immagine del vuoto con cui si apriva questo studio. La macchina mitologica è infatti «un congegno che produce epifanie di miti e che nel suo interno, di là dalle sue pareti non penetrabili, potrebbe contenere i miti stessi – il mito –, ma potrebbe anche essere vuoto»;17 e ciò è tanto più evidente per ciò che riguarda le narrazioni che alludono al Sessantotto come centro fascinatorio, ma al cui interno è difficile trovare costanti narratologiche (l’operazione tentata all’inizio della ricerca). Il Sessantotto, banalmente, non esiste di per sé, ma assume sostanza unicamente nelle sue narrazioni (letterarie – che sono oggetto del presente elaborato – storiche o mediatiche, fortemente influenzate fra loro). Ciò che rimane è una dispersione di materiali mitologici, di luoghi comuni, che sono stati assemblati con tecniche differenti per compiere la mitizzazione del decennio lungo delle rivolte: ed è a partire da un simile vuoto, segno del funzionamento di una macchina mitologica, che si intende procedere all’analisi di questo stesso funzionamento.

Come ha notato Daniele Giglioli, è infatti «a partire dal vuoto di una mancanza» che una macchina mitologica «genera incessantemente un repertorio di figure capace di soddisfare il bisogno che proprio da quel vuoto ha tratto origine»:18 il vuoto di agency, quella nostalgia dell’ultima età eroica della Repubblica, si può rintracciare alla base della recente proliferazione di narrazioni sugli “anni di piombo”, sulla rivolta o sul lungo decennio del Sessantotto in generale. Jesi ha ben spiegato la relazione tra il funzionamento della macchina e quella che ha definito «fame di miti»: «la macchina mitologica è un ordigno che con la sua presenza funzionante, “vitale”, dà tregua alla fame di miti

16 F.JESI, Lettura del Bateau Ivre di Rimbaud, cit., pp.51-52.

17 ID., Mito, cit., p.105.

senza mai soddisfarla interamente. Il suo funzionare rimanda incessantemente al cibo mitico, che però resta inaccessibile, e offre in luogo di quello il cibo mitologico».19 Quello che ci interessa qui è però andare alle origini del funzionamento della macchina mitologica della contestazione, ed è per questo che si è scelto di operare su testi coevi (in un’accezione ampia ma delimitata) agli avvenimenti. L’indagine deve dunque per forza considerare la mitologia del Sessantotto, senza alludere a quel Mito tratteggiato da Cortellessa, descrivibile come una “forma cava” riempita a ogni racconto secondo modalità differenti. Il rapporto tra i materiali mitologici (prodotti apprezzabili della macchina mitologica) qui esaminati e il Mito del Sessantotto è lo stesso che sussiste tra mito e mitologia in generale: «a differenza del mito, la mitologia è qualcosa che certamente esiste e da molto tempo», afferma lapidariamente Jesi. «Se la mitologia, in quanto racconto, è in certa misura sostanza, non è sostanza il mito, ciò che riceve sostanza dalla mitologia», per cui «il mito non ha sostanza al di fuori della mitologia, e dall’istante in cui acquista sostanza è mitologia».20

Tra letteratura e scienza del mito

È evidente, a questo punto, la criticità dell’impostazione di una ricerca sul “Mito del Sessantotto”. Il peccato originale di una tale traccia è il medesimo di una «“scienza del mito”» concepita «quale “scienza” del girare in cerchio, sempre alla medesima distanza, intorno a un cerchio non accessibile: il mito».21 La macchina mitologica infatti è pensata da Jesi non solo come congegno che produce mitologemi facendo credere di attingere alle fonti irraggiungibili del mito, ma anche come dispositivo epistemologico alla base delle stesse discipline mitologiche: una sorta di bias che inficia la validità di tali scienze da un punto di vista umanistico e razionalista. Attribuire sostanzialità al Mito del Sessantotto significa dunque cedere all’inganno della macchina, che «mantiene costantemente separato il mito dalla storia, e lo fa mentre lascia intendere che le formule linguistiche della poesia

giungano a noi da un mondo altro»;22 bisogna invece seguire l’indicazione jesiana sulla «necessità di non lasciarsi “incantare” e anteporre al problema dell’essenza quello del funzionamento dei materiali mitologici»,23 che sono le espressioni storicamente e concretamente apprezzabili di una mitologia. Questa «deve essere intesa come un dispositivo di ordine comunicativo che rielabora archetipi

19 F.JESI,La festa e la macchina mitologica, in ID.,Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea,

Torino, Einaudi, 1979, pp.81-120, p.111.

20 Ivi, pp.105 e 106-107.

21 F.JESI, Mito, cit., p.105.

22 A.CAVALLETTI, Festa, scrittura e distruzione, cit., p.17.

narrativi di origine materiale e sociale, traccia degli uomini nella storia e non voce del sacro o dell’essere», nell’ambito di una peculiare «teoria dell’archetipo, che […] è concepito come un prototipo narrativo o topos, legato ad altri da specifici rapporti di associazione e ricezione, tale da poter essere risemantizzato nel tempo».24

La letteratura rientra a pieno diritto nel campo di indagine dei materiali mitologici prodotti dalla macchina, e anzi diventa progressivamente il campo privilegiato delle ricerche di Jesi a partire almeno da Letteratura e mito (1968), parallelamente all’attività di insegnamento di Lingua e letteratura tedesca presso le università di Palermo prima e di Genova poi. «“Materiali mitologici” sono dunque forme di conoscenza condivisa e immagini del mondo in cui rientrano, oltre che i racconti mitologici

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