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P ARTE I. P ANORAMA CRITICO , STRUMENTI E METODOLOGIE

1.3 Rivolta, linguaggio e straniamento

Definizione del campo

Abbiamo visto dunque come sia un’operazione tutt’altro che semplice e immediata raccogliere un

corpus di testi romanzeschi che abbiano al loro centro la rappresentazione diretta delle rivolte del

decennio lungo. Quest’assenza è dovuta a diversi motivi che vanno inquadrati in una precisa contingenza storico-culturale, tra la crisi della figura dell’intellettuale in Italia a partire dagli anni Sessanta e il netto prevalere dell’azione politica sulla rappresentazione letteraria sostenuta da quei soggetti che avrebbero potuto farsi carico di questa impresa artistica; sarà dunque necessario scavare a fondo per trovare le eccezioni a una simile tendenza generale, correggendo in parte anche l’obiettivo della ricerca per potere definire un campo di indagine preciso, strettamente letterario.

La diagnosi dell’assenza del gesto di supporto alla rivolta non si può d’altronde estendere tout

court ad altri domini artistici. Pensando per esempio al fumetto, basterebbe ricordare il Pentothal

opera prima di Andrea Pazienza, dove gli avvenimenti più violenti del Settantasette bolognese – vissuti attraverso l’esperienza del protagonista eponimo, ma non senza rappresentazioni corali – sono trasposti direttamente nei disegni. Significativa la tavola in cui viene rappresentata la rivolta dell’11 e 12 marzo 1977 avvenuta nella zona universitaria della città, durante la quale un proiettile sparato ad altezza d’uomo uccise il giovane studente di medicina Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua. Pazienza rappresenta in primo piano il volto del suo protagonista che pensa «Tagliato fuori…sono completamente tagliato fuori…», mentre sullo sfondo la rivolta si concretizza in tre distinti elementi visivi: una radiolina che manda gli appelli di Radio Alice al raduno dei manifestanti, un carro armato simbolo della repressione e uno striscione che recita «Francesco è vivo e lotta insieme a noi». Il fumettista marchigiano si sente però in dovere di esplicitare in una nota che occupa un terzo della pagina, giustapposta a questo affastellamento dinamico di simboli:

Mentre lavoravo a queste tavole, nel mese di Febbraio ’77, ero convinto di disegnare uno sprazzo, sbagliando clamorosamente perché era invece un’inizio. [sic]

Ne avessi avuto il sentore, avrei aspettato e disegnato questo bel marzo. Così mi trovo di colpo a non saper più bene che fare.

Ho già consegnato tutto il materiale a Linus venti giorni fa, ma cristo sono cambiate tante cose nel frattempo e tante altre cambieranno sino al giorno in cui il fumetto sarà publicato [sic] che mi sento male e mi do del coglione per non averci pensato. Cioè disegnare fumetti non è come scrivere per un quotidiano.

Se capite cosa intendo.

Allora disegno questa tavola qui e provo a portarla a Linus in sostituzione dell’ultima pagina originale, sperando di fare in tempo.

L’ultima tavola originale aveva al posto del “Fine” di prassi in basso a destra un “Allora è la fine”, che suona decisamente male.

Madonna, vi giuro, credevo fosse uno sprazzo, era invece un inizio. Evviva! Andrea Pazienza, 16 marzo ’77.1

Ovviamente, se «disegnare fumetti non è come scrivere per un quotidiano», tanto più scrivere un romanzo non è come disegnare fumetti. L’esempio di Pentothal ci ricorda però la necessità, sentita da alcuni autori direttamente coinvolti nei fatti, non solo di rappresentare la rivolta, ma anche di supportarla con il gesto artistico, come ben esplicitato dall’«Evviva!» con cui Pazienza chiude la nota, che si rivolge verosimilmente a chi stava dietro quelle barricate di via Zamboni a Bologna.

Vista dunque la difficoltà di raccogliere un consistente numero di testi letterari che rappresentino direttamente la rivolta, lo studio si propone di analizzare le narrazioni immerse in quel contesto storico che trattino il rapporto con l’azione politica e soprattutto che abbiano una portata mitopoietica, di supporto narrativo a tale azione: all’interno di questo corpus sono naturalmente incluse quelle eccezioni alla tendenza generale cui si è accennato, ossia quegli autori che hanno romanzato le barricate, le occupazioni, le insurrezioni, i cortei. Se vi è stato poi, per quanto flebile, un gesto letterario di sostegno mitopoietico alle lotte degli anni Sessanta-Settanta, non vi è mancata una de-mitizzazione, una decostruzione di quei miti che si intendeva edificare; e tanto più interessante sarà descrivere il rapporto tra questo canto e controcanto. Attraverso quali criteri ci possiamo dunque avvicinare alla definizione di un alternativo campo d’indagine? Quali romanzi possono aiutare a comprendere storicamente l’immaginario mitologico sessantottesco legato alla rivolta, che veniva artisticamente prodotto pressoché nei medesimi anni del decennio lungo, da autori che in tale atmosfera erano immersi?

Innanzitutto, è fondamentale definire un criterio cronologico, che incroci sia la data di pubblicazione delle opere, sia la data di nascita degli autori. La ricerca intende infatti esaminare opere composte sul momento, quando la lotta era ancora viva e ancora viva era la necessità di supporto all’azione; non apologie, nostalgie successive, rimpianti dettati dal senno di poi o semplici inclusioni degli avvenimenti storici in un’ottica di letteratura di genere. Prendiamo in considerazione dunque un ampio trentennio, tra il 1960 e il 1990, che va dall’inizio delle lotte – come abbiamo accennato, il Sessantotto inizia almeno un lustro prima dell’anno eponimo, e già nei primi anni Sessanta le

tematiche affrontate nella “trilogia della rabbia” di Luciano Bianciardi suonano come una preconizzazione dello scontro violento – all’inizio del riflusso ideologico (la data-simbolo è il 1980, giorno della cosiddetta “marcia dei Quarantamila” che segnava la fine della contestazione operaia); con qualche anno di strascico che permette di includere opere che non possiamo non considerare come scritte ancora “a caldo”.

In quest’ottica, risulterà opportuno anche adottare un criterio generazionale per quanto concerne gli autori: ci si concentrerà in particolare sulle opere di scrittori nati tra gli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta del Novecento, quindi su chi presumibilmente, per ragioni anagrafiche, ha vissuto in pieno gli eventi del decennio lungo, avendo venti o trent’anni all’inizio del periodo. Non si vuole con ciò proporre l’idea di una generazione di artisti che abbia al suo interno caratteri di intrinseca omogeneità formale e contenutistica dovuta alla comunanza anagrafica, ma solo delimitare con un criterio oggettivo il campo di una ricerca che vuole occuparsi di opere scritte “da dentro” i movimenti; e d’altronde questo criterio non va applicato in maniera rigida, per permetterci di includere anche autori nati in altre decadi e potere così evidenziare le differenze tra queste diverse generazioni nella rappresentazione della rivolta: non a caso abbiamo individuato quella di Bianciardi, nato nel 1922, come una “premonizione”.

Si tratta d’altronde di autori che incarnano profondamente la crisi degli intellettuali radicata nei mutamenti profondi degli anni Sessanta, ed è qui forse lo scarto più evidente rispetto alle generazioni precedenti: Calvino, Sciascia e Pasolini (nati tutti e tre all’inizio degli anni Venti), per citare tre autori che abbiamo utilizzato come riferimenti critici e interpretativi, hanno ancora quella fiducia nella letterarietà e quella capacità di presa di parola che cominceranno a venire meno ai loro successori; ed è evidente nei loro commenti un certo lucido distacco dagli eventi: quello che permette a Pasolini di scrivere tanto Il PCI ai giovani così come la citata Lettera al Presidente del Consiglio.

Proprio queste differenti posture critiche assunte dai diversi attori della scena letteraria italiana di quegli anni evidenzia però il fatto che il criterio generazionale, di cui pure usufruiremo per schematizzare diverse tendenze nel corso di questa ricerca, non va assunto come puro dato biologico: per quanto possa essere suggestivo mettere in correlazione la materia storica rappresentata nelle opere, le modalità della rappresentazione stessa e il decennio di nascita dell’autore, ciò significa cedere a un’ottica meccanicistica. Non esiste un rapporto automatico di conseguenza e causa tra rappresentazione e biografia; e quest’ultima non va intesa come dato biologico, ma semplicemente come collocazione personale nell’ambito di un ampio discorso che animava la scena di quegli anni. Intendiamo pertanto il criterio generazionale non come fatto positivo, bensì come costruzione discorsiva, cui i singoli autori, anche a seconda della loro appartenenza anagrafica, aderiscono di più o di meno. Anche l’apparentamento delle posture di Pasolini, Sciascia e Calvino, per fare un esempio,

in rapporto contrastivo con quella di Nanni Balestrini, non è che una costruzione discorsiva; o meglio, il frutto di una complessa interazione tra differenti discorsi. Un altro prodotto della macchina mitologica del Sessantotto, insomma; ma ciò non significa certamente sminuirne l’influenza sulla materia letteraria.

Fare i conti con la Neoavanguardia

Intersecando i criteri che abbiamo elencato, dunque, il punto di riferimento da cui partire per tracciare i confini del campo di ricerca non può che essere la Neoavanguardia; o meglio, non tanto la Neoavanguardia in sé, non tanto le vicende del Gruppo 63 nello specifico, quanto diversi autori che si sono formati nella Neoavanguardia o che quantomeno ne hanno attraversato le esperienze artistiche con esiti spesso divergenti. Ben lungi dal dichiarare il Gruppo 63 fenomeno letterario più rappresentativo del Sessantotto o degli anni Sessanta in Italia (od “organico” in qualche modo ai movimenti), ci sembra però che uno studio come questo debba proprio partire da quell’esperienza per mappare le narrazioni delle rivolte, considerando le corrispondenze omologiche tra il Gruppo e la contestazione. Se la Neoavanguardia – come recitava un popolare refrain oggi caduto in disuso – non ha prodotto che atti di convegni, essa ha comunque accentrato l’attenzione del dibattito letterario sulla “manutenzione del linguaggio” e ha formato alcuni scrittori che, talvolta prendendo nettamente le distanze dal Gruppo, hanno rappresentato direttamente la rivolta. Rivolta e linguaggio sono le parole chiave del presente elaborato, e sono anche parole chiave della ricerca letteraria della Neoavanguardia, che proprio attraverso tali concetti stabilisce una corrispondenza omologica con i movimenti di protesta. Trovando riduttivo però limitare il campo a scrittori che hanno attraversato i lavori del Gruppo, questo non sarà che il focus della ricerca, il paradigma microcosmico in base al quale ricostruire una mappa delle narrazioni della rivolta a partire dalla metà degli anni Sessanta.

Per quanto riguarda il rapporto tra avanguardia e Sessantotto, al di là delle esperienze isolate dei grandi scrittori nati negli anni Venti che abbiamo citato in più luoghi, il Gruppo 63 rappresenta il più significativo momento di confronto collettivo con le intemperie storiche e culturali. Questo perché, nella ricostruzione di Umberto Eco, la nascita della Neoavanguardia è «un evento generazionale», dunque profondamente immerso nel suo tempo, con tutte le conseguenze: il gruppo è costituito da «giovani formatisi negli anni cinquanta, gli anni della grande pace e del ventennio bianco, quando le lotte universitarie erano nel chiuso tepore degli organismi rappresentativi, e lo spazio esterno era quello della burocrazia partitica, o un impegno privato di approfondimento culturale».2 Al contrario

2 U.ECO, Pesci rossi e tigri di carta, in N.BALESTRINI (a cura di), Quindici. Una rivista e il Sessantotto, Milano, Feltrinelli, 2008, pp.384-398, p.385.

dei predecessori maturati durante il ventennio fascista e la guerra civile, «noi», dice Eco, «siamo arrivati alla Liberazione e alla rinascita del paese che avevamo chi dieci, chi quattordici, chi quindici anni […] siamo stati una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte, ed eravamo pronti a ogni rischio, mentre i nostri maggiori erano ancora abituati a proteggersi l’uno con l’altro».3 Il Gruppo 63 è formato da autori che incarnano dunque il profondo mutamento economico e sociale del secondo dopoguerra, terreno fertile su cui germogliano le proteste del Sessantotto.

Si tratta inoltre – e questo va riconosciuto come tratto peculiare della Neoavanguardia – di un momento di confronto collettivo, l’unico forse in ambito artistico, che si sovrapponeva a quello politico delle assemblee e delle occupazioni nelle università e nelle fabbriche: in questa caratteristica risiede la fondamentale corrispondenza omologica con la struttura della contestazione sessantottesca. Se questa trovava la sua unità minima nell’assemblea, la stessa cosa accadeva per il Gruppo, che sin dal convegno di Palermo del 1963 si costituì sotto forma di riunioni in cui ognuno degli autori invitati sottoponeva le proprie opere recentemente pubblicate o ancora in cantiere al giudizio del collettivo, impostando in questo modo un dibattito, non di rado molto animato, strettamente attinente ai testi.

La dimensione collettiva e l’appartenenza generazionale sono poi direttamente correlate, e concorrono a individuare la Neoavanguardia come espressione letteraria della contestazione prima della contestazione stessa. Tale relazione è riconosciuta come strutturale anche da alcuni membri, se il critico Fausto Curi, in un convegno tenutosi in occasione del quarantennale della nascita del Gruppo 63, individuava proprio nel «lavoro collegiale» degli scrittori «una delle risposte al costituirsi della società di massa». Tra le innovazioni del gruppo «c’è l’aspetto antagonistico nei confronti della borghesia e della cultura più strettamente legata alla borghesia, ma c’è anche qualcosa di altrettanto importante e nuovo, c’è appunto questa collegialità», per cui «lo scrivere non è più o non può più essere un atto solitario, ma diventa un’operazione che subisce la verifica di un insieme di soggetti i quali controllano il lavoro di un singolo, mentre questo lavoro si fa».4 Lo stesso Eco d’altronde in un’intervista del 2013 trovava proprio nel cataclisma sociale maturato in seno al boom economico il sostrato adatto per l’aggregazione; ma proprio il carattere politico di questa aggregazione finì per prevalere su quello artistico, e questa, come vedremo, è una delle cause della spaccatura del gruppo. Per lo studioso nato ad Alessandria, «l’ultima possibilità data a una generazione di fare gruppo fu il ‘68, ma non era un gruppo letterario bensì politico. Diciamo che molte di quelle energie che in un’altra

3 AA.VV.,Il gruppo 63 quarant’anni dopo. Bologna, 8-11 maggio 2003. Atti del convegno, Bologna, Pendragon, 2005,

p.33.

epoca sarebbero confluite in un’attività letteraria allora confluirono nella politica».5 In ogni caso, un tentativo di collettivismo artistico in senso antagonista ci fu; e questo rappresenta un dato significativo per chi vada in cerca di una corrispondenza tra lotte del Sessantotto ed elaborazione letteraria.

Una piena coscienza di tale correlazione tra contestazione e Neoavanguardia si ritrova anche negli scritti di quegli anni, mostrata in particolare da Edoardo Sanguineti. Egli utilizza proprio il termine «omologia» allorché, nel 1966, descrive in un articolo la natura delle relazioni tra Avanguardia,

società, impegno: «l’avanguardia si costituisce, alle radici, nella forma della contestazione, e […] tale

contestazione, nell’atto stesso in cui si genera sul terreno estetico, mette in causa, immediatamente, la struttura tutta dei rapporti sociali». Per quanto il Gruppo possa covare le ambiguità che vedremo in seguito, ne risulta che «la dialettica di ordine e di avventura, su cui tipicamente si fonda l’avanguardia, non soltanto si verifica insieme, organicamente, a livello dell’arte e a livello dei rapporti economico-sociali (non per elegante analogia, ma per solida omologia, strutturalmente insomma) ma è, per così dire, interiorizzata, in quello che è l’aspetto economico-sociale, dall’aspetto estetico stesso».6 Una relazione del tutto simile è poi quella descritta a posteriori anche dal critico Andrea Cortellessa: secondo i dettami della scienza della cultura di Jurij Michajlovič Lotman, «in questi momenti climaterici della storia, la serie della “realtà” e quella della “cultura” (altri avrebbe detto, forse, “struttura” e “sovrastruttura”) si intersecano producendo un attrito, una frizione; le scintille che se ne sprigionano generano una luce, intermittente quanto rivelatoria, su entrambe le “serie”». Pertanto «la realtà viene interpretata dalla cultura, ma anche la cultura viene messa alla prova dal suo confronto con la realtà», soprattutto «allorché non di un singolo pensiero o manufatto artistico si tratti, prodotto di un “‘io’ isolato”, bensì di uno spazio, organizzato in maniera complessa, di molteplici ‘io’ reciprocamente correlati”» (quella dimensione collettiva dell’elaborazione artistica peculiare dell’avanguardia cui abbiamo accennato).

Alla luce di questi postulati culturali, il critico riconosce dunque come l’esplosione culturale sessantottina non possa che andare a occupare quello spazio che era stato aperto a partire da pochi anni prima dal Gruppo 63. «Negli anni in cui si apre la “finestra” descritta», dice Cortellessa, «nel nostro paese un simile “spazio letterario” e anzi culturale (dalla pronunciata articolazione interdisciplinare in effetti) c’era, e in piena attività: la neoavanguardia».7 Per queste corrispondenze

5 MARCO FILONI,Eco: noi ragazzi del 63, avanguardia da vagone letto, in «Il Venerdì di Repubblica», 1 febbraio 2013,

<http://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/02/20/news/umberto_eco_noi_ragazzi_del_63-134139659/> (7 dicembre 2017).

6 EDOARDO SANGUINETI, Avanguardia, società, impegno, in ID., Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 2001, pp.59-71, pp.62-63.

ci sembra che un’analisi delle rappresentazioni letterarie delle rivolte sessantottesche non possa prescindere da una focalizzazione sulla Neoavanguardia, per poi eventualmente allargare il campo d’indagine.

Occorre però trattenersi da una fallace identificazione del Gruppo 63 come intelligencija organica alla contestazione: com’è noto, la Neoavanguardia era un movimento tutt’altro che omogeneo, spaccato proprio sulla questione del gesto di supporto alle lotte politiche. Per di più, il tutto all’interno di un più ampio dibattito in seno allo schieramento marxista della scena letteraria italiana degli anni Sessanta, in cui sono compresi molti scrittori che per il Gruppo 63 provarono, per dirlo con un eufemismo, scarsa simpatia (spesso del tutto ricambiata). Anche nel rapporto tra Gruppo 63 e osservatori esterni la questione del rapporto con la politica – con il linguaggio politicizzato, nello specifico – è il nodo cruciale: si pensi solo allo scritto di Calvino Sulla neo-avanguardia, dove denunciando appunto «l’egemonia della politica sulla cultura italiana, o meglio: del linguaggio politico su ogni altra dimensione di linguaggio», l’autore ligure ricostruiva decadenza e implosione del Gruppo. L’idée reçue di partenza è che «la neo-avanguardia entrò in crisi perché gli ambienti che dovevano fornire il suo pubblico potenziale furono colti negli anni intorno al ’68 da una politicizzazione divorante, con esclusione d’ogni altro linguaggio»; ma per Calvino, proprio il contrasto all’interno dello schieramento marxista, il traboccare delle contraddizioni, in seno alle quali era stato fondato il Gruppo, portarono alla sua dissoluzione:

già prima, ossia proprio dal ’63, il Gruppo s’era sentito accusare (dai più anziani, allora) d’essere la “letteratura del neocapitalismo”, e aveva cominciato a sentire il bisogno di dimostrare che non era vero, come se discorsi del genere avessero mai potuto avere un senso. Insomma la povertà e infondatezza del discorso politico col suo finto rigore aveva avuto ancora una volta ragione della potenzialità e polifonicità e prensilità del discorso letterario.8

Dal punto di vista di un’analisi marxista, la contraddizione fondamentale della Neoavanguardia risiedeva infatti nella piena integrazione dei suoi membri nell’industria culturale neocapitalistica. Un fatto ben spiegato da Umberto Eco in un articolo sulla rivista «Quindici», e anzi rivendicato contro le accuse di “scalata al potere”, appena pochi anni dopo la fondazione: «il Gruppo non è nato come l’atto di ribellione di giovani inesperti esclusi dal potere, emarginati dal sistema. Quasi tutti i protagonisti del Gruppo, prima di quella aurorale riunione di Palermo ’63, nel sistema c’erano già e amministravano il potere (ovviamente: se di potere si può parlare a proposito della gestione degli spazi tradizionalmente sovrastrutturali)». Non si tentava dunque la conquista di posti di rilievo in

un’industria culturale dalla quale si era emarginati: i membri del Gruppo, anzi, «erano già direttori di collane editoriali, di trasmissioni televisive, collaboravano già a riviste e giornali, con un margine tale di scelta – con un margine talmente “opulento” di decisionalità – che da lì nasceva la loro crisi. Il problema era infatti: come discutere questo potere che erano stati obbligati a gestire?».9 Uno schieramento di “integrati”, dunque, che proponeva una contestazione dall’interno, dai vertici del sistema raggiunti ancora prima di poter contestarlo, dal momento che, sintetizza ancora Eco, «come

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