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LA QUESTIONE RELATIVA ALL’AUTENTICITÀ DELL’OPUSCOLO

2.1 Il dibattito nell’Ottocento

La questione relativa all’autenticità dell’opuscolo ha origine dalla breve annotazione di Xylander (1570), che si esprime con tali parole: “Ego neque praefationem hanc neque opus ipsum magni esse Plutarchi credere possum”. Alcuni secoli dopo ritorna sul problematico argomento Wyttenbach (1821), il quale, prima di esporre le sue considerazioni sull’autenticità dell’opera, afferma che non è dubitabile che Plutarco abbia scritto una raccolta di apoftegmi, dal momento che egli stesso fa riferimento al suo costante lavoro di selezionare e annotare frasi di personaggi celebri. Né costituisce un impedimento a credere che la raccolta, a noi pervenuta, sia plutarchea il fatto che in essa si leggono non solo apophthegmata, ma anche strategemata. Le due tipologie vanno considerate affini per il fatto che entrambe sono utili alla comprensione del carattere di un personaggio. Del resto, osserva lo studioso, -come già ricordavo-, nelle raccolte di strategemata di Frontino e Polieno si rinvengono anche apophthegmata, indizio che le due tipologie erano percepite in modo analogo. Inoltre egli considera cavilloso interrogarsi sulla storicità di tali aneddoti, dal momento che questa pignoleria non viene poi ugualmente applicata agli altri scritti di Plutarco.

Tuttavia Wyttenbach non crede di poter affermare con certezza che la raccolta sia veramente stata scritta dal Cheronese. Se questi avesse raccolto materiale da altri suoi scritti, la raccolta dovrebbe essere più ampia rispetto a quella che

29 possediamo e avrebbe incluso gli apoftegmi che, ad esempio, si leggono nelle

Vite e che qui sono omessi.

Sembra più probabile che il materiale pervenutoci sia stato selezionato ad opera di un compilatore direttamente da una raccolta che Plutarco avrebbe scritto o comunque da scritti plutarchei, per il fatto che “nec in rebus nec in stylo et oratione, exceptis paucis, quid alieni apparet”.

Due decenni dopo Wyttenbach, Benseler (1841) giudica l’opuscolo autentico e ritiene che gli iati evidenziati possano essere spiegati in due modi; si potrebbe ipotizzare che Plutarco avesse semplicemente ripreso alla lettera gli aneddoti come li avevi letti nelle sue fonti o, più probabilmente, che gli iati derivassero da interpolazioni posteriori. Che l’autore dell’opera fosse attento ad evitare lo iato è dimostrato, secondo lo studioso, dall’epistola a Traiano, ove ne ricorre solamente uno.

Sintetico è sulla questione il parere espresso da Westermann (1855), incline a ritenere che l’opuscolo non sia stato composto da Plutarco, ma che sia stato scritto in età posteriore ricavando materiale dalle opere del Cheronese, in particolare dalle biografie. Volkmann (1869), dal canto suo, nega indiscutibilmente l’autenticità sia della lettera a Traiano sia dell’intera raccolta. In primo luogo prende in esame il termine σύνταγμα, con cui il falsario starebbe facendo riferimento alle Vite Parallele (172C καίτοι καὶ βίους ἔχει<ς,> τὸ σύνταγμα τῶν ἐπιφανεστάτων παρά τε Ῥωμαίοις καὶ παρ' Ἕλλησιν ἡγεμόνων καὶ νομοθετῶν καὶ αὐτοκρατόρων·). Poiché il termine, secondo lo studioso, ha il significato di libro, opera, sembra improbabile che Plutarco lo abbia potuto riferire alle sue biografie, che costituiscono un corpus di opere.

30 Altra espressione che viene ritenuta scarsamente comprensibile è la seguente: ἐνταῦθα δὲ [καὶ] τοὺς λόγους αὐτοὺς καθ' αὑτοὺς ὥσπερ δείγματα τῶν βίων καὶ σπέρματα συνειλεγμένους (172C). Cosa vorrebbe dire, si interroga Volkmann, che gli apoftegmi rappresentano il frutto raccolto dalle Vite alla maniera delle messi germogliate dai semi nel terreno? Altrettanto oscura gli appare l’espressione κἀμοῦ λιτά σοι δῶρα καὶ ξένια καὶ κοινὰς ἀπαρχὰς προσφέροντος ἀπὸ φιλοσοφίας (172C), per il fatto che, a suo dire, non è dalle riflessioni filosofiche che nascono gli apoftegmi né gli apoftegmi si possono definire ragionevolmente comuni primizie. Infine come è possibile che l’apoftegma, citato nella parte conclusiva della lettera (172D), sia attribuito al persiano Σειράμνης, nome che non appare in alcun’altra opera dell’antichità? Inoltre tale aneddoto è citato anche da Diodoro, ma riferito al persiano Farnabazo.

Queste osservazioni di tipo linguistico e semantico sarebbero quindi prova incontestabile che la lettera non può essere ricondotta a Plutarco, il quale certamente non avrebbe fatto ricorso ad espressioni dal significato così oscuro. Anzi Volkmann mostra meraviglia e disappunto in merito al giudizio dato da Wyttenbach sullo stile e le scelte lessicali della lettera e che aveva attribuito la lettera ad un imitatore di Plutarco molto abile.

E nemmeno in base al fatto che in alcuni punti della lettera lo iato è evitato, si può credere che l’opera sia autentica; infatti il documento è di dimensioni limitate, per cui non è possibile osservare il fenomeno pervenendo a risultati certi.

31 Quindi Volkmann passa ad esaminare gli apoftegmi, affermando che si potrebbe anche pensare che la lettera a Traiano, opera di un falsario, sia stata aggiunta ad un’opera realmente scritta da Plutarco, che forse aveva deciso solo in un secondo momento di pubblicare una raccolta aneddotica. Tuttavia ciò che fa dubitare della paternità plutarchea è il modo in cui questi apoftegmi vengono presentati al lettore.

Volkmann difatti ritiene che uno scrittore come Plutarco non avrebbe semplicemente messo insieme apoftegmi come un ordinario compilatore, considerando che alla sua epoca raccolte di quel genere già circolavano; avrebbe certamente curato lo stile e la forma dell’opera e avrebbe commentato gli apoftegmi con annotazioni anche storiche, in modo da facilitare la comprensione degli stessi. Avrebbe in definitiva raccolto materiale preesistente, ma non si sarebbe limitato a questo compito, bensì avrebbe personalizzato e riadattato tale patrimonio in base alle sue concezioni.

Altro difetto che lo studioso rimprovera al falsario è quello di aver mescolato

dicta e facta in un’opera che, come preannunciato nella lettera a Traiano,

avrebbe dovuto contenere solamente apoftegmi, dunque parole e non azioni. Tali incoerenze si riscontrano in autori meno accurati del Cheronese, come Polieno, che nei suoi Strategemata aveva inserito anche dicta accanto alle narrazioni di imprese; ma è poco credibile che anche Plutarco si sia reso autore e responsabile di una tale incongruenza.

Lo studioso passa di seguito ad indicare un altro aspetto che gli appare problematico, vale a dire il fatto che molti aneddoti, citati da Plutarco nei suoi scritti, non si ritrovano nella raccolta apoftegmatica e, al contrario, altrettanti

32 aneddoti, riportati nella raccolta, non figurano nelle opere plutarchee. Queste vistose difformità, secondo Volkmann, possono trovare spiegazione solo se si suppone che la raccolta non sia opera di Plutarco. Inoltre non gli appare convincente nemmeno l’ipotesi di Wyttenbach secondo cui la raccolta a noi pervenuta sarebbe stata approntata da un compilatore che avrebbe estratto tali apoftegmi da una raccolta più ampia, il cui autore sarebbe stato proprio Plutarco. Se così fosse, gli apoftegmi dovrebbero in ogni caso mostrare l’impronta dello stile e dell’erudizione plutarchea, mentre essi appaiono disadorni e decontestualizzati.

In seguito Volkmann rileva una serie di discrepanze tra alcuni apoftegmi, citati sia nella raccolta sia in scritti plutarchei, discrepanze che impediscono di ipotizzare che questa raccolta sia derivata da uno scritto di Plutarco. Egli ad esempio osserva che nell’apoftegma 4 di Temistocle (185AB) alcune parole sono attribuite ad Adimanto, invece nella Vita di Temistocle (11, 3) sono pronunciate da Euribiade; come anche nell’apoftegma 1 di Pirro (184C) questi dialoga con i figli, invece nella Vita di Pirro (9, 5) il figlio è solamente uno; se dunque Plutarco fosse autore di entrambe le opere, o se anche la raccolta fosse stata estratta dall’opera di Plutarco, queste contraddizioni non troverebbero spiegazione. Lo studioso conclude la sua analisi affermando che la raccolta non è né attribuibile a Plutarco né è stata ricavata dai suoi scritti; probabilmente essa risale ad un’epoca anteriore rispetto a Plutarco. In merito all’epistola a Traiano Volkmann non riesce a definire in modo risolutivo se essa sia stata scritta dal medesimo autore della raccolta o se si tratti di un falsario che ha voluto far

33 passare una raccolta anonima per un’opera di Plutarco; tra le due ipotesi egli crede che la seconda possa essere più plausibile.

Articolato e dettagliato è anche lo studio di Schmidt (1879), il quale si propone di dimostrare la non autenticità dell’opuscolo.

A premessa della sua analisi, Schmidt passa velocemente in rassegna le considerazioni espresse dagli studiosi precedenti sull’autenticità dell’opuscolo. Il primo ad essere nominato è Xylander, “vir sani iudicii et de Plutarcho bene meritus”, il quale riteneva che né l’epistola a Traiano né il libello si potessero credere opere degne di Plutarco. Quindi si passa a Wyttenbach, il cui giudizio, a parere di Schmidt, non era stato deciso e convinto (“Fluctuavit iudicium Wyttenbachi”), per il fatto che aveva mostrato la sua perplessità nell’attribuire a Plutarco l’epistola prefatoria, ma non si era arrischiato a decidere se l’intero opuscolo fosse “spurius...an germanus”. Le uniche sue parole espresse con più risolutezza (“confidentius”) riguardano l’origine della raccolta di aneddoti; Wyttenbach infatti aveva affermato che l’intero opuscolo era stato estratto dagli scritti di Plutarco ad opera di Plutarco medesimo o di un’altra persona, anche se, rileva ancora Schmidt, “hanc sententiam argumentis firmare supersedit”. Il grande merito che Schmidt riconosce a Wyttenbach consiste nell’aver individuato e annotato numerosi loci paralleli degli aneddoti. Di seguito si esamina il lavoro di Volkmann, il quale affermava e dimostrava non solo che il libro non poteva essere opera di Plutarco, ma che nemmeno poteva essere “ex scriptis Plutarcheis compilatum”.

Dopo questo sintetico excursus, l’autore indica con precisione quali saranno i cardini della sua argomentazione; in primo luogo la sua attenzione si rivolgerà

34 ad illustrare le ragioni per cui l’opera non può essere considerata autentica; in secondo luogo si prenderanno in esame le fonti che sono alla base della costituzione dell’opuscolo.

In principio Schimdt si sofferma a spiegare perché l’epistola a Traiano non può essere considerata autentica. A prima vista l’epistola non sembra presentare “nihil...offensionis”, se si considera che scrittori posteriori a Plutarco avevano tramandato la notizia di un rapporto e di una certa familiarità del Cheronese con l’imperatore. Ma, continua Schmidt, questo dato non collima con l’assenza di questa notizia negli scritti di Plutarco; desta stupore che Plutarco non vi abbia mai fatto accenno nelle sue opere, considerando che certamente ne avrebbe ricavato gloria. Ed ancor di più desta meraviglia il fatto che Plutarco abbia deciso di dedicare a Traiano, tra i tanti libri composti, proprio quello “miserrimum”.

Se inoltre, stando alla testimonianza di Syncellus e Suida, a Plutarco erano state conferite cariche onorifiche da Traiano o Adriano, è impensabile il silenzio di Plutarco a riguardo. Pertanto, conclude Schmidt, “Plutarchum igitur Traiano familiaritate coniunctum ab eoque muneribus quibusdam praefectum fuisse prorsus negandum est”. Da dove si sia originata questa falsa notizia, è difficile stabilirlo, ma è probabile che Syncellus e Suida l’abbiano recepita da scrittori anteriori.

Dopo aver dimostrato che l’epistola non può essere attribuita a Plutarco in virtù del fatto che non era fondata la notizia della sua familiarità con Traiano, lo studioso aggiunge ulteriori motivazioni ad avallare la sua tesi.

35 Nell’epistola lo scrittore fa riferimento alle biografie plutarchee “tamquam opus quoddam perfectum et absolutum”, affermazione sorprendente, se si considera che le Vite sono state composte “aetate provectiore”. Il libello, a questo punto, dovrebbe essere una delle ultime opere composte da Plutarco, cosa alquanto improbabile. E nel caso si voglia ascrivere l’opera al periodo giovanile del Cheronese, la difficoltà è determinata proprio dal riferimento preciso alle Vite nell’epistola, poiché è impossibile che in gioventù Plutarco le avesse già scritte. Altro aspetto che mostra una certa incoerenza, è la presenza dei due aneddoti, quello di Artaserse e di Licurgo, posti al principio dell’epistola. Se è vero che il primo ben si accorda con il significato espresso dall’epistola, quello di Licurgo sembra non avere attinenza al discorso (“Lycurgi autem institutum quid sibi velit hoc loco, prorsus non perspicio”).

Quindi lo studioso passa ad esaminare un’altra questione: se l’epistola e l’opuscolo siano stati composti dallo stesso autore o da due autori diversi. Egli ritiene che entrambi siano da attribuire alla stessa persona. Appare evidente dall’epistola che lo scrittore ha letto accuratamente le Vite; infatti oltre a farvi riferimento esplicito, sa bene che in esse sono presenti, accanto alla descrizione di imprese, molti apoftegmi. Inoltre quando afferma che è possibile comprendere l’animo e l’indole dei condottieri più dalle parole che dalle azioni, “id certe est Plutarcheum atque ex ipso Plutarcho a scriptore petitum”. Altri elementi concorrono a supporto della sua ipotesi. In primo luogo Schimdt fa riferimento all’aneddoto di Artaserse, con cui si apre l’epistola, desunto dalla

Vita di Artaserse. Nella sezione degli Apophthegmata relativa ad Artaserse,

36 operi suo inserere nolui compilator? Idcirco nimirum, quia idem iam memoraverat in epistola!”. Analogo è il ragionamento per gli aneddoti di Licurgo e Semiramide, presenti nella prefazione, ma non negli Apophthegmata.

In seguito Schimdt si sofferma ad individuare le fonti, di cui plausibilmente si sarebbe avvalso il compilatore della raccolta apoftegmatica.

In prima analisi lo studioso respinge quanto affermava Wyttenbach, vale a dire che tutti gli apoftegmi dell’opuscolo fossero stati estratti dagli scritti di Plutarco. Infatti dei circa cinquecento apoftegmi contenuti nell’opuscolo, solamente trecento si rinvengono anche nelle altre opere plutarchee; se anche si vuole ipotizzare che alcuni aneddoti erano contenuti nelle opere perdute di Plutarco, “cuncta tamen illuc referri nequeunt”22. Queste discrepanze non si possono quindi spiegare, se si crede che il compilatore abbia desunto gli aneddoti solo da Plutarco.

Poco convincente è anche l’argomentazione di Volkmann, il quale riconduceva gli Apophthegmata ad una collezione preesistente, sebbene non illustrasse la ragione della sua convinzione. Volkmann aveva giustamente osservato che nella raccolta si rinvenivano non solo “dicta virorum”, ma anche molti “facta”, inseriti dal compilatore “perperam”. Questi facta derivano chiaramente, secondo Schmidt, da una fonte storica; pertanto non appare giustificata l’ipotesi che tutti gli aneddoti potessero appartenere ad una collezione più antica di apoftegmi, e dunque dicta, non facta.

22 Scmidt (op. cit., p. 21 n. 31): “Compilatorem praeter Plutarchum alios fontes adiisse ex

Alexandri magni et Catonis apophthegmatis, quae exstant in libello nostro, luculentissime patet; in quibus insunt sat multa, quae neque in horum virorum vitiis neque alibi apud Plutarchum leguntur”.

37 L’errore sia di Wyttenbach che di Volkmann è in definitiva quello di aver individuato in un’unica fonte l’origine dell’opuscolo. Fonte principale del compilatore furono certamente le Vite Parallele e i Moralia di Plutarco, ma accanto ad essi, costui si servì anche di scritti di altri autori.

Favorevole a riconoscere l’opuscolo quale opera composta da Plutarco è Sass

(1881).

Come premessa alle sue considerazioni sulla raccolta apoftegmatica, Sass cita alcuni passi ben conosciuti delle opere di Plutarco (ad esempio, De cohibenda ira 457E), in cui il Cheronese afferma esplicitamente di aver raccolto aneddoti nel corso dei suoi studi. Che Plutarco abbia quindi preparato raccolte di aneddoti gli appare indubitabile; pertanto Sass si chiede per quale ragione bisogna dare per scontato che le raccolte di aneddoti, predisposte da Plutarco, siano andate perdute, dal momento che a noi è pervenuto, con il suo nome, l’opuscolo in questione.

A dimostrazione dell’inautenticità dell’opera Volkmann aveva rilevato che nella raccolta non si rinvengono solo dicta, ma anche facta, quando invece nella lettera a Traiano l’autore esplicita in maniera programmatica che l’opera sarà un insieme di motti e battute di uomini celebri. Sass replica a quest’accusa, affermando che l’osservazione di Volkmann non è del tutto priva di fondamento, ma essa non può costituire valida argomentazione contro la paternità plutarchea dello scritto. Lo studioso infatti sostiene che si può criticare Plutarco per aver scelto un titolo che non risponde appieno al contenuto, ma è anche vero che non è certamente il primo caso nella letteratura greca in cui il titolo dell’opera sia limitativo rispetto a ciò che poi si legge; inoltre è possibile che,

38 senza rendersene conto, Plutarco si sia discostato parzialmente dal progetto originario, cosa che, afferma Sass, può accadere a chiunque.

Altra accusa di Volkmann, alla quale Sass tenta di dare una risposta adeguata, riguarda lo stile ed il contenuto degli apoftegmi. Volkmann aveva affermato che gli apoftegmi, scritti in modo disadorno e scarno, non attestavano affatto la grande erudizione di Plutarco né la sua preparazione filosofica e neanche la sua perizia di scrittore. Ma Sass ritiene che la brevità degli aneddoti, privati di gravosi commenti e argomentazioni, rispecchia proprio l’intenzione di Plutarco di far emergere un carattere, un comportamento, ricorrendo a poche parole, ad una stringata notizia storica, intenzione che il Cheronese aveva espresso in più occasioni nei suoi scritti. Inoltre è come se in questa raccolta Plutarco avesse voluto far conoscere un aspetto meno serio e riflessivo della sua personalità e avesse mostrato anche il suo lato più brioso e leggero.

Per quanto riguarda lo stile, tra l’altro non considerato unanimemente così disadorno23, Sass ritiene che la raccolta abbia una veste più semplice perché costituita più che altro da materiale che Plutarco raccoglieva nel corso delle sue letture e che poi avrebbe affinato nel momento in cui lo avrebbe in futuro riutilizzato per gli scritti più complessi.

Sulla questione si è soffermato anche Weissenberger (1895), che esamina l’opuscolo nel capitolo intitolato Gli scritti pseudoplutarchei. Come premessa all’indagine egli afferma che non si può mettere in dubbio che Plutarco abbia raccolto gli apoftegmi in un’opera, per il fatto che è l’autore stesso a fare riferimento, in alcuni passi delle sue opere (De coh. ira 457E, Coniug. praec.

23 Sass, ad esempio, cita Westermann (op. cit.), il quale, pur non riconoscendo all’opera la

39 145E, Cat. Mi. 24, 2) al suo impegno nel mettere insieme gli apoftegmi. Un’ulteriore conferma deriverebbe da Stobeo, il quale, come ritiene Weissennberg, disponeva con buona probabilità di tutte le opere di Plutarco; pertanto, quando Stobeo riporta nel Florilegium un aneddoto di Agesilao, che si legge negli Apophthegmata, e vi aggiunge il lemma ἐκ τοῦ Πλουτάρχου, è ipotizzabile che Stobeo avesse letto l’aneddoto nella raccolta putarchea.

Ciò premesso, lo studioso respinge l’idea che gli Apophthegmata, nel modo in cui noi li leggiamo, possano essere attribuiti a Plutarco per una serie di ragioni. In primo luogo egli rivolge l’attenzione alla lettera dedicatoria a Traiano, di cui viene messa in discussione la paternità in relazione alla lingua e al contenuto, anche se Weissenberger non chiarisce questa sua affermazione24. Inoltre la presenza di una lettera dedicatoria rappresenta un unicum nella produzione plutarchea, costituendo ulteriore indizio per ritenere non autentica l’intera raccolta25, insieme al fatto che non si hanno notizie fondate di un rapporto di familiarità dell’autore con Traiano26.

Passando all’esame degli apoftegmi, egli afferma che “appare molto strano che siano messi in fila senza un nesso interno”. L’unica spiegazione possibile è che l’autore della raccolta ha semplicemente estratto gli apoftegmi nell’ordine in cui appaiono negli scritti di Plutarco, in particolare nelle Vite, senza preoccuparsi di collegarli tra di loro. Inoltre egli ipotizza il ricorso anche ad un’altra fonte da

24 Così egli scrive: “All’inizio dell’intera opera c’è una lettera di dedica all’imperatore Traiano,

che tradisce subito il falsario nella composizione, nella lingua e nel contenuto”. A queste parole tuttavia non segue alcuna spiegazione illustrativa

25 Tuttavia lo studioso ricorda che Plutarco con una certa frequenza, indica, nella parte

introduttiva dei suoi scritti, il destinatario.

26 Weissenberger spiega infatti che nelle “falsificazioni dei compilatori” veniva spesso

menzionata e sottolineata l’amicizia tra Traiano e Plutarco; un esempio è costituito dalla Institutio principis ad Traianum.

40 parte del compilatore; in tal modo si può spiegare la presenza, nella raccolta, di apoftegmi che non si riscontrano in Plutarco e si possono giustificare alcune contraddizioni che emergono tra gli apoftegmi della raccolta e gli stessi come si presentano nei testi plutarchei27. Accade infatti che un aneddoto che Plutarco

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