Le prospettive di disgregazione della Jugoslavia
Le divergenze tra le posizioni serbe e quelle di Slovenia e Croazia si aggravarono durante tutto il 1990. Se da un lato il governo di Milošević non aveva mostrato scrupoli a espandere la propria influenza, dall’altro lato Slovenia e Croazia si indirizzarono con sempre maggiore convinzione verso l’indipendenza. Dopo aver favorito la presa di potere di governi amici in Vojvodina e Montenegro, nel 1989 Milošević riuscì a ripristinare il controllo serbo anche sulla regione del Kosovo dove gli albanesi, nonostante i tentativi di resistenza, furono costretti ad una sorta di clandestinità166. Di fronte a tale atteggiamento la comunità internazionale, anche perché distratta da altri eventi, sembrava disposta ad accettare questo tipo di metodo di governo, purché permettesse di congelare le tensioni esistenti in Jugoslavia. Milošević intendeva ripristinare il controllo di Belgrado su Slovenia e Croazia con gli stessi metodi che
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Varsori A., L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna. Il Mulino, 2013, p.136.
165 Ferraris L. V. (a cura di), Manuale della politica estera italiana 1947-1993, Roma-Bari, Editori Laterza, 1996, p.446.
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si erano dimostrati efficaci nel resto della Federazione167, tuttavia nelle due repubbliche del nord tale progetto fallì.
Contrariamente a quanto suggerito dall’Italia e da altri Paesi, la Slovenia e la Croazia decisero di organizzare libere elezioni. Secondo l’Italia, ispirata e sostenuta in questo anche dagli Stati Uniti, il governo federale non avrebbe dovuto permettere che avesse luogo una tornata elettorale nelle singole repubbliche prima che fossero state tenute le elezioni federali. Ciò perché appariva chiaro che in tale contesto sarebbe risultato impossibile il successo di partiti federali e trasversali, o almeno diffusi su buona parte del territorio jugoslavo anche se con colorazioni nazionali più o meno marcate. Si temeva cioè che in questo modo si sarebbe favorita la nascita di una serie di sistemi politici e partitici separati in ogni repubblica, invece di facilitare la nascita di partiti federali. In caso di elezioni nazionali separate avrebbero avuto infatti facile gioco i partiti di ispirazione etnica o nazionalistica, cosa che poi effettivamente avvenne. Sia Marković che Lončar, tra l’altro entrambi croati, erano consapevoli che le elezioni in Croazia ed in Slovenia avrebbero avuto un esito favorevole ai partiti nazionalisti e indipendentisti, ma opporsi a tale processo sarebbe stato, a loro modo di vedere, difficile a causa delle forze ormai in azione nelle due Repubbliche e perché Milošević non avrebbe mai accettato l’indizione di libere elezioni federali, ed in quella fase Marković non era certo nelle condizioni di imporre a Milošević alcunché. Le pressioni italiane su Marković in tale senso furono quindi inutili168.
In Slovenia la spinta secessionista era divenuta forte al punto da spingere il Partito Comunista Sloveno169 a rinnegare il proprio ruolo di partito unico ed accettare la competizione democratica appoggiando, seppur in modo morbido rispetto ad altre forze politiche, le aspirazioni indipendentiste. All’interno della Federazione Jugoslava la Slovenia rappresentava certamente la parte più occidentalizzata del Paese. Infatti nei confronti del nazionalismo centralizzato belgradese la Slovenia rispondeva, diversamente dalla Croazia il cui contrasto con la Serbia era il frutto di una antica rivalità nazionalistica, con una proposta politica e culturale aperta e non dogmatica. Da anni infatti in Slovenia si era formata un’opinione pubblica, anche e soprattutto tra i giovani, che affrontava con irriverenza i richiami ed i miti jugoslavi. La stampa slovena, ad esempio, era piuttosto libera rispetto a quella del resto del Paese, e i tentativi di repressione condotti da Belgrado finirono per ottenere l’effetto opposto
167 Manifestazioni di massa nelle capitali, minacce e intimidazioni. 168 Intervista Amb. Vento.
169 Il Partito Comunista Jugoslavo era, come detto, un partito federale composto dai partiti comunisti di tutte le repubbliche.
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di una maggiore rivendicazione di autonomia170. Inoltre nel Congresso della Lega dei Comunisti tenutosi nel gennaio 1990 a Belgrado la delegazione del Partito Comunista Sloveno si era presentate con l’intenzione di avanzare proposte di riforma molto profonde. Come prevedibile, trovarono in Milošević un oppositore insuperabile ed il Congresso si chiuse con l’abbandono della componente slovena, in protesta contro la gestione del partito171
. In Slovenia il sistema politico venne sbloccato ancor prima che si stabilissero le regole istituzionali per il processo elettorale. Alla Lega dei comunisti si affiancarono una serie di associazioni politiche che si stavano strutturando soprattutto grazie all’energia innovatrice delle loro componenti giovanili. Tali gruppi si collocavano sullo scenario politico in base ai rapporti col regime precedente, ma nemmeno tutti i partiti derivati dal vecchio partito comunista rivendicavano la loro provenienza. Il risultato fu uno schieramento post-comunista diviso in tre partiti, non alleati tra loro. Dall’altro lato invece si trovavano le formazioni nazionaliste e le forze democratiche il cui peso elettorale era in quel momento ancora misterioso, ragione per cui decisero di costituire un cartello. La campagna elettorale slovena partì nei fatti e nei mezzi di comunicazione prima ancora che il percorso istituzionale fosse chiaro. Il Comitato Centrale della Lega dei Comunisti venne convocato per l’ultima volta nel gennaio 1990, quando ormai la via della consultazione elettorale e della democrazia era largamente accettata da tutte le componenti comuniste172.
Le elezioni slovene, tenutesi nel maggio 1990, videro prevalere una eterogenea coalizione denominata Demos173 con circa il 54% dei voti. Primo ministro diveniva il cattolico Alojz Peterle, mentre la Presidenza della Repubblica veniva lasciata, nonostante il Partito Comunista Sloveno fosse per la prima volta forza di opposizione, al comunista Milan Kučan. Ancora più netto fu l’esito del processo elettorale in Croazia, dove salì al potere l'Unione Democratica Croata di Franjo Tuđman174. Dai connotati fortemente cattolici, nazionalisti e
170 Particolarmente esemplare risulta il caso, scoppiato nel 1988, dell’arresto dei direttori della rivista “Mladina” sulla base dell’accusa di aver trafugato documenti militari segreti. Il processo, celebrato non casualmente in lingua serbo-croata, che doveva essere una dimostrazione di forza del potere centrale si rivelò un boomerang. A difesa dei giornalisti nacque infatti un movimento in difesa dei diritti degli accusati che seppe mobilitare migliaia di cittadini in manifestazioni ed iniziative pubbliche.
171 Pirjevec J., Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Il Mulino, 1995, pp.172-173. 172
Lusa S., La dissoluzione del potere. Il partito comunista sloveno ed il processo di democratizzazione della repubblica, Udine, Edizioni Kappa, 2007, pp.288-293.
173 Demokratična Opozicija Slovenije, La coalizione DEMOS comprendeva infatti l'Unione Democratica Slovena (SDZ), l'Alleanza Socialdemocratica di Slovenia (SDZS), i Democratici Cristiani Sloveni (SKD), la Lega Agricola Slovena (KZ-SLS) e i Verdi. Successivamente si unì alla coalizione anche il piccolo Partito Liberale.
174 Hrvatska Demokratska Zajednica – HDZ. Franjo Tuđman aveva combattuto con i partigiani di Tito durante la seconda guerra mondiale, divenendo poi generale dell’Esercito Jugoslavo. Fortemente critico verso il regime comunista durante gli anni ’70 era stato anche imprigionato come dissidente. Fortemente contrario alla politica centralista di Belgrado si era fatto portavoce dei sentimenti nazionalisti croati ed era un noto sostenitore
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antiserbi, il governo di Tuđman non esitò a dimostrare la propria volontà di secessione da Belgrado175. Una volta al potere infatti, oltre a ripristinare molti dei simboli nazionali croati dal forte impatto simbolico, mise in atto una dura politica discriminatoria nei confronti della consistente minoranza dei serbi presenti in Croazia. Ai 600.000 cittadini serbi presenti in Croazia e concentrati soprattutto nella Krajina e nella Slavonia la Croazia revocò lo status di nazione costituente la repubblica e vennero negati diritti civili e politici176.
Di fronte ai risultati delle elezioni slovene e croate e all’immobilismo del governo federale, la reazione della Serbia e di Milošević non si fece attendere. L’intenzione, ormai esplicita, di Slovenia e Croazia (e soprattutto le politiche messe in atto dalla seconda) davano ossigeno alle recriminazioni di Belgrado, permettendo a Milošević di scatenare una guerra ideologica e retorica tesa a solleticare il peggiore nazionalismo serbo. In questa fase le posizioni di Milošević divennero infatti sempre più violente, si susseguirono i richiami al popolo serbo sulla necessità di riunire “tutte le terre serbe sotto un unico tetto” e “tutti i serbi nello stesso Stato”, fino a proclamare l’intenzione di riunire “tutti gli 8 milioni e mezzo di serbi nello stesso Stato”177
.
Il primo terreno su cui Milošević mise in pratica il suo progetto fu la rivolta dei serbi presenti in Croazia contro le autorità croate. Nell’agosto 1990 infatti la Serbia e l’Armata Popolare fomentarono e organizzarono una protesta violenta che ebbe il suo epicentro nella cittadina di Knin, nella Kraijna, dove un funzionario di polizia, allontanato dal Ministero degli interni croato perché serbo, venne posto a capo della ribellione che rivendicava il diritto per le comunità serbe di Croazia di abbandonare Zagabria per riunirsi al governo di Belgrado. Nel febbraio 1991 i ribelli della Krajina, “resistenti” secondo Belgrado, dichiararono la propria indipendenza da Zagabria, costituendo la Repubblica Serba della Krajina178. Il sostegno dell’Armata Popolare e del governo serbo impedì alle forze croate di ristabilire l’ordine nella regione autoproclamatesi secessionista, lasciando la situazione indefinita e pronta ad esplodere.
Nel dicembre 1990 anche la Serbia decise di indire per la prima volta “libere” elezioni parlamentari. Le elezioni si rivelarono però il terreno su cui Milošević, attraverso una retorica fortemente populista e nazionalista ed un sistema di corruzione ed intimidazione, ottenne uno straordinario risultato elettorale che ne consolidò ulteriormente, se possibile, il dominio sul
dell’ipotesi indipendentista.
175 Tanner M., Croatia. A nation forged in war, Londra, Yale University Press, 2010, p.228. 176 Silber L. – Little A., The Death of Yugoslavia, Londra, Penguin Books, 1995, p.115. 177 Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, pp.30-33. 178
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Paese. Il Partito Socialista di Serbia179 ottenne infatti il 46,10% dei voti che gli permisero di occupare 194 seggi dei 250 del Parlamento serbo. Al di là dei mezzi con cui tale risultato era stato ottenuto, l’esito della consultazione dava a Milošević un potere pressoché totale e indisturbato sulla Serbia. A riprova di tale indiscriminato potere Milošević si appropriò in modo totalmente illegale e senza che il Presidente Federale Ante Marković potesse opporvisi del 30% del totale della moneta emessa dalla Banca Centrale Jugoslava per il 1991. Milošević utilizzò i soldi ricavata dalla “grande rapina” per finanziare e ripagare la propria parte politica ed i propri sostenitori nelle forme più varie, dal ripianamento dei debiti contratti, al pagamento delle pensioni. Dopo aver ulteriormente consolidato il proprio potere negli spregiudicati modi appena descritti, Milošević si sentì forte al punto da scatenare incidenti violenti a ripetizione con la Croazia e ad impedire che la Presidenza Federale della Jugoslavia (e quindi il Comandante Supremo dell’Armata Popolare) passasse, secondo il regolare meccanismo di rotazione previsto dalla Costituzione del 1974, al croato Stjepan Mesić.
Poco dopo le elezioni avvenute in primavera, il nuovo governo sloveno promosse un
referendum sull’indipendenza che si tenne il 23 dicembre 1990. L’esito vide il fronte
secessionista prevalere nettamente (88,2% dei suffragi, 93,2% di partecipazione al voto), anche oltre le più positive previsioni e la data della dichiarazione di indipendenza venne fissata a sei mesi di distanza. In teoria il periodo di sei mesi deciso avrebbe dovuto essere finalizzato all’avvio di negoziati tesi a trovare un’intesa negoziale sull’indipendenza, ma il fatto che l’esito del voto referendario fosse stato così chiaro e che l’intera classe politica slovena fosse ormai definitivamente orientata verso la secessione dalla Jugoslavia rendeva esiguo lo spazio per una trattativa180.
Tuttavia gli esiti delle consultazioni elettorali non spinsero l’Italia a modificare le proprie posizioni. Il Governo italiano continuò a puntare sul progetto della Quadrangolare181 e sull’Iniziativa Adriatica. Nel marzo 1990 Andreotti a Washington affermò che l’obiettivo dell’Italia in quella regione era “il mantenimento dell’unità, dell’indipendenza e del non allineamento della Jugoslavia”182
.
Solo quando tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 l’azione internazionale della Slovenia e della Croazia si indirizzò sempre più nitidamente verso l’indipendenza183, anche considerato l’esito del referendum tenuto in Slovenia, l’Italia si convinse a prendere in considerazione
179 Erede del Partito Comunista Serbo, e unito con altre fazioni socialiste. 180
Lusa S., Italia – Slovenia 1990-1994, Pirano, Il Trillo, 2001, p.39. 181 Divenuta Pentagonale con l’adesione della Cecoslovacchia.
182Varsori A., L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna. Il Mulino, 2013, p.137.
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anche ipotesi alternative a quella della semplice difesa della Federazione Jugoslava.
Esistevano infatti almeno tre ipotesi sul futuro di una Jugoslava unita: quella “nostalgica”, sostenuta dai vertici dell’esercito federale e dagli ultimi titoisti, quella strumentale della Serbia di Milošević, e quello riformista e filoccidentale del governo federale di Marković. L’Italia decise di orientarsi verso l’ultima di queste tre ipotesi, poichè sperava di creare un modello associativo consensuale fondato sull’integrazione economica. Iniziativa Adriatica e Quadrangolare erano perfettamente funzionali a questa strategia184.
Nel dicembre 1990 il Ministro degli Esteri De Michelis si recò in Slovenia ed in Croazia, ufficialmente per l’inaugurazione di due nuovi Consolati, dove prese i primi informali contatti con i leader dei due governi. E’ importante sottolineare che il Ministro italiano, benché non si fosse recato in visita a Belgrado, fu accolto ed accompagnato nel suo itinerario dal ministro degli esteri jugoslavo Lončar. In merito al referendum sloveno il capo della diplomazia italiana si espresse in maniera esplicita considerando legittima la consultazione, ma predicando pazienza e affermando di essere contrario ad un distacco che non sarebbe stato accettabile né dall’Italia, né dagli altri Paesi occidentali185
. La richiesta di avviare contatti con l’esecutivo italiano, avanzata dai vertici delle due Repubbliche all’inizio del febbraio successivo, veniva raccolta con qualche imbarazzo da De Michelis, che in un appunto del 5 febbraio 1991 suggeriva al Presidente del Consiglio Andreotti di incontrare informalmente i leader croati e sloveni per far giungere un “segnale della nostra attenzione nei loro confronti”186
.
Nello stesso periodo, a spingere per una riflessione sugli eventi in corso in Jugoslavia era l’ambasciatore italiano a Belgrado Sergio Vento. Alla fine di febbraio egli inviò al Ministro un comunicato in cui registrava il peggioramento della situazione politica e in cui metteva in discussione la linea di collaborazione multilaterale tenuta fino a quel momento dal Governo. Vento registrava lucidamente il deteriorarsi della situazione jugoslava individuando nella mancanza di potere reale del governo federale e nella prevalenza di atteggiamenti estremistici le cause di un possibile aggravarsi della crisi. Secondo l’ambasciatore Vento infine, l’Italia avrebbe dovuto “predisporsi a tutti gli scenari”187
.
Gli scontri scoppiati in Krajina della primavera 1991 valsero a sollecitare ulteriormente le preoccupazioni della Farnesina e del governo, che negli stessi giorni si trovava a fronteggiare
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De Michelis G., “Così cercammo di impedire la guerra”. In Limes 1/1994, p.230. 185 Lusa S., Italia – Slovenia 1990-1994, Pirano, Il Trillo, 2001, pp.37-38.
186 Varsori A., L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna, Il Mulino, 2013, p.138.
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l’esplosione dell’emergenza profughi dovuta al collasso del regime albanese188
. I disordini esplosi in Krajina spinsero quindi l’amb.Vento a rivolgersi nuovamente alla Farnesina nel maggio successivo per sottolineare con parole dure il pericolo dell’emergere in Slovenia, ma soprattutto in Croazia e Serbia di personaggi spregiudicati (Milošević e Tuđman) e che il sostegno accordato fino a questo momento al presidente federale Marković da parte europea fosse insufficiente189.
E’ importante sottolineare che in questa fase, nonostante l’attenzione verso gli eventi in corso sull'altra sponda dell’Adriatico stesse crescendo, la linea italiana di sostegno al mantenimento in vita di una comunità Jugoslava non fu mai posta realmente in discussione. Ben fotografa questo momento della politica estera italiana la risposta che il senatore Claudio Vitalone, Sottosegretario agli Esteri, dette al Ministro degli Esteri croato Davorin Rudolf. Alle richieste di sostegno croate infatti l’esponente democristiano rispose in sostanza che l’Italia teneva prima di tutto al mantenimento della pace, ma che avrebbe preferito che continuasse ad esistere un legame federale. A tali parole faceva eco una battuta pronunciata da De Michelis e riportata dai giornali sloveni in cui il Ministro affermava: “in Europa non c’è più spazio per nuovi Stati, e voi sicuramente non volete trasferirvi in un altro continente”190
. Tale posizione veniva inoltre confermata in occasione di una seduta della Commissione Affari Esteri della Camera dei Deputati con l’appoggio trasversale delle forze politiche italiane191
.
L’Italia quindi puntava ancora su Marković, il quale nella primavera del 1991 avanzò un estremo tentativo di conciliazione192. A ulteriore riprova di tale atteggiamento, quando nel giugno successivo il presidente sloveno Kučan si recò in visita a Roma il Presidente della Repubblica Cossiga mantenne un atteggiamento molto prudente. Tale cautela era tesa a tranquillizzare Belgrado a seguito delle preoccupazioni espresse dal Ministro degli Esteri jugoslavo Lončar all’ambasciatore italiano Vento193. Il Governo italiano riteneva quindi che esistessero ancora importanti margini di trattativa, in tal senso va interpretato il sostegno dato all’iniziativa di creare un panel di esperti avanzata dal Ministro degli Esteri austriaco Alois
188 Cinque anni dopo la morte del dittatore comunista Enver Hoxha, nel marzo 1991, continue manifestazioni di piazza portarono alla caduta del regime comunista. La nascita di un Governo di coalizione non impedì l’esplosione di disordini, aggravati da una situazione economica drammatica. L’Albania precipitò nel caos e nel collasso generale moltissimi cittadini albanesi cercarono di fuggire dal Paese con mezzi di fortuna, diretti principalmente verso l’Italia.
189 Intervista Amb.Vento. 190
Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.35. 191 Camera dei Deputati, III Commissione, 23 maggio 1991.
192 Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.41.
193 Varsori A., L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna. Il Mulino, 2013, p.138.
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Mock194.
Il 7 giugno 1991 il primo ministro sloveno Peterle incontrò a Roma il Presidente del Consiglio Andreotti ed il Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati, il democristiano Flaminio Piccoli, per comunicare che la Slovenia aveva intenzione di procedere alla dichiarazione di indipendenza. Era noto in Slovenia ed in Croazia che certi ambienti cattolici italiani guardavano con favore alle ragioni dell’indipendenza. Marco Kosin, il primo ambasciatore sloveno in Italia, rivelerà che molte personalità politiche italiane avessero accettato la volontà slovena e croata ancora prima che la dichiarazione di indipendenza fosse formalizzata, anche se “tacitamente”195.
Solo tre giorni dopo il Presidente della Repubblica Italiano Cossiga prima e De Michelis successivamente ricevettero a Roma il Presidente sloveno Kučan ed il Ministro degli Esteri Rupel. Le risposte che la delegazione slovena ottenne dai due incontri furono di direzioni opposte, mentre Cossiga aveva in qualche modo rassicurato gli sloveni dichiarandosi a favore del diritto di autodeterminazione sloveno, De Michelis si era dimostrato molto più freddo, dichiarando esplicitamente di non sostenere l’indipendenza slovena, almeno in quel momento196.
Le repubbliche secessioniste tuttavia non erano completamente prive di appoggi in Italia, potevano infatti contare, oltre all’appoggio dei settori cattolici, su altri canali alternativi alla diplomazia ufficiale ed al governo centrale. La strada che i governi di Slovenia e Croazia percorsero nel tentativo di ottenere qualche forma di appoggio internazionale da parte dell’Italia fu quella dei rapporti regionali, favorita dall’esistenza della Comunità Alpe Adria che offriva a tale scopo una organizzazione e un luogo già funzionante e organizzato197. Erano infatti intensi i contatti tra i vertici croati e soprattutto sloveni con settori del mondo politico, soprattutto di area democristiana, del nord-est italiano. A causa soprattutto dei profondi interessi economici, finanziari ed imprenditoriali quindi il nord-est italiano offriva un appoggio alle rivendicazioni indipendentistiche. Per quanto infatti a livello centrale gli interessi economici in gioco fossero di immense dimensioni e relativi all’intera area della Jugoslava federale, lo scambio commerciale ed i rapporti economici di vario genere facevano del nord-est italiano e del nord della Jugoslavia due aree profondamente connesse. A