Maastricht e l’avvio del risanamento economico
Il governo Andreotti VII concluse il proprio mandato alla scadenza naturale della X Legislatura1. Nella Legislatura successiva le esigenze di rinnovamento del sistema emersero in modo dominante e portarono al crollo del sistema partitico italiano per come si era venuto a creare nel dopoguerra. Il periodo 1992-1994 può infatti essere considerato come il periodo in cui due elementi di crisi del sistema italiano agirono nella medesima direzione, portando alla fine della “I Repubblica”. Crisi economica e crisi politica si combinarono delineando una stagione di instabilità e incertezza. Fu in questo periodo infatti che la fine della guerra fredda dispiegò a pieno i suoi effetti sul sistema italiano, mettendo in luce i limiti e le contraddizioni presenti nel Paese.
Peraltro non mancarono, in Italia e all’estero, fosche previsioni di totale disgregazione o fallimento dello Stato italiano. Da più parti veniva rilevata l’incapacità di rinnovarsi di un Paese corrotto e sull’orlo della bancarotta, vittima del fenomeno della criminalità organizzata che lo costringeva ad una sorta di guerra civile strisciante. Nonostante tali cupe previsioni però, il biennio di crisi acuta dell’Italia non sfociò né nella disgregazione del Paese, né nel totale tracollo economico2. Le due crisi, quella politica e quella economica, procedettero parallelamente senza mai coincidere del tutto e, per quanto in modo faticoso e contraddittorio, l’Italia seppe resistere3
. Il biennio 1992-1994 può essere considerati il momento di cesura tra il sistema “vecchio” e quello “nuovo”, che però stentava a nascere e che si configurerà più come una transizione infinita che come un approdo stabile. Il passaggio, secondo un’espressione giornalistica di grande successo ma discutibile4
, dalla prima alla seconda Repubblica.
I risultati delle elezioni politiche del 5-6 aprile del 1992 vennero immediatamente riconosciuti dagli osservatori come un“terremoto politico”, i cui effetti però si riveleranno ancora più
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Vedi Infra.
2 I riferimenti delle prospettive più pessimistiche erano il fallimento dell’Argentina e la disgregazione della Jugoslavia.
3 Lepre A., Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, Il Mulino, 2004, p.346. 4
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profondi di quanto fosse possibile prevedere sul momento. Alla Camera dei Deputati la Democrazia Cristiana registrò un crollo del 4,6%, scendendo così sotto la soglia simbolica del 30% (il risultato esatto fu 29,7%). I risultati elettorali sfatarono anche le speranze di “onda lunga” coltivate nel PSI5
, che segnava anch’esso un arretramento. I lievi mutamenti nei partiti minori dell’area di governo non segnavano uno spostamento di equilibri significativo. La sconfitta maggiore, almeno in termini elettorali, fu però quella dei partiti eredi del PCI. Il PDS infatti alla sua prima elezione politica otteneva un magro 16,1%, mentre Rifondazione Comunista il 5,6%. Il risultato dei partiti nati dalle ceneri del PCI, anche se sommati, indicavano una riduzione del 4,9% dei consensi dell’area comunista o post-comunista rispetto alla consultazione del 1987. La sconfitta nei partiti tradizionali fu quindi pressoché trasversale per le forze di maggioranza e di opposizione.
La gran parte dei suffragi persi dai partiti tradizionali si riversarono su partiti e movimenti di protesta che si ponevano come antitetici rispetto al vigente spettro partitico, di cui criticavano metodi e logiche. Oltre al movimento della Rete, ad affermarsi in maniera travolgente fu la Lega Nord, vera vincitrice delle elezioni, che ottenne l’8,7% dei suffragi. Se si considera che nel 1987 lo stesso movimento aveva ottenuto lo 0,5%, si ha la misura di quanto la protesta dei leghisti contro il sistema partitico esistente avesse saputo attrarre l’elettorato italiano6.
L’arretramento elettorale dei partiti tradizionali testimoniava la perdita di credibilità del sistema politico, ma era anche indicativo di una più profonda crisi dei partiti, sia nella loro struttura, sia nelle loro finalità. Il sistema di radicamento territoriale e di formazione di personale politico si trasformò, dall’essere una necessità, ad un meccanismo di burocratizzazione che si dimostrava più utile al mantenimento e all’arricchimento del partito stesso più che a perseguire reali obiettivi politici7. A questo processo deve essere affiancato il tema, non affrontabile in questa sede, della crisi delle radici ideologiche dei partiti. Negli anni ’80 aveva avuto inizio una mutazione profonda del senso stesso dell’esistenza e dell’appartenenza ad una famiglia partitica ed ideologica. Il crollo dell’Unione Sovietica rappresentò la pietra tombale su una visione ideologica totalizzante della politica. Tale processo avvenne ovviamente per i comunisti, ma allo stesso modo per i partiti che avevano mantenuto il potere soprattutto in funzione anticomunista8.
5 Vedi Infra
6 Tutti i dati elettorali sono reperibili nell’archivio storico delle elezioni del Ministero dell’Interno. Online alla pagina:
http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=05/04/1992&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S &ms=S visitata il 2 settembre 2015.
7 Galli G., I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, BUR, 2010, pp.365-375. 8
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La crisi dei partiti era quindi organizzativa, ideologica e politica insieme e, in un Paese in cui il ruolo dei partiti era stato così fondamentale e determinante per la tenuta del sistema politico e per la stabilità del Paese stesso, il loro tracollo apriva una frattura profonda tra i cittadini e lo Stato9.
Il 25 aprile, in seguito al “terremoto elettorale” del 1992, il Presidente della Repubblica Cossiga si dimise con un messaggio agli italiani in diretta televisiva. La decisione di Cossiga, benché poco incisiva a livello istituzionale dato che il mandato sarebbe scaduto solo pochi mesi dopo, aveva un profondo significato politico. Già con le dimissioni dalla Democrazia Cristiana del gennaio precedente, Cossiga sembrava volersi ritagliare un ruolo in linea con il suo spirito “libero ed indipendente, laico e rinnovatore”. In realtà le dimissioni dalla DC erano figlie soprattutto dell’acuta polemica successiva alla scoperta del “caso Gladio”10
, avvenuta probabilmente per volontà di Andreotti. Cossiga sembrava tuttavia, dopo aver interpretato in modo esuberante il ruolo di Presidente della Repubblica, volersi ergere a protagonista del rinnovamento della vita politica italiana. In tal senso va letta la scelta di dimettersi non di fronte al Parlamento, bensì in un videomessaggio rivolto direttamente ai cittadini, senza alcuna mediazione di carattere istituzionale. Nel suo messaggio Cossiga lanciò un duro attacco ai partiti ed alla maggioranza parlamentare che aveva eletto Giovanni Spadolini alla Presidenza del Senato e Oscar Luigi Scalfaro alla Presidenza della Camera dei Deputati11. Cossiga non voleva conferire l’incarico al governo che si sarebbe formato in seguito alle elezioni, e dimettendosi poneva al Parlamento appena costituito anche il tema di trovare anche un suo sostituto al Quirinale.
La corsa per il Quirinale di Andreotti, anticipata dalle dimissioni di Cossiga, venne di fatto interrotta dall’effetto combinato dell’esito elettorale e dalle ripercussioni politiche dell’omicidio dell’On.Salvo Lima. Lima, uomo di punta della corrente andreottiana della DC in Sicilia e già sindaco di Palermo, il 12 marzo 1992 venne assassinato in un attentato mafioso. L’episodio gettò forti ombre sui legami e sulle complicità del potere politico con quello mafioso in Sicilia, escludendo di fatto Andreotti dalla corsa per il Quirinale12.
La guerra tra lo Stato e la mafia proseguì nella primavera del 1992, e mentre il Parlamento non riusciva a trovare la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica,
9 Su questo aspetto si veda: Scoppola P., La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna, Il Mulino, 1997.
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Cossiga sembrava essere il politico di primo piano più coinvolto in una organizzazione militare illegale dei servizi segreti finalizzata alla lotta militare contro un eventuale invasore, ma che si credeva essere stata attivata per motivazioni ed in circostanze del tutto interne alla vita repubblicana.
11 Lepre A., Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Bologna, Il Mulino, 2004, p.340. 12
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l’attacco contro le istituzioni si fece sempre più deciso. La causa principale dell’offensiva mafiosa fu lo stesso sgretolamento del sistema politico presso cui Cosa Nostra coltivava appoggi e connivenze. Mentre da un lato la protezione di pezzi dello Stato si sfaldava, nell’opinione pubblica e nella Magistratura la battaglia alla criminalità organizzata si era fatta concreta, e minacciava l’intero sistema di potere mafioso nell’isola. Attraverso metodi e sistemi innovativi la magistratura era infatti riuscita, già alla fine degli anni ’80, a mettere in seria difficoltà la mafia siciliana. L’idea, proposta da Rocco Chinnici e sviluppata da Antonino Caponnetto, di istituire un pool specifico di magistrati che sviluppassero analisi ed iniziative coordinate si dimostrò fin da subito efficace. Tra il 1986 ed il 1987 ebbe luogo il primo grande processo contro la mafia, il maxiprocesso di Palermo, che si concluse con più di 350 condanne e durissime pene e sanzioni. La storia del pool antimafia era proseguita, tra alti e bassi per la verità, continuando a minacciare l’esistenza stessa di Cosa Nostra. Il 23 maggio 1992 il magistrato Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta vennero assassinati con un attentato dinamitardo sull’autostrada che conduce dall’aeroporto di Palermo alla città, all’altezza dell’uscita di Capaci13
.
La guerra in corso tra Stato e mafia e la dimostrazione di forza di Capaci indussero il Parlamento a sciogliere ogni riserva e ad eleggere al Quirinale, dopo ben 16 votazioni, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro14. Scalfaro, benché fosse certamente uno dei maggiori dirigenti della Democrazia Cristiana, non era protagonista negli scontri tra correnti interne al partito ed era ritenuto un personaggio al di sopra di ogni sospetto giudiziario.
Nello stesso periodo infatti affioravano le prime inchieste della magistratura che impedirono a Craxi di rivendicare per sé la Presidenza del Consiglio. Nonostante Craxi fosse costretto a fare “un passo indietro” poiché toccato dalle inchieste che coinvolgevano già gran parte della dirigenza milanese del PSI, il segretario poté ugualmente pretendere per il suo partito la Presidenza del Consiglio. Fu lo stesso Craxi infatti a presentare a Scalfaro una rosa di tre personalità del PSI tra le quali scegliere il futuro Presidente del Consiglio. Scalfaro decise di conferire l’incarico al membro della terna meno coinvolto nelle battaglie interne al partito, Giuliano Amato15, professore dal profilo molto simile a quello di un tecnico, soprattutto rispetto alle altre due proposte: Claudio Martelli e Gianni De Michelis16. La genesi del
13 Rogari S.-Manica G., Mafia e politica dall’Unità d’Italia ad oggi: 150 anni di storia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011, pp.209-249.
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Scalfaro era parlamentare ininterrottamente dal 1946, era stato ministro dell’Istruzione, Ministro dell’Interno e nella Legislatura corrente occupava il ruolo di Presidente della Camera dei Deputati.
15 Amato è un giurista costituzionalista che aveva ricoperto i ruoli di Vice Presidente del Consiglio e Ministro del Tesoro nel governo Goria.
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governo di Amato, costituito in una fase di profonda crisi dei partiti e sostenuto da una risicata maggioranza parlamentare, faceva del Presidente Scalfaro il principale punto di riferimento e garante dell’esecutivo.
Nonostante il risultato delle elezioni del 1992 non costituisse un successo per i partiti di governo, nel giugno 1992 nacque il governo guidato dal socialista Giuliano Amato e sostenuto in Parlamento dalla DC, dal PSI, dal PSDI e dal PLI. Il governo Amato, assecondando la volontà di Scalfaro, venne formato da personalità che, benché provenienti dalla politica, potevano vantare specifiche competenze tecniche. Il settore economico era affidato alla “troika” Piero Barucci (DC), Franco Reviglio (PSI), Giovanni Goria (DC), mentre agli Interni veniva chiamato Nicola Mancino (DC) e agli Esteri Vincenzo Scotti (DC), che verrà sostituito nell’agosto successivo, dopo un mese di interim dello stesso Amato, da Emilio Colombo (DC)17.
La scelta di Giuliano Amato da parte di Scalfaro rispondeva a requisiti politici, dato che molti degli esponenti di primo piano dei partiti risultavano interessati dalle inchieste che si stavano allargando a macchia d’olio, e a criteri economici. La fase espansiva dell’economia italiana negli anni ’80 mostrava in questa fase tutte le sue contraddizioni. La crescita del PIL e dei redditi era stata spinta in modo decisivo dall’aumento della spesa pubblica e, di conseguenza, da una esplosione del debito pubblico. Il governo Amato si poneva soprattutto l’obiettivo del risanamento economico del Paese e della ristrutturazione della finanza pubblica. Per capire le dimensioni del problema del debito pubblico italiano basti pensare che nel solo periodo 1988- 1991, quello cioè degli ultimi due governi Andreotti, mentre il PIL era aumentato del 30,7%, il debito pubblico era aumentato del 43,3%18. I governi a guida socialista della IX Legislatura avevano saputo fare peggio non alterava la gravità del problema. Il tema del debito pubblico e della finanza pubblica divenne centrale sia a livello politico, sia a livello comunicativo, tanto più che la questione prendeva un carattere emergenziale soprattutto nel contesto dell’integrazione europea.
La politica estera italiana di questo periodo faticò ad esprimere linee e progetti per il dopo guerra fredda, nonostante alcuni significativi auspici19, soprattutto a causa dell’instabilità politica interna. Il Ministro Scotti si dimise dalla guida della Farnesina dopo appena un mese
17 Il governo era composto inoltre da Martelli (PSI) alla giustizia, poi sostituito da Conso, Salvo Andò (PSI) alla Difesa, Vitalone, Boniver (PSI), Iervolino, De Lorenzo (PLI), Merloni (DC) e altri. I sottosegretari agli Esteri erano tre: Carmelo Azzarà (DC), Giuseppe Giacovazzo (DC) e Valdo Spini (PSI). Quest’ultimo fino al 9 marzo 1993, quando diventò Ministro dell’Ambiente. La lista completa alla pagina: http://www.governo.it/Governo/Governi/amato1.html. Visitato il 2 settembre 2015.
18 Il PIL era salito da 1.091.837 Miliardi di Lire a 1.427.342 Miliardi mentre il debito pubblico era aumentato da 1.035.263 Miliardi a 1.484.113 Miliardi.
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per ragioni partitiche e di politica interna20. Il suo successore Emilio Colombo poteva vantare, oltre che una solida fama di europeista, una lunga esperienza di politica estera essendo stato già Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri. Le travagliate vicende interne tuttavia rendevano l’Italia un enigma per gli interlocutori internazionali, e la costringevano a mettere in campo una politica estera poco propositiva e spesso scoordinata, finalizzata soprattutto a reagire nel miglior modo possibile agli eventi internazionali in corso21.
La più rilevante novità sul piano internazionale per l’Italia era costituita dal Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 dopo lunghe trattative, con il quale i dodici Paesi membri della Comunità Europea creavano una moneta unica. I principali temi oggetto di discussione nel Consiglio europeo di Maastricht riguardarono la definizione dei tempi necessari per il passaggio alla moneta unica, il richiamo alla vocazione federalista dell’unione22
e la definizione dell’assetto comunitario in tema di politica estera e di difesa comune. Proprio i progressi nella strada dell’integrazione economica e monetaria, una volta consolidato il mercato unico, costituivano la novità più rilevante introdotta dal Trattato di Maastricht. Confermando gli accordi raggiunti nei Consigli di Madrid (1989) e di Roma (1990), venivano identificate tre fasi per la realizzazione dell’Unione Economica Monetaria (UEM): liberalizzazione dei capitali, creazione dell’IME23
e fissazione dei tassi di cambio definitivi tra le monete dei Paesi membri. Dopo questo processo la moneta unica sarebbe entrata gradualmente in vigore fino a sostituire completamente le monete nazionali. Per far parte di questo processo sarebbe stato necessario rispettare una serie di parametri di convergenza24 che avrebbero permesso di stabilizzare le diverse economie degli Stati membri in funzione del raggiungimento della moneta unica25.
Il Trattato sull’Unione Europea comprendeva 252 articoli, 17 protocolli e 31 dichiarazioni e disegnava la struttura dell’Unione Europea secondo un sistema basato su tre pilastri, non omogenei in termini di poteri e funzionamento. Solo il primo dei tre pilastri infatti, quello comunitario (CEE, CECA e EURATOM), avrebbe funzionato secondo metodi approssimativamente federali, mentre gli altri due, cioè la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione negli affari interni e giudiziari, mantenevano profili e procedure fortemente intergovernative (CGAI)26.
20 Vedi Infra
21 Romano S., Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi, Milano, BUR, 2002, pp. 251-254. 22
Poi escluso a causa dell’opposizione britannica, danese e greca.
23 Istituto Monetario Europeo, il nucleo della futura Banca Centrale Europea. 24 Vedi Infra
25 Mammarella G.-Cacace P., Storia e politica dell’Unione europea, Bari, Laterza, 2013, pp.233-235. 26
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Il complesso negoziato conclusosi a Maastricht aveva avuto come principali protagonisti la Francia e la Germania, in parte per l’origine stessa della spinta ad uno sviluppo dell’integrazione in seguito all’unificazione tedesca. Il sacrificio delle monete nazionali era sentito soprattutto in Germania, dove le resistenze furono fortissime poiché il marco rappresentava il punto di forza della leadership tedesca all’interno della Comunità e in Europa. I criteri di convergenza ed i tempi stabiliti quindi andavano incontro alla necessità tedesca di far sì che la moneta unica, che per caratteristiche avrebbe dovuto avvicinarsi al marco, fosse sostenuta e adottata per quanto possibile da economie sane e equilibrate, capaci di contenere spinte inflazionistiche e di tenere sotto controllo il bilancio ed il deficit pubblico. Durante questo processo per l’Italia era necessario avere un ruolo attivo nelle trattative per evitare di venire esclusa o a dover accettare passivamente decisioni prese dall’asse franco- tedesco. Da un lato l’Italia doveva dimostrare ai partner europei la serietà della propria volontà di sottoscrivere impegni stringenti accettando parametri di convergenza e scadenze rigidi, dall’altro lato era però necessario che i negoziatori italiani tenessero conto delle specificità e delle esigenze dell’economia italiana27
.
Il rispetto dei parametri di Maastricht imponeva un ridimensionamento del debito pubblico, che ormai nel caso italiano era stabilmente al di sopra del 100% del PIL mentre i partner europei avevano accumulato debiti molto più sostenibili (46% Germania, 47% Francia, 44% Gran Bretagna). Quello del debito pubblico inoltre non era l’unico limite che l’Italia doveva superare per rientrare nei parametri stabiliti: dei cinque criteri fissati nel 1991 infatti l’Italia ne rispettava solamente uno, quello del tasso di cambio28.
In merito alla fissazione dei parametri relativi al debito pubblico, l’Italia ottenne che esso di dovesse “indirizzare tendenzialmente” verso una quota del 60% o inferiore; in questo modo si recideva il legame tra l’impegno e l’effettivo raggiungimento di un obiettivo che per l’Italia, visti i risultati degli anni precedenti, appariva proibitivo. Ma soprattutto il maggiore successo italiano (e non solo) fu quello di ottenere che i parametri di convergenza non rientrassero formalmente nel testo del Trattato, ciò avrebbe permesso un’eventuale negoziazione e revisione degli obiettivi in un secondo momento senza che l’intero Trattato dovesse essere rivisto29.
27 Varsori A., La Cenerentola d'Europa. L'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p.369.
28 Mammarella G.-Cacace P., La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai giorni nostri, Bari, Laterza, 2008, p.259.
29 Varsori A., La Cenerentola d'Europa. L'Italia e l'integrazione europea dal 1947 ad oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, p.370.
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Ai problemi relativi al bilancio dello Stato si aggiungevano le difficoltà dell’industria italiana a competere nei mercati globali. Drogato da anni di assistenzialismo e rendita, si trovava ora a dover competere con gli altri mercati europei dopo una stagione di scarsi investimenti e limitato rinnovamento. L’economia italiana era infatti da anni dominata da logiche clientelari e spartitorie e vedeva, oltre alla permanenza di elefantiaci istituti pubblici, un continuo rapporto fra pubblico e privato. L’orizzonte dell’integrazione europea creava un solco nei settori produttivi italiani tra coloro i quali guardavano con diffidenza ai valori di mercato che Maastricht rappresentava e quelli che invece speravano in una razionalizzazione dell’economia italiana secondo logiche liberali30
. Non è facile stabilire quanto l’europeismo degli italiani fosse fondato su motivazioni profonde o fosse una convinzione di maniera. Certo è che al momento della conclusione del Trattato di Maastricht sembra che né gli italiani, né buona parte della classe dirigente avesse la reale percezione dell’assoluta importanza che questo passaggio della storia italiana avrebbe avuto sul futuro del Paese.31
Il governo Amato mostrò fin dal principio la volontà di riportare sotto controllo i conti dello Stato, anche a costo di scelte impopolari, attraverso l’unica strada possibile, una riduzione