L’esclusione dell’Italia dal Gruppo di Contatto e le questioni irrisolte
Nonostante l’Accordo di Washington e il nuovo atteggiamento degli Stati Uniti avessero isolato la Serbia, la linea di Milošević rimase dura. I paesi europei, ad eccezione della Germania, non avevano accolto con favore il rinnovato impegno americano sia perché ai loro occhi offuscava il ruolo dei governi europei, sia perché non condividevano l’approccio
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Soprattutto con il Guardasigilli Mancuso il quale, non condividendo i metodi del Pool di Mani Pulite soprattutto relativamente ai metodi degli interrogatori e all’uso della carcerazione preventiva, dopo un’ispezione denunciò il pool di fronte al Consiglio Superiore della Magistratura, che però archiviò il caso. Nonostante le richieste di Dini, non essendo costituzionalmente prevista la sfiducia individuale ad un Ministro, Mancuso rimase in carica per tutta la durata dell’esecutivo.
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Vennero abolite le pensioni “baby” (meno di 35 anni di contributi), si riducevano le pensioni di anzianità (40 anni di lavoro) e quelle di vecchiaia (65 anni).
303 Mammarella G., L’Italia contemporanea (1943-2011), Bologna, Il Mulino, 2012, p.48.
304 Scoppola P., La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico 1945-1996, Bologna, Il Mulino, 1997, p.525.
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fondato sull’esclusione dei serbi dalle trattative. Durante l’intera fase della guerra in Bosnia- Herzegovina, la Germania rimase su una posizione ambigua. Da un lato le simpatie tedesche andavano agli oppositori di Belgrado, e in tal senso la Germania guardava con favore ad un’azione più incisiva come proposto dagli Stati Uniti, dall’altro, però, le pressioni britanniche e francesi spingevano per una “neutralità” che permetteva comunque a Berlino di non dover affrontare una prospettiva di intervento militare, difficile da affrontare per la Germania sia per ragioni di legalità costituzionale, sia di consenso politico305.
L’azione statunitense comunque pareva aver preso vigore, nel marzo Izetbegović ricevette la visita di Madeleine Albright306 che confermò il totale sostegno americano al governo di Sarajevo. In Serbia Milošević tentò di arginare la crisi economica in corso, dovuta alla guerra ed alle sanzioni internazionali, che aveva visto l’inflazione raggiungere il 313563558% nel gennaio 1994307, nominando l’ex consigliere di Tito Dragoslav Avramovic alla guida della Banca Centrale Jugoslava. Allo stesso tempo proseguì la strategia di conquista militare scatenando una massiccia offensiva nella vallata della Drina, concentrata nella città di Goražde308. Questa volta però i comandi dell’UNPROFOR, che avevano tra l’altro personale
a Goražde, decisero di avvalersi del sostegno degli aerei NATO. Fra il 10 e l’11 aprile due caccia americani partiti dalla base italiana di Aviano bombardarono le prime linee serbe. I serbi reagirono con veemenza, prendendo in ostaggio a Sarajevo un gruppo di osservatori delle Nazioni Unite e attaccando il quartier generale di UNPROFOR a Tuzla. Ai serbi venne quindi lanciato un ultimatum da parte della NATO che intimava l’allontanamento da Goražde, il cui attacco era stato condannato anche dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU309.
La richiesta venne accolta durante un incontro a Belgrado tra Akashi, Milošević, Karadžić e Mladić anche in ragione del fatto che Mosca si schierava a favore dell’ultimatum310
. Il ritiro serbo, accompagnato dalla ormai consolidata strategia della terra bruciata, permise alle forze UNPROFOR di prendere il controllo di Goražde creando, come a Srebrenica, un’area delimitata di presenza musulmana. La politica di trattativa con i serbi condotta dalle Nazioni Unite con il sostegno dei Paesi europei, creò forti tensioni con la NATO e con Washington. Mentre gli Stati Uniti sostenevano la necessità di una linea di condotta più dura nei confronti della Serbia, le Nazioni Unite e la missione UNPROFOR sul terreno continuavano a puntare
305 Maull H.W., Germany in the Yugoslavia Crisis. In Rupnik J., International perspectives on the Balkans, Clementsport, Canadian Peacekeeping Press, 2003, p.72.
306 Ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. 307
Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.372. 308 Man I., “La Bosnia tra Stati Uniti, Europa e Russia”. In Affari Esteri, N.102, 1994, p.257. 309 S/RES/913 (1994)
310 La Russia, per quanto continuasse ad appoggiare la Serbia e Milošević, non coltivava ottimi rapporti con Karadžić che riteneva essere eccessivamente contrario ad una soluzione negoziale.
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sulla definizione di un accordo negoziale. L’episodio di Goražde inasprì il confronto tra queste due posizioni su come condurre l’azione internazionale in Bosnia-Erzegovina perché, più che per il reale valore strategico della città, tale circostanza aveva fatto emergere tutte le contraddizioni dell’azione internazionale311
.
La decisione di Clinton di condurre un’azione politica e militare più decisa nonostante gli impedimenti e le titubanze di gran parte dei suoi alleati e delle Nazioni Unite ebbe ripercussioni anche con la decisione di non ostacolare l’afflusso di armi e combattenti musulmani che dai Paesi del Golfo e del Medio Oriente giungevano a sostegno della Bosnia- Erzegovina di Izetbegović. Con l’accordo tra Bosnia-Erzegovina e Croazia infatti era possibile far arrivare armi e uomini in modo molto più agevole per mezzo di trasporti marittimi. Inoltre molti Paesi musulmani, primo fra tutti l’Iran, che già stavano armando e sostenendo le forze musulmane premevano per offrire un sostegno maggiore312. Il trasferimento di armi ed equipaggiamento, soprattutto da parte dell’Iran, permetteva di aggirare l’embargo proclamato dalle Nazioni Unite sull’intera ex-Jugoslavia. Benché con molta prudenza, Clinton permise che dietro l’apertura di una rappresentanza diplomatica iraniana a Sarajevo313 si favorisse l’afflusso di armi e combattenti che andarono a rafforzare le forze musulmane314.
Nonostante l’avvio di un’azione autonoma più assertiva, gli Stati Uniti erano consapevoli della necessità di riavviare anche un processo negoziale che coinvolgesse le altre potenze interessate. L’obiettivo di Clinton era però quello di intraprendere un processo diplomatico nuovo che, benché sufficientemente partecipato, superasse le lente ed intricate procedure delle Nazioni Unite e della Comunità Europea. Un nuovo direttorio avrebbe inoltre potuto portare ad un superamento degli attriti tra Washington e gli altri Paesi europei. Nella costruzione di tale progetto gli Stati Uniti impegnarono tutto il loro peso coinvolgendo la Russia di Eltsin, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Per la Russia, che rimaneva un interlocutore imprescindibile per arrivare ad una sistemazione stabile dei Balcani in virtù dello speciale rapporto tra Mosca e Belgrado, venire accolta in tale consesso rappresentava la fine di un periodo di estrema vulnerabilità e un nuovo riconoscimento del proprio ruolo internazionale315. Inoltre gli Stati Uniti poterono far leva sulla necessità sovietica di normalizzare i rapporti con l’occidente, con cui stavano proseguendo le trattative per la
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Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.375.
312 Gallagher T., The Balkans after the cold war. From tyranny to tragedy, London, Routledge, 2003, p.154. 313 Aperta il 7 aprile 1994.
314 Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.373. 315
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definizione della Partnership for Peace316. La Francia e la Gran Bretagna erano soddisfatte di venire coinvolte in questo nuovo direttorio anzitutto perché vedevano riconosciuto il loro ruolo di primo piano nelle vicende balcaniche; inoltre attraverso questo nuovo consesso Parigi e Londra prevenivano il rischio di veder realizzato pienamente ciò che già nei mesi precedenti stava accadendo e che temevano, cioè che gli Stati Uniti conducessero un’azione politica autonoma e non coordinata con loro. L’ingresso in questo gruppo ristretto della Germania invece rifletteva soprattutto il peso che Berlino poteva vantare nei confronti di Zagabria, ma agli occhi tedeschi rappresentava anche il riconoscimento di potenza europea di primo piano dopo l’unificazione.
La creazione del Gruppo di Contatto non poteva però essere indifferente a coloro che, benché coinvolti nelle vicende bosniache, ne venivano esclusi. Prime fra tutti le Nazioni Unite e il Segretario Generale, Boutros-Ghali, che fino a quel momento aveva avuto un ruolo centrale nelle trattative e nel processo negoziale in corso in Bosnia-Erzegovina. Tra gli Stati più contrariati dalla creazione del Gruppo di Contatto vi era, oltre a Spagna e Olanda, l’Italia317
. Per l’Italia la nascita del Gruppo di Contatto rappresentava l’esclusione da un’area di vitale interesse e tradizionale proiezione di politica estera. Ad escludere l’Italia dal Gruppo di Contatto era stata, più che la volontà americana, quella europea (anche se gli europei sostenevano il contrario)318. Gli altri Paesi europei pensarono di approfittare del momento di grande debolezza interna per escludere l’Italia dalle vicende balcaniche, adducendo la motivazione che Roma non poteva essere coinvolta poiché aveva questioni pendenti con Stati coinvolti nel conflitto, in particolare la Croazia. Francia, Gran Bretagna e Germania temevano inoltre che l’ingresso dell’Italia avrebbe incoraggiato le rivendicazioni degli altri Paesi esclusi (soprattutto la Spagna ed i Paesi che avevano militari nella missione UNPROFOR). L’Italia pagava la linea tenuta nei confronti di Croazia e Slovenia, che faceva ritenere agli alleati europei, Germania in primo luogo, che Roma fosse portavoce di una visione federazionista della Jugoslavia ormai fuori dal tempo. Agli occhi degli altri Paesi Europei inoltre pesava la circostanza che l’Italia non fosse disposta ad impiegare direttamente le proprie Forze Armate sul campo319. La reazione italiana fu dura: il Ministro degli Esteri Susanna Agnelli convocò a Roma Hoolbroke e l’Ambasciatore statunitense Bartholomew. Secondo l’Italia l’esclusione tradiva gli impegni presi da Lake nei mesi precedenti, ma la delegazione statunitense affermò
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Partnership for Peace è il programma di collaborazione bilaterale tra i Paesi NATO e Paesi terzi. Per approfondire: http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_50349.htm.
317 Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991 – 1999, Torino, Einaudi Editore, 2001, p.378. 318 Intervista AmbVento.
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che Washington aveva tentato di inserire l’Italia, ma non aveva potuto imporlo agli altri membri del Gruppo di Contatto. La delegazione americana incontrava la medesima durezza nell’incontro, avvenuto poco dopo, con il Presidente del Consiglio Dini. Gli Stati Uniti proposero quindi all’Italia di entrare a far parte di un generico Gruppo di Contatto allargato, la cui prima riunione si sarebbe dovuta tenere a Roma320.
A permettere alla rappresentanza diplomatica italiana di partecipare alle riunioni del Gruppo di Contatto, per quanto informalmente, fu una forzatura diplomatica. Il Direttore Politico Amb.De Franchis e l’Incaricato d’Affari Mirachian si misero in viaggio da Roma con un piccolo aereo quattro posti verso Sarajevo per partecipare ad una seduta del Gruppo di Contatto, senza che l’Italia fosse ufficialmente invitata. Arrivati in una Sarajevo gelida e spettrale la coppia di diplomatici italiani pensò che il luogo della riunione sarebbe stato con ogni probabilità il Palazzo presidenziale, anche se abbandonato. Una volta giunti al Palazzo la delegazione italiana intuì la stanza in cui si teneva la riunione e, una volta entrati, l’Amb.De Franchis e l’Amb.Mirachian si “scusarono per il ritardo”, avvicinarono due sedie al tavolo delle trattative e presero parte alla riunione. Dopo questo episodio l’Italia, benché non facesse ufficialmente parte del Gruppo, venne invitata ai successivi incontri321.
Nonostante le opposizioni, la strategia americana di creare il Gruppo di Contatto si dimostrò fin da subito piuttosto efficace. Il 26 aprile 1994 a Londra si tenne il primo incontro del Gruppo, ma già nei giorni successivi la sede dei lavori venne spostata a Sarajevo. In poche settimane si giunse all’elaborazione di un nuovo Piano, che venne presentato a Ginevra il 13 maggio 1994. Secondo il Piano del Gruppo di Contatto la Bosnia-Erzegovina sarebbe rimasta unita e indipendente, ma divisa in due parti, la maggiore delle quali (51%) sarebbe spettata ai musulmani ed ai croati, uniti, mentre la minore (49%) alla Repubblica Serba di Karadžić. Secondo Washington i territori avrebbero dovuti essere assegnati in modo più favorevole ai croato-musulmani, ma le pressioni di Russia, Francia e Gran Bretagna imposero una spartizione pressoché a metà, in cui la differenza aveva principalmente un valore simbolico322. Il Piano, “non negoziabile” secondo il Gruppo di Contatto, era accompagnato dal sistema del bastone e della carota: in caso di accettazione sarebbe stato tolto l’embargo sulla Jugoslavia, in caso di rifiuto le forze UNPROFOR sarebbero state ritirate323.
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Holbrooke R., To end a war, New York, Modern Library, 1999, pp.135-137. 321 Intervista Amb.Mirachian, che colloca questo episodio nell’inverno 1993.
322 Trbovich A.S., A legal geography of Yugoslavia's disintegration, Oxford, Oxford University Press, 2008, p.319.
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Mentre l’accettazione del Piano da parte croata avvenne senza esitazioni, Izetbegović lo approvò con molte perplessità, dovuti principalmente al fatto che le ambizioni territoriali musulmane venivano deluse. Decisiva per convincere Izetbegović ad accettare il Piano fu la considerazione che, nonostante Milošević fosse ormai convinto della necessità di porre fine ai combattimenti ed accettare un Piano che comunque avrebbe significato una vittoria serba, Karadžić lo avrebbe rifiutato. Milošević invitò Karadžić a Belgrado per convincerlo ad accettare il Piano del Gruppo di Contatto, costringendolo a firmare una dichiarazione scritta con l’impegno di accettare il Piano; tuttavia Karadžić, una volta tornato a Pale, fece approvare il Piano con una serie di nuove clausole che costituivano motivo di nuovi negoziati e che inviò il 19 luglio, giorno della scadenza dell’ultimatum. Nel Gruppo di Contatto, nonostante gli Stati Uniti premessero per considerare tale risposta un rifiuto, prevalse ancora una volta la linea della mediazione con i serbo-bosniaci; si decise quindi di prolungare di 10 giorni le trattative, che poi verranno ulteriormente prolungati a causa delle divergenze tra i membri del Gruppo di Contatto.
In Italia dopo le elezioni del 1994 si era intanto formato il primo governo guidato da Silvio Berlusconi, che aveva nominato a capo degli Affari Esteri Antonio Martino324. In carica dal 10 maggio 1994, il governo Berlusconi ottenne la fiducia al Senato il 17 maggio e alla Camera il 19 maggio. Presentando la nuova squadra di governo alle Camere, Berlusconi inserì tra i cardini dell’identità e del ruolo internazionale dell’Italia “la fedeltà all’Alleanza Atlantica, la cooperazione economica e politica nella Comunità Europea, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, i principi della Conferenza di Helsinki sulla stabilità dei confini, sulla difesa dei diritti umani, sull’autodeterminazione dei popoli e la non ingerenza”. In riferimento alle crisi in corso, in particolare quella jugoslava e quella ruandese, Berlusconi, dopo aver rilevato le difficoltà dell’Europa e delle Nazioni Unite, rilanciò l’azione italiana: “ in ogni luogo del mondo in cui sono messi in discussione i diritti liberali e umanitari dell’uomo deve essere ascoltata una voce italiana, e il Governo della libertà si impegna a farla sentire. La solidarietà è il cuore della nostra politica internazionale, per le radici cristiane e umanistiche della nostra cultura”325
.
Il 21 giugno 1994 il Ministro Martino presentò alla Commissione Esteri della Camera gli indirizzi della politica estera italiana. Martino, dopo aver denunciato come la situazione di precarietà interna avesse danneggiato il ruolo internazionale dell’Italia, proclamava un ritorno
324 Martino A., “Una scelta di continuità”. In Affari Esteri, N.102, 1994, pp.203-204. 325
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alla presenza e alla partecipazione italiana nei principali fori internazionali. Grande importanza ricoprivano a tal fine il Consiglio Europeo di Corfù e l’incontro del G7 che si sarebbe tenuto a Napoli nell’autunno successivo326
. Dopo aver richiamato i principi elencati da Berlusconi, Martino si impegnò a promuovere un rinnovato impegno per la costruzione europea e una totale fedeltà atlantica. Sulla questione jugoslava Martino dichiarava un impegno italiano su due fronti, soluzione dei negoziati bilaterali con Slovenia e Croazia e impegno per il superamento dei conflitti in atto. Su quest’ultima si ribadiva il totale sostegno operativo e logistico alle azioni intraprese da NATO e ONU, e si paventava una possibile partecipazione italiana al contingente UNPROFOR, benché condizionata. Il dibattito sulle linee generali della politica estera proseguì con gli interventi dell’On.Napolitano e dell’On.Andreatta, che nonostante apprezzassero l’apertura di un confronto parlamentare, si dissero scettici sulle intenzioni del nuovo governo327. Nonostante i proclami però, l’arrivo di Berlusconi a Palazzo Chigi e di Martino alla Farnesina non costituì un colpo di timone per la politica estera italiana nei confronti della Bosnia-Erzegovina. Il difficile andamento del governo dovuto alla forte opposizione e agli attriti interni alla maggioranza328 ostacolò fin da subito la presenza internazionale dell’Italia. Oltre all’instabilità governativa ed alla scarsa credibilità di cui Berlusconi godeva presso gli alleati329, a condizionare l’azione italiana era la mancata soluzione dei rapporti bilaterali con Slovenia e Croazia, che nel breve periodo del governo Berlusconi raggiunse momenti di altissima tensione.
Nella definizione dei rapporti con le due nuove entità statali l’Italia decise fin da subito di non cercare una totale ridefinizione dei rapporti, ma di aggiornare e rinnovare il Trattato di Osimo secondo la formula dell’ “oltre Osimo”, come già affermato da De Michelis nel 1992. Il 17 gennaio 1992 l’Italia aveva rilasciato dichiarazioni congiunte con Slovenia e Croazia tese appunto a confermare la continuità dei rapporti diplomatici e politici esistenti330.
Il problema centrale dell’Italia nella definizione dei rapporti con Slovenia e Croazia era che con la nascita dei due nuovi Stati la minoranza italiana in Istria sarebbe stata divisa in due parti dal nuovo confine. A tal fine l’Italia intendeva superare il Trattato di Osimo aggiornandolo nella direzione di mantenere una qualche forma di unità della comunità italiana e di garantire alle minoranze un trattamento particolare331. Secondo altre interpretazioni,
326 Nel quale si voleva dare particolare importanza alla presenza russa. 327 Camera dei Deputati, III Commissione, 21 giugno 1994.
328
Vedi infra
329 Intervista On. Spini. 330 Vedi Infra
331 Per approfondire la situazione della minoranza italiana: Greco E., L’evoluzione delle relazioni politiche dell’Italia con la Slovenia e la Croazia dopo la dissoluzione della Jugoslavia. In Favaretto T.-Greco E., Il
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l’Italia avrebbe dovuto avviare negoziati totalmente nuovi senza ripartire dal Trattato di Osimo, in modo da poter fare leva sulla necessità slovena e croata di trovare appoggi internazionali all’indomani dell’indipendenza. L’Italia preferì avviare i negoziati sulla base di Osimo per evitare di dare il via ad una spirale di reciproche rivendicazioni sul confine nord- orientale su cui il sostegno dei partner europei sarebbe stato tutto da verificare332.
La decisione slovena di voler subentrare, per quanto nei suoi poteri ad una serie di accordi internazionali sottoscritti dalla Jugoslavia, tra cui il Trattato di Osimo, nel luglio 1992 venne accolto con favore dall’Italia333
, che sperava così di avviare negoziati migliorativi334 senza pregiudicare gli impegni esistenti335. I negoziati tra l’Italia, la Slovenia e la Croazia furono però resi complicati, non solo da alcune dichiarazioni nazionaliste di “riconquista” di Alleanza Nazionale336 sfruttate da Lubiana, ma anche perché risultava particolarmente complicato raggiungere un accordo in merito agli indennizzi ed al recupero dei beni perduti dagli italiani337. Con la separazione in due parti della comunità italiana338 per Roma diveniva prioritario assicurare un uguale e favorevole trattamento in entrambe le Repubbliche. Inoltre, anche a causa delle pressioni delle organizzazioni delle minoranze, l’Italia avrebbe dovuto risolvere la questione dei beni e dei terreni abbandonati dagli esuli339.
Nel febbraio 1993 presero avvio negoziati paralleli con la Slovenia e con la Croazia; le due repubbliche della ex-Jugoslavia non vollero istituire un tavolo a tre come l’Italia avrebbe preferito. Condurre le trattative con incontri separati permise all’Italia di avviare con la Slovenia negoziati più rapidi, dato che la posizione internazionale del Paese era in veloce evoluzione nella direzione di una rapida integrazione nel sistema europeo e coltivava ambizioni di essere accolto nell’Unione Europea. Con la Croazia invece le trattative erano rese difficoltose dal coinvolgimento di Zagabria nella guerra in Bosnia-Erzegovina340.
confine riscoperto. Beni degli esuli, minoranze e cooperazione economica nei rapporti dell’Italia con Slovenia e Croazia, Milano, FrancoAngeli, 1997, pp. 39-43.
332 Ibidem pp.33-35.
333 Senato della Repubblica Assemblea 12 novembre 1992 334
Intervista On.Spini.
335 Bucarelli M., La Slovenia nella politica italiana di fine novecento. In Bucarelli M.-Monzali L., Italia e Slovenia fra passato, presente e futuro, Roma, Edizioni Studium, 2009, p.142.