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La guerra in Croazia ed il riconoscimento italiano

Il fallimento della mediazione europea

Mentre le operazioni belliche erano ancora in corso in Slovenia, si ebbero le prime schermaglie in Croazia. Che la situazione croata fosse ben più complessa di quella slovena era chiaro a tutti. Diversamente dalla Slovenia infatti in Croazia abitavano circa 600.00 serbi,

252 Gallagher T., The Balkans after the Cold War. From Tyranny to Tragedy, London, Routledge, 2003, pp.58-59. Secondo l’interpretazione di questo autore inoltre da parte dei leader europei vi era una scarsa conoscenza delle dinamiche etniche in azione nei Balcani e, soprattutto da parte dei diplomatici europei, il potere centrale di Belgrado era visto come un elemento di stabilità regionale.

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Bucarelli M., La questione jugoslava nella politica estera dell’Italia repubblicana (1945-1999), Roma, Aracne, 2008. pp.83-101; Greco E., L’evoluzione delle relazioni politiche dell’Italia con la Slovenia e la Croazia dopo la dissoluzione della Jugoslavia. In Favaretto T. – Greco E., Il Confine riscoperto. Beni degli esuli, minoranze e cooperazione economica nei rapporti dell’Italia con Slovenia e Croazia, Milano, FrancoAngeli, 1997, pp.25-30.

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corrispondenti all’11,6% della popolazione. La presenza serba, a causa di particolari circostanze storiche, non era geograficamente definita, genericamente era concentrata nelle zone della Slavonia (dove però sono minoranza), della Banja, della Dalmazia (in particolare nell’entroterra nella zona di Knin), e nella Lika. Anche in queste zone la popolazione serba e quella croata vivevano però indistintamente mescolate in città, paesi e villaggi254.

Il conflitto in corso in Croazia si alimentò di una spirale di odio storico e nazionalistico che non aveva avuto precedente nel caso sloveno. La Croazia di Tuđman faceva richiamo all’identità storica del Paese, senza troppe distinzioni o riguardi delle compromissioni coi nazisti nella seconda guerra mondiale. La riscoperta dell’identità nazionale croata era per la verità figlia di un processo in corso da anni che si fondava sia sulla mitizzazione della storia croata, sia sulla componente religiosa. A rinsaldare la fede cattolica dei croati aveva contribuito l’apparizione della Madonna a Medjugorje nel 1981, un paese nella regione dell’Erzegovina255

. La locale comunità di francescani, appoggiata dal Vaticano, sfruttò abilmente la presunta apparizione della Madonna di fronte a sei giovani che si aggiravano nelle campagne256. Le apparizioni divennero praticamente quotidiane e cominciarono ad attirare pellegrini dal resto della Jugoslavia e non solo. L’episodio costituiva uno dei punti del recupero dell’identità nazionale cattolica croata. Al pari della riscoperta del cattolicesimo, Tuđman operò ed incoraggiò anche il recupero dei simboli e delle ritualità tradizionali che, anche se spesso utilizzate in modo farsesco, ricostruirono una forte identità nazionale257. Nella nuova bandiera croata, al centro del tricolore jugoslavo, fu inserita la Šahovnica (scacchiera), già simbolo della Croazia “indipendente” del 1941. Le celebrazioni dai toni fortemente nazionalisti organizzate a Zagabria dopo la dichiarazione di indipendenza non potevano che gettare benzina sull’odio serbo.

Il rancore serbo infatti era già stato coltivato da mesi dalla propaganda ufficiale secondo cui la Croazia di Tuđman era erede diretta di quella di Ante Pavelić, e secondo cui tutti i croati erano ustascia258 pronti a ripetere tutti i crimini ed i massacri messi in atto contro i serbi durante la

254 Ventura M., Jugoslavia, un omicidio perfetto. In Marzo Magno A. (a cura di), La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, Milano, Il Saggiatore, 2001, p.78.

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Medjugorje oggi fa parte della Bosnia Erzegovina, ma si trova in una regione a forte maggioranza croata. La leggenda narra di sei giovani croati che nel 1981 videro per la prima volta l’apparizione della Madonna “Regina della pace”. Nonostante la popolarità della credenza nel mondo cattolico, la Santa Sede ha sempre mantenuto una posizione piuttosto scettica riguardo alla veridicità delle apparizioni. Recentemente anche Papa Francesco si è espresso in merito con toni fortemente critici.

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Intervista Amb. Mirachian.

257 Pirjevec J., Serbi, Croati, Sloveni. Storia di tre nazioni, Bologna, Il Mulino, 1995, p.119.

258 Il movimento nazionalista di estrema destra degli Ustascia (nato nella seconda metà dell’800), guidato appunto da Ante Pavelić negli anni ’20 organizzò una lotta armata, principalmente terroristica, tesa ad ottenere l’indipendenza della Croazia dalla Serbia. Con la conquista della Jugoslavia da parte della Germania nazista

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seconda guerra mondiale. Mentre i mezzi di comunicazione serbi fomentavano il più cieco nazionalismo, anche in Serbia vennero recuperati i tradizionali simboli politici e religiosi, tra i quali l’antico simbolo CCCC, Solo l’Unità Salva i Serbi259

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Già alla fine del giugno 1991 infatti nella Slavonia e nella Banja260 gruppi di combattenti serbi, autodefinitisi cetnici in onore del movimento militare partigiano monarchico attivo durante la seconda guerra mondiale261, attaccarono villaggi croati, ma furono respinti dalle forze regolari. Pochi giorni dopo, all’inizio di luglio, altri scontri ebbero luogo nella Krajina, dove in seguito alla proclamazione della Regione autonoma della Krajina262 si era costituito rapidamente un gruppo di combattenti detti Martićevci263. In quest’ultimo caso si ebbe anche la dimostrazione dei metodi previsti dai piani militari di Belgrado. Dopo l’inizio degli scontri infatti intervennero reparti dell’Armata Popolare che, invece di compiere la missione a cui erano ufficialmente assegnati, cioè quella di separare i combattenti, intimarono alle forze croate di abbandonare le loro posizioni e di ritirarsi dalle zone di guerra.

Nell’estate 1991 i combattimenti si espansero rapidamente a tutti i territori contesi. Gli scontri si diffusero in tutta la Slavonia, nella Banja, nel Kordun, nella Lika, nella Dalmazia settentrionale e nella zona costiera di Dubrovnik264. Come anticipato, la strategia di Belgrado era di intervenire nelle aree in tutte le aree in cui era presente una significativa presenza serba. Tuttavia le iniziative militari serbe si concentrarono, secondo alcune analisi, soprattutto nelle zone di maggior rilevanza strategica ed economica. In ogni zona la guerra assunse modalità e sviluppi diversi dipendenti dalle specificità geografiche e demografiche della regione. Dove la presenza di popolazione serba era in schiacciante maggioranza le operazioni dell’armata si rivelarono più agevoli, il contrario avvenne dove questi erano una componente minoritaria. In

durante la seconda guerra mondiale gli Ustascia poterono creare il Regno indipendente di Croazia e diedero il via a una terribile repressione fatta di massacri e reclusioni in campi di concentramento contro le minoranze serbe e, in particolare, contro i partigiani titoisti.

259 L’antico motto, in cirillico “Само слога Србина спасава”, ha origine nel XIII secolo quando venne adottato ufficialmente dalla casa regnante che lo inserì nel proprio stemma disponendo le quattro lettere intorno ad una croce greca.

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Regione del nord-est dell’attuale Bosnia Erzegovina.

261 Il movimento dei Cetnici ebbe origine come movimento di resistenza alla conquista ottomana. Nel XX secolo i Cetnici sono divenuti un movimento monarchico di estrema destra molto vicino alle posizioni più conservatrici della Chiesa Ortodossa. Durante la seconda guerra mondiale questo movimento riunì i partigiani monarchici (spesso reduci dello sconfitto esercito serbo) e organizzò sotto la guida di Dragoljub "Draža" Mihailović un movimento di resistenza attivo soprattutto in Serbia occidentale sia contro gli Ustascia e gli occupanti nazisti, sia contro i partigiani comunisti di Tito.

262 Vedi infra 263

Milan Martić, ex poliziotto serbo-croato, organizzò una milizia irregolare dei serbi di Croazia. Ricoprì in seguito vari ruoli apicali nella Repubblica Serba di Krajina, tra cui quella di presidente, sostenuto da Milosevic. Nel 2007 è stato condannato a 35 anni di reclusione dal Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia per crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

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ogni caso però il sistema prevedeva una aggressione finalizzata alla conquista militare e all’allontanamento della componente etnica non serba. Essendo l’obiettivo finale costringere gli abitanti a scappare, i piani serbi prevedevano l’utilizzo di ogni mezzo possibile, lecito o meno nel diritto internazionale umanitario. Anche verso piccoli centri infatti l’armata non risparmiò ad esempio l’utilizzo di mezzi corazzati o di bombardamenti aerei. Tuttavia l’Armata Popolare era stata costruita per una guerra di difesa partigiana, mentre adesso si trovava a condurre operazioni puramente offensive, quindi si rivelò ben presto carente di numero. Questo problema dipendeva essenzialmente dal fatto che ormai da anni i giovani chiamati alla leva provenienti dalle repubbliche di Slovenia e Croazia, ma anche di Bosnia e Macedonia, o kosovari, si rifiutavano di arruolarsi per ovvie ragioni politiche. La quasi totalità dei giovani di queste regioni infatti si dava alla fuga oppure non si presentava alla chiamata alle armi; solo in pochi casi alcuni decidettero di partecipare solo con la rassicurazione di non dover mai agire sul loro territorio di provenienza. Questa circostanza ebbe effetti immediati, poiché infatti l’Armata si trovava carente di uomini, venne accelerato il processo, già in corso, di “serbizzazione” dell’esercito, che in questa fase passava dall’essere un corpo federale multietnico a divenire semplicemente l’esercito della Serbia. E’ interessante notare che durante il regime comunista l’Armata Popolare aveva costituito uno dei principali motivi di unione e legame tra le diverse popolazioni jugoslave e, proprio a causa di questa eredità, il passaggio appena descritto di serbizzazione costituì un ulteriore colpo allo Stato federale. I vertici dell’esercito non risposero unanimemente in modo immediato alla volontà di Milošević di disinteressarsi della Federazione per inseguire il progetto della Grande Serbia. In molti ambienti di comando la fedeltà degli ufficiali era rimasta inizialmente alla Jugoslavia federale, solo in questa fase di ricambio anche i vertici militari si allinearono con le posizioni di Belgrado.

Per le ragioni appena descritte Belgrado utilizzò nelle operazioni militari anche le forze di polizia, i reparti di riserva e le forze della difesa territoriale. Inoltre, sempre per queste ragioni, e per evitare una immediata identificazione, la Serbia fece uso di milizie e gruppi paramilitari non inquadrati nel sistema di gradi delle forze armate. Questi gruppi, i cui appartenenti erano esaltati dal regime belgradese come eroi, erano solitamente composti da bande di criminali e si prestarono alle peggiori nefandezze contro militari quanto contro civili. Oltre ai già citati Martićevci vanno tristemente menzionate le Tigri, il Corpo d’armata di Avala265, le Aquile Bianche, le milizie di Dušan il Forte e la Guardia Nazionale legata a

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Vuk Drašković266. Alcuni dei leader di questi gruppi, soprattutto il Capitano Dragan267 e Željko Ražnatović Arkan268

divennero particolarmente celebri per le loro azioni “eroiche” durante la guerra in Serbia, e in quanto impareggiabili criminali internazionali per il mondo intero. La funzione di tali milizie era quella di sbrigare il “lavoro sporco” precedendo l’Armata Popolare. Al fine di operare la “pulizia del territorio”, poi definita pulizia etnica269

, entravano nelle città e nei villaggi alla ricerca di chi non fosse serbo per terrorizzarlo, convincerlo alla fuga, torturarlo o assassinarlo. A tal fine questi gruppi non ebbero nessuno scrupolo, non risparmiando rapine, incendi, rapimenti, stupri e massacri.

Alcuni di questi gruppi non facevano capo al partito di Milošević, ma al partito di opposizione, il Partito Radicale Serbo di Vojislav Šešelj270. Infatti la politica serba in questa fase vedeva all’opposizione questa formazione dai toni ancora più nazionalistici rispetto a quelli di Milošević e del suo regime. La presenza di un così forte partito di opposizione estremista nazionalista aveva due conseguenze, ed entrambe finivano per rafforzare il potere di Milošević. In primo luogo, come nel caso della formazione di milizie paramilitari, l’opposizione convergeva sulle posizioni governative quando le intenzioni erano più estremiste, contribuendo a radicalizzare lo scontro politico e militare. In secondo luogo, la presenza del Partito Radicale rendeva più accettabile l’immagine di Milošević agli occhi della comunità internazionale. Il fatto che il potere di Milošević divenisse sempre più incontestato e assoluto, e che la comunità internazionale non coltivava la speranza di un cambio di leadership al vertice dello Stato serbo è figlia, oltre che della spregiudicata capacità del

266 Vuk Drašković è un politico serbo ancora in attività, difficilmente inquadrabile. Monarchico, democratico, nazionalista, pacifista, liberista, oppositore (fu arrestato e rilasciato più volte) e alleato di Milosevic a seconda del mutare del suo credo politico e delle circostanze.

267 Dragan Vasiljković, accusato di crimini di guerra, è attualmente detenuto in Australia, Paese di provenienza. Molto popolare tra le milizie paramilitari serbe della Krajina poteva contare su un piccolo esercito personale. Rifiutava sia di essere definito cetnico, sia partigiano.

268 Željko Ražnatović, detto Arkan, è un personaggio la cui storia è singolare. Nato in Slovenia diventa bandito, rapinatore, sicario, ricercato e più volte arrestato dall’Interpol (ed evaso). Nel 1986 apre una pasticceria a Belgrado e nello stesso periodo diventa il capo degli ultrà della squadra di calcio della Stella Rossa di Belgrado. Proprio dagli ambienti “calcistici” inizia a reclutare una banda di criminali che guida con pugno di ferro e disciplina militare. Il gruppo viene rinominato “tigri”, pare perché Arkan possedesse una tigre che aveva rubato allo zoo di Zagabria come “mascotte”. Nel 1991 combatte al fianco dell’Armata conducendo la sua milizia paramilitare a compiere le peggiori nefandezze. Dal 1992 è parlamentare in Kosovo, intanto fonda una squadra di calcio (Obilic che vincerà anche il campionato serbo e poi verrà affidata all’italiano Giovanni Di Stefano). Sposatosi con una nota cantante folk serba Arkan era un amante della vita lussuosa che finanziava grazie ai furti ed ai saccheggi commessi in tempi di guerra. Venne assassinato nel gennaio del 2000 da un ex poliziotto serbo a colpi di pistola. Il suo funerale vide la partecipazione di molte migliaia di persone, la salma fu tributata con gli onori militari e la cerimonia avvenne secondo il rito tradizionale ortodosso.

269 Pulizia etnica è la locuzione utilizzata dal Tribunale Penale per la ex-Jugoslavia.

270 Vojislav Šešelj era Presidente e fondatore del Partito Radicale Serbo. Partito di forte ispirazione nazionalistica, vicino alle posizioni dei cetnici, faceva della nascita della “Grande Serbia” il principale obiettivo politico. Nel 2003 incriminato dal TPIJ per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

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“vozd”271

, del fatto che non esistessero in Serbia opposizioni più ragionevoli oppure pronte a subentrare al potere.

Di fronte alla diffusione del conflitto il governo croato di Tuđman era diviso tra coloro i quali ritenevano che, seguendo l’esempio sloveno, Zagabria dovesse reagire e difendersi, e tra chi, consapevole dell’impreparazione sotto molti punti di vista del Paese ad affrontare uno scontro aperto, pensava che fosse preferibile rifiutare lo scontro aperto. Tuđman ritenne che effettivamente le forze croate non fossero sufficienti (diversamente dalla Slovenia, la Croazia non aveva riattivato la difesa territoriale in modo organico e organizzato) non volle reagire e offrire a Belgrado la possibilità di appellarsi all’unità jugoslava e si limitò a chiedere il ritiro delle truppe nelle caserme. La Croazia continuò a tenere una linea prudente, continuando a coltivare la speranza di arrivare ad un accordo per la separazione con l’assenso delle altre repubbliche, o almeno confidando di trovare qualche forma di sostegno internazionale. Il primo colpo a tale speranza venne quando il 22 luglio Tuđman incontrò i vertici dello Stato jugoslavo e capì che sulla Croazia le intese di Brioni erano carta morta, e che le operazioni militari non si sarebbero fermate. Inoltre, nonostante pochi giorni dopo la CE decidesse di inviare circa 500 osservatori nelle zone di guerra, la posizione europea di condanna all’uso della forza tra le repubbliche rimaneva sulla carta e gli Stati Uniti rimanevano a guardare, convinti che se nessuna grande potenza fosse intervenuta, la questione jugoslava sarebbe rimasta un problema circoscritto e, sostanzialmente, interno272.

Visto il fallimento delle speranze riposte in un accordo diretto ed in un più deciso intervento internazionale, Tuđman pensò che fosse giunto il momento di interrompere la linea di prudenza e di passare al contrattacco mobilitando tutte le forze militari di cui la Croazia disponeva. La formazione di un esercito croato era stata avviata, per la verità, dal maggio 1990, ma le forze croate erano poco numerose e scarsamente equipaggiate. In questo momento venne avviata una riorganizzazione delle forze armate sia nelle formazioni sul territorio, sia a livello di comando centrale273. La scelta croata causò una reazione durissima della Serbia, dove la propaganda contro i nemici “ustascià” croati stava raggiungendo il suo apice. Il 24 agosto 1991 l’Armata Popolare strinse d’assedio la città di Vukovar274.

Nell’assedio di Vukovar l’Armata non risparmiò l’uso di mezzi pesanti e di bombardamenti aerei, causando però la reazione internazionale che non poteva restare cieca ad un così

271 Traducibile come “duce”, spesso Milosevic veniva così chiamato. 272

Frescobaldi D., “Il contagio jugoslavo sull’Europa dell’Est”. In Affari Esteri, N.93, 1992. p.58.

273 Tus A., The war in Slovenia and Croazia un to the Sarajevo Ceasefire. In In Magas B. – Zanić I., The war in Croatia and Bosnia-Herzegovina. 1991-1995. London, Frank Cass, 2001, p.47.

274 Situata lungo il Danubio segna il confine tra la Serbia e la Croazia. Città piuttosto cosmopolita, era composta per circa la metà dei suoi 85.000 abitanti da croati e per più di un terzo da serbi.

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massiccio impiego della forza da parte dell’esercito federale. In una riunione di emergenza tenuta il 29 agosto a Bruxelles, i Paesi europei decisero di annunciare che non avrebbero riconosciuto modifiche territoriali imposte con la forza e che avrebbero convocato una conferenza di pace, oltre che istituire una commissione di diritto internazionale275 con lo scopo di valutare i problemi specifici relativi alle evoluzioni politiche.

La decisione di unificare le trattative in corso in più sedi attraverso la nomina di una personalità unica era stata, per quanto riguarda il governo italiano, caldeggiata dall’Amb. Vento e poi adottata dal governo. L’Amb.Vento infatti, dopo aver registrato il rapido deterioramento della situazione sul terreno, constatava che la scelta di condurre un ruolo di mediazione giocato contemporaneamente su più piani, finiva per indebolire e complicare il ruolo europeo, e già all’inizio del mese di agosto suggeriva alla Farnesina di prendere una strada diversa, come poi avvenne276.

Il 2 settembre 1991 il ministro De Michelis comunicava le evoluzioni della situazione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati e sottolineava la completa unità d’azione tra l’Italia e i membri della CE. De Michelis individuava da un lato la necessità da parte della CE, prossima alla firma del Trattato di Maastricht, di muoversi unitariamente, e dall’altra ne valutava positivamente l’apporto nelle trattative di pace. In una situazione molto difficile, la convocazione di una conferenza di pace avrebbe, per lo meno, rinsaldato il cessate il fuoco, vista anche l’attività di monitoraggio prevista dalla CE. Dopo aver elencato i principi della conferenza, il ministro ribadiva con forza la necessità italiana di trovare una soluzione complessiva per la Jugoslavia.

In questo la posizione italiana si differenziava da alcuni partner europei, Germania ed Austria in particolare277. Mentre questi Paesi infatti avevano interessi principalmente nella soluzione dei problemi del nord della Jugoslavia, l’Italia confinava con la Jugoslavia “fino all’Albania”. Proprio perché non orientata ad una soluzione complessiva della questione jugoslava, De Michelis si opponeva anche al tentativo di mediazione portato avanti da Mitterrand tra Milošević e Tuđman. Il Ministro inoltre faceva presente alla Commissione che la Bosnia Erzegovina aveva annunciato di voler indire un plebiscito sull’indipendenza.

Benché De Michelis sostenesse la totale contrarietà ad un intervento armato internazionale, ribadì che nel caso in cui la violenza da parte di Belgrado avesse superato i limiti della legalità, l’Italia avrebbe chiesto agli altri partner della CEE di “schierarsi con i poteri

275 Presieduta dall’autorevole giurista e più volte ministro socialista francese Robert Badinter.

276 Varsori A., L’Italia e la fine della guerra fredda. La politica estera dei governi Andreotti (1989-1992), Bologna. Il Mulino, 2013, pp. 121-157.

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democratici, anche se non ancora formalmente riconosciuti, contro i poteri e l'uso della forza illegali”. In merito alla definizione dei rapporti con Slovenia e Croazia e, di conseguenza, al trattamento delle minoranze italiane De Michelis continuava a sostenere la necessità di andare