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Se guardiamo alla definizione del Servizio Sociale a livello internazionale troveremmo che esso è: “una professione basata sulla pratica e una disciplina accademica che promuove il cambiamento sociale e lo sviluppo, la coesione e l'emancipazione sociale, nonché la liberazione delle persone. Principi di giustizia sociale, diritti umani, responsabilità collettiva e rispetto delle diversità sono fondamentali per il servizio sociale. Sostenuto dalle teorie del servizio sociale, delle scienze sociali, umanistiche e dai saperi indigeni, il servizio sociale coinvolge persone e strutture per affrontare le sfide della vita e per migliorarne il benessere.”61

Gli orientamenti della politica sociale hanno trovato riferimento nella legge 328/00, una normativa che ha inteso superare il vecchio sistema assistenziale, delineando un quadro dei servizi sociali orientati all’integrazione sociale e socio-sanitaria ove strumento d’elezione da utilizzarsi si individua nel Piano di Zona.

Questo assetto istituzionale ha confermato l’importanza del professionista Assistente Sociale, unica professione che per tipo di conoscenze, per l’approccio ai problemi, per le modalità d’intervento che pone la persona al centro dell’intervento considerandola nel suo contesto di vita, e ha riconosciuto il Servizio Sociale come servizio Professionale e il Segretariato di Servizio Sociale tra i livelli essenziali da assicurare su tutto il territorio nazionale (art. 22 della legge 328/00).

Una conseguenza che può accadere, anche relativamente all’intervento interprofessionale con gli immigrati, stante i recenti orientamenti sociopolitici tesi ad una società più attenta alla sicurezza che alla solidarietà, è che diventi più difficile sostenere la legittimità dei diritti degli immigrati e il loro riconoscimento.

L’aspetto della conoscenza, dell’approfondimento della normativa e dei diritti riconosciuti sia a livello sovranazionale, come le Direttive e le Raccomandazioni dei principali organismi internazionali tra i quali l’ONU, l’ILO, la UE, le Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia sia nazionali e regionali (e le Circolari) in merito al tema dell’immigrazione e dei diritti dei migranti costituiscono essenziali elementi di riferimento.

Spesso gli operatori dei servizi presentano delle lacune sulla normativa vigente e sulle varie modalità di accesso possibili ai servizi da parte degli stranieri.

Questa ignoranza degli operatori circa i diritti degli immigrati, entrambi mutati tempo, -anche se alcuni diritti previdenziali sono stati estesi- limita il lavoro di rete che deve essere fatto tra i vari servizi e che è necessario negli interventi di aiuto, per usufruire in termini sinergici delle risorse, sempre più erose, che l’organizzazione del welfare mette a disposizione.

L’aspetto essenziale è che l’assistente sociale in questo quadro pone in riferimento al proprio codice deontologico al centro il principio che l’immigrato è anzitutto una persona ed in quanto tale deve essere considerato e trattato.

La dignità umana e i diritti umani sono tra loro legati da un rapporto indissolubile e intimo, la dignità è anche un valore di relazione, che va riconosciuto nel rispetto dell’altro (“l’alterità”): si tratta di recuperare un punto di equilibrio tra sicurezza ed accoglienza, salvaguardando comunque il diritto alla dignità soprattutto dei soggetti più deboli.

Nella pratica quotidiana non basta essere convinti che l’attuazione dei diritti è auspicabile, è necessario che ci siano le condizioni per la loro attuazione- tra cui la conoscenza normativa degli operatori- e che gli interessati siano posti in grado di manifestare l’esigibilità degli stessi. Ciò richiede non solo leggi che sanciscano i diritti ma anche la loro conseguente implementazione, e quindi lo studio delle condizioni, dei mezzi e delle situazioni in cui questo o quel diritto sociale possa essere realizzato.

Molti sono i nodi da affrontare rispetto ai diritti degli immigrati: essi rimandano sia al concetto di cittadinanza nazionale, sia alle richieste rispettose dei diritti universali collegati alle società post-nazionali che caratterizzano una conseguenza del processo di globalizzazione.

Essa richiama una “cittadinanza”, un’appartenenza parziale che alcuni studiosi identificano come la motivazione che sostiene le limitazioni poste all’accesso da parte degli immigrati ai diritti sociali e quindi al welfare del Paese dove risiedono.

Al proposito Linda Morris62 pone l’attenzione alle nuove disuguaglianze mettendo in luce

come questa parziale appartenenza fa emergere l’esistenza di uno status per gli immigrati che genera un sistema di “stratificazione civica” nell’accesso e/o beneficio di accesso ai servizi e alla distribuzione delle risorse tra cittadini autoctoni, semi-stranieri e stranieri.

A concorrere a questo sistema di “stratificazione civica” contribuisce l’estrema eterogeneità nelle leggi locali sull’immigrazione indica la presenza di profonde disuguaglianze, sia nell’accesso ai servizi sia nel profilo di salute della popolazione immigrata.

Ne derivano diversi regimi di integrazione locale degli immigrati a seconda dell’area regionale considerata.

È soprattutto a livello regionale, tuttavia, che devono essere definite le modalità con cui viene garantito agli immigrati l’accesso ordinario alle prestazioni preventive, curative e riabilitative. Le motivazioni che rendono difficile l’accesso dell’immigrato al Servizio Sanitario Nazionale sono di natura:

 culturale: limite della lingua, differente organizzazione dei servizi sanitari nei loro Paesi di origine e del concetto di salute e di malattia;

 burocratica: molti di loro non conoscono il funzionamento del SSN;  legale: paura per gli irregolari di essere segnalati o rintracciati.

In Italia fra le molte novità risulta problematica la disposizione che modifica le attuali regole in tema di salute dello straniero irregolare, aggiungendo una nuova fattispecie che considera reato l’ingresso irregolare e quindi illegale il soggiorno nel territorio dello Stato.

Quando la normativa obbligava nel pubblico, come la sanità, gli incaricati di pubblico servizio e i pubblici ufficiali a denunciare gli irregolari le implicazioni furono non da poco: entrarono in rotta di collisione in merito a principi e linee di comportamento rispettose dei diritti fondamentali dello straniero e conformi ai principi deontologici delle professioni di cura e aiuto alla persona, come previsto dalla legge.

Tale ultima previsione normativa si rivelò del tutto inadeguata a gestire o comunque a contenere il fenomeno degli esodi massicci di migranti specie dal Nord Africa: alcuni disposti 62 Morris L.Managing migration: civic stratification and migrant rights Routledge, London 2002

del pacchetto sicurezza ampliavano la discrezionalità ed anche la responsabilità dei singoli operatori.

Perciò a difesa dei principi valoriali e del codice deontologico dei professionisti (compresi gli assistenti sociali) intervennero gli ordini professionali.

La malattia è di per sé un elemento che può discriminare, soprattutto per chi non è in alcun modo tutelato.

La salute è un diritto inalienabile dell’individuo, appartenente all’uomo in quanto tale, dal momento che deriva dall’affermazione del più universale diritto alla vita e dall’integrità fisica, di cui rappresenta una delle declinazioni principali.

In linea con la dichiarazione dell’OMS (Conferenza Internazionale della Sanità, 1946), le principali normative internazionali a tutela della salute sanciscono il diritto alla stessa tra quelli fondamentali a favore dell’individuo e delle collettività e la sua tutela uno dei doveri degli Stati.

Eppure, nonostante tale affermazione di principio, migliaia di persone ne sono escluse.

Se prendiamo in considerazione il diritto alla vita familiare, aspetto esaminato ripetutamente in questo lavoro, esso è valutato come un diritto universale ma l’incorporamento negli ordinamenti giuridici dei Paesi europei, nei quali è passato attraverso diversi cambiamenti, lo rende lungi dall’essere assoluto.

Sono le legislazioni che definiscono a quale modello di famiglia si fa riferimento e quali sono i componenti che possono ricongiungersi.

La conseguenza è che la definizione di “famiglia”, influenzata dalla cultura di un determinato paese, circoscrive una cerchia si soggetti e quindi finisce per limitare l’immigrazione.

È da tener presente che i vari paesi membri della Comunità Europea hanno in proposito norme diverse tra loro.

Nonostante la legislazione previdenziale italiana ha ampliato il concetto di famiglia includendo le nuove unioni e riconoscendo alle stesse molti dei diritti di assistenza e previdenza, applicati alle famiglie “tradizionali”, persistono tuttavia, alcune limitazioni per le famiglie immigrate per accedere a determinate prestazioni assistenziali come il periodo di permanenza ed il numero dei figli a carico che devono essere minori.

In Italia la presenza di famiglie ricongiunte provoca cambiamenti nell’assetto familiare del singolo e/o della coppia genitoriale oltre alle normali tensioni fra individui vissuti per un periodo più o meno lungo in contesti diversi e che si ritrovano, ad un certo momento a convivere.

Essi sono chiamati a compiere un lavoro di riadattamento per vivere insieme, per convivere tra persone che il tempo e la distanza hanno trasformato e reso non più intime come in precedenza.

Già dalla primissima fase del ricongiungimento possono sorgere problemi legati al tipo di immagine che i figli avevano dei genitori spesso idealizzata ma soprattutto messa in discussione nel momento in cui il figlio si rende conto delle condizioni di vita reali del genitore nel Paese di immigrazione e cerca di riannodare l’idealità con la realtà.

Fornire un sostegno psico-sociale a vari livelli, da quello di orientamento scolastico a quello psicologico ed informativo rispetto all’accesso ai servizi sociosanitari, al momento del ricongiungimento richiede una riflessione su altri modelli familiari e sulle separazioni, in

particolare sugli elementi culturali e storici sul tema della separazione in Italia che sono molto diversi dalla separazione nel contesto della migrazione.

L'accesso e la fruibilità dei servizi sanitari e sociali, previsti dalle leggi italiane, vengono spesso inficiati sia a causa dalla mancanza di informazione e/o di consapevolezza dei propri diritti da parte degli immigrati/e, spesso, come già specificato, perché parecchi operatori non hanno una adeguata informazione in merito alla normativa vigente che indica le diverse possibilità e modalità di accesso alle prestazioni per stranieri.

È evidente che i servizi sociali assumono un ruolo centrale nella presa in carico ma anche nell’orientamento e smistamento degli utenti stranieri rispetto alle diverse agenzie di welfare del territorio nel pubblico e nel privato sociale.

Il problema di fondo sembra oggi non solo quello di giustificare i diritti, quanto quello di proteggerli in una situazione in cui le risorse economiche e sociali sono sempre più limitate e i servizi si sentono sotto assedio.

È necessario che gli orizzonti della pratica professionale risultino non compressi all’interno di un prestazionale basato sull’emergenza e più attenti alla quotidianità; meno centrati sulla convinzione che l’esperienza migratoria riveste un carattere transitorio e più consci della permanenza, con attenzione all’aspetto sia “multigenerazionale” che della diversità culturale; meno concentrati sulla prima accoglienza e più impegnati a investire a lungo termine nell’inclusione sociale; impegnati, nel tempo, sul contrasto alla discriminazione e alle disuguaglianze sociali su base nazionale, etnica, linguistica e religiosa.

Per poter sviluppare una relazione d’aiuto professionale è necessario un reciproco riconoscimento tra assistente sociale (senza escludere altre professioni di cura) ed immigrato al fine di non rimanere intrappolati nella rappresentazione dell’altro secondo stereotipi; è altresì importante tenere conto della specificità bibliografica dello straniero e non pensare di conoscere il contesto socioculturale solo se si conosce il luogo di provenienza.

Questo è stato ed è uno dei problemi nella realtà italiana: affinché questa situazione non si trasformi in discriminazione istituzionale, cioè quella forma di esclusione dai diritti di cui gli operatori non si sentono responsabili perché “non dipende da loro” ma dalle norme o dalla burocrazia, sono necessarie prassi attive d’implementazione delle leggi da parte degli operatori.

I ragazzi di seconda generazione avendo a disposizione un bagaglio culturale acquisito nel nuovo paese, ove cercano di trovare una loro dimensione, vivono questa situazione con profondo disagio personale e dissonanza con le istituzioni a cominciare dalla scuola adottando un ripiegamento all’interno della propria cultura d’origine versus un ‘assimilazione lineare in conflitto continuo con sé stessi per cercare di lenire il senso di ingiustizia. (caso di H.J).